Prima ti laurei, poi emigri e, all’occorrenza, ti licenzio
Data: Martedì, 02 febbraio 2010 ore 08:47:15 CET
Argomento: Rassegna stampa


Tra il 1990 e il 2005 quasi due milioni di persone sono emigrate verso il centro-nord; tra il 2000 e il 2005, in particolare, oltre 80mila laureati (l’1,2% dei residenti con tale titolo di studio) hanno abbandonato le regioni del Sud in cerca di un’opportunità lavorativa. E la cifra potrebbe essere ben maggiore se si considerano anche i cosiddetti “pendolari di lungo raggio“, quelli cioè che vanno a lavorare al nord senza cambiare la residenza d’origine. Ad esempio nel 2007, circa 140mila residenti nel Mezzogiorno (pari al 2,3 per cento degli occupati dell’area) lavoravano al Centro Nord. Paradossalmente, nell’ultimo decennio, solo l’aumento dei prezzi delle case e il diffondersi delle varie forme di precariato hanno fatto da argine, sia pur parziale, a questa ondata migratoria. Analogamente, anche l’afflusso di manodopera straniera ha frenato solo le tentazioni migratorie dei giovani meno scolarizzati. Rispetto al passato si è inoltre modificata la direzione degli spostamenti: è diminuita la forza attrattiva delle regioni del triangolo industriale, con l’eccezione della Lombardia, ed è aumentata quella delle regioni del Nord Est, a partire dall’Emilia-Romagna. I laureati si dirigono prevalentemente verso le grandi aree metropolitane del Centro Nord, come Roma, Milano e Bologna, dove è maggiormente aumentata la domanda di lavoro più qualificato da parte del settore pubblico e del terziario avanzato. E’ chiaro che l’attrattiva è costituita dalle maggiori opportunità di lavoro esistenti nel Centro-Nord e dunque dalla persistenza, nel Mezzogiorno, di un disagio storico legato alla mancanza del lavoro ed al ritardo di sviluppo e crescita economica. Non è in nome di un meridionalismo piagnone, obsoleto e autolesionista, che riportiamo queste notizie: sappiamo bene quanto la responsabilità di questa situazione ricada sulle spalle della nostra stessa classe dirigente. Ma in questo caso, l’impoverimento del Mezzoggiorno cresce in modo esponenziale: si tratta infatti della perdita di persone che, avendo già conseguito una formazione di livello medio-alto a totale carico delle famiglie e della società meridionale, privano il Sud del più importante dei capitali umani, quello intellettuale, ed entrano nella fase produttiva della loro vita a tutto vantaggio del Nord. Se poi incrociamo questi dati con quelli relativi alla recessione in corso, le tinte fosche di questa autentica tragedia generazionale che stanno vivendo i giovani sotto i 35 anni si incupiscono ancora di più, con buona pace delle superficiali fanfaronate del fantuttone ministro Brunetta. Un’inchiesta di F. Fubini e G. Stringa pubblicata dal Corriere della sera – La crisi? In Italia la pagano i giovani - ci informa infatti che la minoranza costituita dalle generazioni nate fra il 1974 e il 1994 sta assorbendo l’intero costo della più grave crisi economica del dopoguerra, sia in termini di occupazione che nel livello delle retribuzioni. Fra il 2008 e il 2009 tutte le perdite nette di posti (il saldo fra assunzioni e licenziamenti) si sono concentrate fra gli occupati atipici e temporanei, ed è lì che chi ha meno di 35 anni è in netta maggioranza: quasi il 60% della popolazione dei precari è nato dopo il ‘74. Ebbene nella fascia di popolazione di chi ha fra i 15 e i 24 anni, il numero degli occupati è sceso dell’11,6% e in quella fra i 25 e i 34 anni si è ridotto del 5,5%. Invece fra gli adulti e gli anziani in età lavorativa il tasso di occupazione è addirittura salito (dello o,9%) mentre intanto l’economia crollava quasi del 5%. Su 1,87 milioni di senza-lavoro italiani, oltre un milione di persone hanno meno di 34 anni; solo 840 mila ne hanno di più. Quasi il 6o% dei disoccupati sono persone giovani. Gli adulti e gli anziani della fascia 35-64 anni sono molto più numerosi, 25,5 milioni. Il popolo dei nati fra il ‘74 e il ‘94 è invece di appena 14 milioni, eppure fornisce il grosso dei disoccupati. Tutto ciò è direttamente connesso al diffondersi di forme di lavoro precario, atipico, temporaneo, facili da rescindere alle prime difficoltà. Quasi uno ogni quattro lavoratori dipendenti sotto i 35 anni ha un contratto temporaneo, mentre sopra i 35 anni lo ha solo il 7,7% degli assunti. Il risultato? Nel 2009 il numero dei dipendenti precari è crollato (meno 10,5% per gli under 35, meno 5,8% per gli over 35) e anche quello dei dipendenti permanenti è diminuito, ma in questo caso è successo solo per i giovani. Per gli over 35, paradossalmente, il numero dei lavoratori con un contratto permanente è invece addirittura cresciuto malgrado la crisi (più 2,4%). La stessa tendenza si nota del resto anche nell’ andamento delle retribuzioni: la differenza nella retribuzione media giornaliera fra un contratto permanente e uno a tempo determinato è salita da 18,17 a 21,38 euro; la busta-paga dei lavoratori dipendenti permanenti è cresciuta del 7,22%, mentre quella dei dipendenti a tempo determinato solo del 4,04%. Sembrano quindi pesare le preferenze generali di una società anziana per i suoi membri anziani. L’età media nel Paese è infatti è la terza più alta al mondo, 43,3 anni. Forse è dunque normale che emergano scelte collettive che favoriscono le maggioranze anziane, più organizzate, a scapito delle minoranze giovani e disorganizzate, ma quanto è lungimirante? Ci si potrà meravigliare se, in un momento di esasperazione, questa generazione di presunti bamboccioni salterà al collo degli egoisti matusa? PS: L’articolo del Corriere è stato linkato al sito della rassegna stampa del Governo mentre il primo link porta al sito della Banca d’Italia: il ministro Brunetta, impegnato com’è a fare la spola tra Venezia e Roma, non ha forse il tempo di documentarsi adeguatamente, ma almeno i siti istituzionali potrebbe farli consultare ai suoi collaboratori.





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