Precariato e nuove regole ecco perché non ci sono più le maestre di una volta
Data: Lunedì, 18 gennaio 2010 ore 09:00:00 CET
Argomento: Redazione


CATANIA. Sfiancati da una precarietà che talvolta si trascina fino alle soglie della pensione; umiliati da una professione che ha perso il prestigio sociale, con lo stipendio senza più alcun potere d’acquisto; demotivati da un sistema che destabilizza il rapporto con i bambini e con le
famiglie; eppure sempre innamorati del proprio lavoro e consapevoli di un ruolo che - nonostante tutto - resta decisivo
nella nostra società. Ecco: prima di dire che non ci sono più i maestri di una volta, appuntiamoci questi due o tre concetti.
Che magari ci spiegheranno perché loro, gli insegnanti di scuola elementare (oggi chiamata primaria), sono forse il simbolo più triste di un’Italia che non c’è più. Quella del dettato in bella scrittura e delle tabelline a cantilena, quella della
maestra-chioccia con la gonna sotto il ginocchio e il cuore sopra ogni altra cosa, quella senza i Pof ma con meno errori di
grammatica. Nessun revanscismo da Libro Cuore, ma sui banchi c’è tanta nostalgia per la maestra che fu. Come quella di
Alfredo Paternò, 41 anni, insegnante elementare con cattedra annuale a Vercelli e famiglia a Militello Val di Catania.
Quando la "maestra Maria" parlava con la madre del piccolo alunno erano pomeriggi da brivido: «In italiano tutto bene,
ma l’aritmetica...». Dopo aver ascoltato in silenzio le parole dell’insegnante, un rispettoso saluto. E poi a casa: punizione
esemplare e ripasso a raffica. E oggi? «Quando segnalo una carenza di apprendimento a una mamma - racconta l’insegnante - sette volte su dieci la risposta è:
"Ma non è che lei non ha spiegato bene?".
Ecco, questo rapporto con la famiglia, quella che un termine forse sorpassato, si definiva l’unica agenzia educativa oltre alla scuola, è forse il segno più chiaro di come è cambiato il nostro lavoro».
Ma chi sono i maestri e le maestre di oggi? Da una parte gli oltre 240mila dipendenti statali con contratto a tempo indeterminato; dall’altra una massa di precari (30mila quelli che l’anno scorso hanno ricevuto un incarico a tempo determinato), respinti alla frontiera della stabilità lavorativa, senza nemmeno il permesso di soggiorno della serenità familiare.
«La nostra - ammette Maria Grazia Alcantara, insegnante di Catania - è una delle professioni più bistrattate e difficili, a partire dai criteri di accesso. Ognuno di noi, prima di sedersi su una cattedra definitiva e "serena", arriva sfiancato, demotivato, talvolta umiliato. Anche prima c’era la gavetta: le supplenze in posti assurdi, il concorso. Ma dopo qualche anno arrivava la sistemazione e un docente poteva quindi investire su di sé, sulla propria professionalità, sulla voglia
di svolgere bene un lavoro che si fa per amore e per passione, non certo per diventare ricchi...». Per capire le parole di Maria Grazia basta andare, tra fine agosto e settembre, alle convocazioni per le supplenze. Migliaia di docenti ammassati
in sedi anguste, con la polizia che prima o poi arriva sempre e con l’aria irrespirabile che si mischia al sudore e alla
paura di non farcela. «Quest’anno niente cattedra, sono tornata indietro: supplenze brevi, in qualsiasi posto ti chiamino. O
accetti o resti a casa, non c’è altra scelta».
Eppure dietro la lavagna ci finiscono loro: peggioramento della qualità dell’insegnamento e poca attenzione alle vecchie
regole base, a partire dalla grammatica.
«I bambini di oggi hanno mille input diversi - spiega Paternò - rispetto a un modello di conoscenza che prima dipendeva
fortemente dal maestro. La televisione, internet e i telefonini, che cominciano a comparire negli zainetti anche degli alunni di quarta, rendono i bambini molto più sensibili alle sollecitazioni del mondo». Ma meno rispettosi verso i loro insegnanti. Anche verso chi sta li da quasi quarant’anni. Come Angela Coco, 63 anni e 38 d’insegnamento.
Primo stipendio: 117mila lire, sostanzioso contributo per comprare una Fiat 126. «All’inizio della mia carriera - racconta la
maestra Coco - quando entravo in una classe di trenta alunni non volava una mosca. Oggi le classi sono meno numerose
ma più incontrollabili. È il segno dell’evoluzione, o forse dell’involuzione dei tempi e questo si nota anche nel rapporto
con le famiglie». Già, il famigerato rapporto con le famiglie. «La diffusione della cultura di massa - spiega la Alcantara
- ha reso i genitori più consapevoli ma anche più sospettosi e meno rispettosi. E ciò condiziona anche la vita di
classe: forse c’è troppa pedagogia e poca educazione...».
Ma è sui metodi d’insegnamento che le visioni della vecchia e della nuova generazione si allontanano. «Poche tabelline?
Dipende dai programmi e dall’organizzazione del lavoro», sostengono i giovani insegnanti. Che approfondiscono il
concetto: «Fra progetti multimediali, recite e spettacoli non sempre c’è la possibilità di ripetere cinque volte la lezione
sulla "a" con l’acca e senza acca. Si deve andare avanti, anche se qualcuno avrebbe bisogno di qualche ripetizione in più».
Eppure la maestra più esperta sostiene: «Sì, ci sono i laboratori e i progetti. Forse troppi. Ma la rivoluzione dei moduli un
effetto positivo l’ha avuto: ognuno di noi ha una maggiore specializzazione nella propria disciplina e quindi ha tutti gli
strumenti per dare ai bambini le nozioni basilari. Anche la grammatica e le tabelline...». La maestra Angela oggi è alle
soglie della pensione col massimo dell’anzianità di servizio. «Potrei anche lasciare l’anno prossimo, ma ho una prima
e mi piacerebbe portarla fino alla fine, come ho fatto con tutte le classi che ho avuto. E poi l’ho promesso ai genitori: alcuni
di loro sono stati anche miei alunni, loro ci tengono. Io sono sempre la loro maestra...». Senza le rate della 126 da
pagare, ma con la gonna sempre sopra il ginocchio. E un immutato amore per quella cattedra che scotta.

La Sicilia del 17 gennaio 2010, MARIO BARRESI






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