Dal Blog di G. Israel: La sfida della scuola e la questione nazionale
Data: Mercoledì, 27 gennaio 2010 ore 08:36:58 CET
Argomento: Rassegna stampa


Qualche giorno fa è scoppiato il caso di una scuola elementare di Noventa Padovana in cui la maestra ha assegnato come compito per casa la traduzione in dialetto veneto di una poesia. In sé, l’episodio non meriterebbe un clamore particolare. Esso costituisce soltanto un sintomo di come una malintesa autonomia scolastica abbia ridotto la scuola a un emporio di attività integrative (in questo caso dedicate alla “valorizzazione delle tradizioni locali”) che penalizza soprattutto le materie portanti, come la lingua e la letteratura italiana, la matematica e le scienze, la storia, la geografia. Quel piccolo episodio assume importanza in relazione ai risultati di un’analisi condotta dall’Accademia della Crusca assieme all’Invalsi (l’Istituto per la valutazione), da cui risulta che, su un importante campione dei temi di maturità del 2007, circa il 58% conteneva errori gravissimi di grammatica, sintassi, organizzazione logica e persino di ortografia, insomma da bocciatura senza appello; mentre soltanto il 20% dei temi era stato valutato insufficiente negli esami di stato. Non soltanto questo dato – che conferma quel che qualsiasi docente universitario constata misurandosi con gli studenti che la scuola gli consegna – non ha ricevuto l’attenzione che merita. Non soltanto i riformatori che hanno fabbricato la scuola che produce questi risultati continuano a far finta di nulla riproponendo imperterriti i loro modelli. Ma molti commenti attorno all’episodio di Noventa Padovana sono stati improntati a uno sprezzante fastidio: la cosa più importante sarebbe il recupero delle tradizioni locali, chi se ne importa dell’ossessione per la lingua italiana. C’è chi crede che si possa costruire un futuro basato sui dialetti e l’inglese; non capendo che, se è possibile che un futuro lontano riservi una realtà sociale e linguistica diversa, per ora, e per un bel pezzo, la forza culturale, scientifica e tecnologica di un paese poggia, e poggerà, sugli stati nazionali. Ho fatto di recente un viaggio in Sud Africa e mi ha colpito il fatto che un paese uscito da pochi anni da drammi epocali, e che ne porta i segni tangibili, sia proiettato verso un futuro di costruzione unitaria che non si attarda alle recriminazioni, per quanto giustificate. «Proudly SouthAfrican», orgogliosamente SudAfricano, si legge dappertutto. Invece da noi si sta preparando il ricordo dell’Unità d’Italia in un’orgia autodistruttiva di svalutazione di quel fatto storico e di recriminazioni virulente (dopo 150 anni!) per eventi incomparabili con l’orrore dell’apartheid (durato fino a pochi anni fa). È legittimo ripensare storicamente l’Unità d’Italia, ma la storia la fanno gli storici e non, a colpi d’accetta, sindaci che cancellano la dedica di piazze a Garibaldi, mentre resta l’intitolazione di vie e scuole a personaggi ben più discutibili come Palmiro Togliatti o Nicola Pende. Invece di far storia con le delibere e gli occhi volti al passato e con sterili recriminazioni, non sarebbe meglio occuparsi di costruire il futuro con spirito «proudly Italian»? Se siamo qui a parlare del futuro del paese e a paventarne il declino è perché il punto a cui siamo giunti lo dobbiamo proprio al processo che è di moda denigrare. Mi limito a un breve accenno sul tema della scienza. L’Italia è stata il primo paese a creare un’accademia delle scienze (l’Accademia dei Lincei), che però ha dovuto subito chiudere i battenti proprio perché non sostenuta da uno stato nazionale, mentre le accademie scientifiche di punta si affermavano nelle grandi nazioni europee come la Francia e l’Inghilterra. A metà dell’Ottocento, l’Italia, malgrado i suoi Galilei e Volta, era un paese scientificamente marginale, senza accademie e università di rilievo, senza un sistema di istruzione moderno, con una cultura scientifica parcellizzata e irrilevante. Nel Settecento, neanche il Regno di Piemonte era riuscito a trattenere uno dei suoi più grandi matematici, Lagrange, trasferitosi a Parigi. Le cose cambiarono in pochi decenni, dopo l’Unità, per merito di un manipolo di scienziati che studiarono e importarono i grandi modelli europei, per merito di personalità come i matematici senatori Luigi Cremona – ministro dell’istruzione e fra i creatori delle scuole di ingegneria – e Vito Volterra, fondatore di tutte le principali istituzioni scientifico-tecnologiche del paese, a partire dal Consiglio delle Ricerche. A fine Ottocento, l’Italia era al terzo posto mondiale in matematica e si stava affermando nella fisica al punto che la fisica nucleare moderna, con Fermi e i suoi colleghi, sarebbe stata una creazione italiana e grandi risultati sarebbero stati ottenuti in biologia, come mostra il fatto che i grandi Nobel della biologia molecolare moderna sono in gran parte allievi della scuola di Giuseppe Levi. Questo è accaduto perché un governo nazionale ha sostenuto questa impresa e ha deciso di creare un sistema di istruzione moderno e unitario. Ed è accaduto perché l’Italia disponeva già di un patrimonio che poche altre regioni del mondo avevano: un lingua unitaria che permetteva la comunicazione al di là della frammentazione dei dialetti, ed una lingua sostenuta da una delle culture più importanti del mondo. Ripeto: se noi oggi possiamo discutere di rischi di “declino” di un paese che ha una posizione mondiale di tutto rilievo, e di come porvi rimedio, è perché abbiamo raggiunto questa posizione grazie a quanto fatto durante il processo unitario. Ancor più rapidamente possiamo ritornare a una condizione di assoluta marginalità se ci accingiamo a distruggere quel che abbiamo costruito non comprendendone il valore e anzi svalutandolo irresponsabilmente. Nessuna persona seria può disprezzare le tradizioni locali e i dialetti, che debbono essere preservate e valorizzate come elemento importante delle nostre radici culturali. Ma l’idea di studiare la fisica in friulano o in inglese e la storia in siciliano o in inglese, marginalizzando la lingua che viene appresa in modo naturale in famiglia, tanto più dopo che decenni (anche di opera meritoria della televisione) l’hanno consolidata sempre di più come tessuto unitario del paese, è irresponsabile e autodistruttivo. Un paese di dialetti per la vita quotidiana e di inglese per le comunicazioni professionali non è soltanto un’idea velleitaria, perché le mutazioni linguistiche sono processi storici lenti che non si prestano facilmente ad essere forzati; ma prospetta un futuro di drammatico declino culturale e di subordinazione scientifico-tecnologica. Perciò non si tratta di stracciarsi le vesti per la vicenda veneta, quando di preoccuparsi – e molto – per la scarsa attenzione al sondaggio dell’Invalsi e dell’Accademia della Crusca che, nel divario con gli esiti dei giudizi effettivi, mostra in quanto poco conto venga tenuto l’apprendimento della lingua. Come ha osservato la professoressa Elena Ugolini, commissaria dell’Invalsi, quei risultati non mettono in luce soltanto povertà di pensiero, ma assenza di strumenti basilari di logica e di espressione: «ragazzi così che futuro possono avere?». Questa è l’emergenza cui la scuola deve far fronte e che deve essere percepita da tutti come una questione nazionale, assieme a quella dell’analfabetismo matematico. Sono emergenze cui non si fa fronte con escogitazioni di metodologia didattica o burocratico-aziendalistiche, come il programma Merito e Qualità per la matematica improvvidamente varato dal Ministero. Bensì comprendendo che è sui contenuti dell’insegnamento che si vince la scommessa. E questo, nel caso dell’italiano, significa ovviamente studiare la lingua ma anche abituare e appassionare gli alunni alla ricchezza e alla complessità dell’espressione linguistica acquisita attraverso la lettura dei testi letterari. Insomma, rammentando una buona volta che uno dei compiti principali della scuola è la trasmissione della cultura.





Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-19705.html