IL RAPPORTO TRA CINEMA E FILOSOFIA: I CONCETTIMMAGINE NELLA RIFLESSIONE DI JULO CABRERA
Data: Giovedì, 12 novembre 2009 ore 00:00:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Il rapporto tra cinema e filosofia secondo Julio Cabrera

 1. La filosofia "patica"

Nella Prefazione al suo Cine: 100 años de filosofìa a través del anàlisis de pelìculas [1], Julio Cabrera chiarisce che la sua opera non è da intendersi come storia filosofica del cinema o come storia cinematografica della filosofia, ma come "introduzione al dibattito su quei problemi fondamentali della filosofia classica e contemporanea" che hanno tradizionalmente occupato da secoli i filosofi. In tal senso il riferimento al cinema è funzionale ad un certo modo di intendere il discorso filosofico, che viene precisato nella formula della "filosofia patica" contrapposta a quella "apatica", nel senso di presenza o assenza di pathos, cioè di partecipazione emotiva o distacco cartesiano. Egli indica una cordata di "pensatori cinematografici" cha da Schopenhauer porta a Nietzsche e Freud, da Kierkegaard ad Heidegger [2].

Ma che cosa caratterizza la filosofia o il pensatore "patici"?

Per Cabrera i pensatori che formano questa cordata sono legati dal fatto che hanno "rimesso in questione la razionalità puramente logica (ossia il "logos") con la quale il filosofo affrontava abitualmente il mondo, al fine di introdurre nel processo di comprensione del reale anche un elemento affettivo (o "patico")"[3].

Questi filosofi "patici" non hanno solo attaccato e cercato di distruggere la razionalità filosofica occidentale, cioè "non si sono limitati a tematizzare una componente affettiva, ma l’hanno di fatto inserita nella razionalità come una chiave essenziale di accesso al mondo. Il pathos ha insomma smesso di rappresentare un ‘oggetto’ di studio al quale ci si possa riferire dall’esterno, ed è diventato invece una forma di "avviamento" [4].

Se consideriamo dunque l’elemento "affettivo" o "patico" come carattere nuovo della riflessione filosofica, tanti potrebbero essere i riferimenti a sostegno di questo punto di vista (ad esempio: la scelta kierkegaardiana, il rapporto ontico/ontologico heideggeriano e la "mediazione" della cura …), tuttavia due potranno opportunamente indicare un possibile percorso.

Innanzitutto il giovane filologo Nietzsche, che nel 1873 "produce" la sua breve considerazione su "Verità e menzogna…", conosciuta postuma, forse non pienamente compiuta, ma sicuramente ha in sé il nucleo "duro" della sua filosofia "col martello".

Ecco cosa scrive in due punti:

"Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state potenziate poeticamente e retoricamente,che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche vincolanti: le verità sono illusion di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. […]
L’uomo intuitivo invece, ergendosi in mezzo ad una civiltà, raccoglie dalle sue intuizioni, oltre che una difesa dal male, un’illuminazione, un rasserenamento, una redenzione, che affluiscono incessantemente . Senza dubbio egli soffre più violentemente, quando soffre: egli soffre anzi più spesso, poiché non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo nel medesimo pozzo in cui era caduto una volta. Nel dolore poi è tanto irrazionale quanto nella felicità: egli grida forte e non trova consolazione." [5]

In questi due passi c’è quasi lo schema di lavoro della sua filosofia successiva, ma per noi che ci occupiamo dei "pensatori patici" troviamo innanzitutto che la verità è abbellita "retoricamente" e "poeticamente", cioè che essa deve convincere e per convincere deve coinvolgere, in altre parole la ragione lucida e ariosa non basta se non si veste "esteticamente", cioè deve piacere; poi c’è l’uomo chiuso nel "cuore della civiltà", egli "soffre più intensamente, quando soffre" perché il "patire" nel senso pieno è avere sensibilità, cioè sentire se stessi pulsare col mondo. C’è di più, ma a noi interessava qui evidenziare questo specifico aspetto.

Un secondo riferimento è la celebre interpretazione di Ricoeur dei "maestri del sospetto". Leggiamo:

[Marx, Nietzsche e Freud] liberano l’orizzonte per una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità, non solo per il tramite di una critica "distruttrice", ma mediante l’invenzione di un’arte di interpretare […]. A partire da loro, la comprensione è un’ermeneutica; cercare il senso non consiste più d’ora in poi nel compitare la coscienza del senso, ma nella decifrazione delle espressioni. Il confronto andrebbe dunque fatto non solo fra un triplice sospetto, ma fra una triplice astuzia. Se la coscienza non è quale crede di essere, tra il patente e il latente deve essere istituito un nuovo rapporto, che corrisponderebbe a quello che la coscienza aveva istituito tra l’apparenza e la realtà della cosa. La categoria fondamentale della coscienza, per tutti e tre, è il rapporto nascosto-mostrato o, se si preferisce, simulato-manifesta; […] la loro parentela sotterranea procede più lontano; tutti e tre iniziano con il sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano con l’astuzia della decifrazione, e infine, anziché essere dei detrattori della "coscienza", mirano a una sua estensione. [6]

C’è Marx, uno spunto in più, e soprattutto il riferimento all’invenzione "di un’arte di interpretare" che si confronta, coscienza in situazione, "tra il patente e il latente", con il "rapporto mostrato-nascosto" o "simulato-manifesto" per mirare all’estensione della coscienza. Mostrare, vedere, interpretare, estensione della coscienza: cinema!

Perché il cinema?

Per Cabrera è evidente che la filosofia "patica" deve percorrere nuove vie linguistiche, non abbandonare ma deviare in qualche modo dalla fissazione delle idee filosofiche in forma letteraria, in questo senso il cinema può incontrare la filosofia in forza del fatto che "il cinema utilizza una ragione logopatia, e non solo logica"(pensare il concetto "temporalmente" e metterlo "in moto" in senso hegeliano), esso può avere "una valenza strategica" se verrà caratterizzato "secondo propositi squisitamente filosofici" [7]

Per raggiungere lo scopo introduce i "concettimmagine".

2. I "concettimmagine"

 

L’incontro tra il cinema e la filosofia non è recente, se dovessimo individuare un punto d’inizio, un’indicazione progettuale, dovremmo senz’altro riandare a Gilles Deleuze e all’ampia analisi condotta nei suoi due volumi sul cinema: Cinema 1.L’immagine-movimento e Cinema 2. L’immagine-tempo, entrambi tradotti in italiano da Ubulibri rispettivamente nel 1984¹ e nel 1989¹ [ edizioni originali 1983 e 1985].

Nella Premessa a Cinema 1 così chiarisce il suo progetto:

Questo studio non è una storia del cinema. E’ una tassonomia, un tentativo di classificazione delle immagini e dei segni. […] Il cinema impone nuovi punti di vista su questo problema. […] Ci è sembrato che i grandi autori di cinema potevano essere paragonati non soltanto a pittori, architetti, musicisti, ma anche a pensatori. Essi pensano con immagini-movimento e con immagini-tempo, invece che con concetti.[8]

Nel passo si fanno riferimenti a Peirce e soprattutto al Bergson di Materia e memoria da cui sono riprese l’immagine-movimento e l’immagine-tempo, anche se Deleuze ci ricorda "la critica troppo sommaria che Bergson farà un po’ più tardi del cinema (ibidem). In particolare poi in alcuni capitoli possiamo trovare, in nuce, una prima approssimazione problematica ai concettimmagine di Cabrera: Cinema 1 – cap. IV "L’immagine-movimento e le sue tre varietà", cap. IX "L’immagine-azione: la grande forma" e cap. X "L’immagine-azione: la piccola forma"; Cinema 2 –cap. VII "Il pensiero e il cinema" e cap. VIII "Cinema, corpo e cervello, pensiero". Nell’opera di Deleuze c’è molto di più, i passi indicati hanno solo lo scopo di mostrare che un tentativo era già stato avviato, forse con il limite di pensare troppo al cinema d’autore, cosa che Cabrera non fa, e di operare a tratti più come critica alla filosofia bergsoniana che come consapevole tentativo di aprire strade nuove alla riflessione filosofica. Eppure il tentativo c’è ed è fondato e stimolante, il problema è capire che cosa abbia impedito uno sviluppo successivo, tenuto conto che la critica cinematografica si è chiusa in una sua rigida specializzazione e che la filosofia ha privilegiato di più il rapporto con la letteratura (e la poesia).

Nell’avvicinarci alla definizione di concettimmmagine, non è privo di stimoli il seguente passo di Italo Calvino, tratto dalle Lezioni americane:

Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata "vista" mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film. Un film è dunque il risultato d’una successione di fasi, in questo processo il "cinema mentale" dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate dalla camera e poi montate in moviola. Questo "cinema mentale" è sempre in funzione in tutti noi, - e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema - e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vita interiore.[9].

Il testo delle lezioni, ricordo, è databile al 1985.

Il "concetto" di "cinema mentale" è interessantissimo, nel senso che, al di là degli aspetti tecnici e linguistici specifici del cinema, Calvino vuole sottolineare il legame profondo tra il film che si proietta e il mondo interiore di chi guarda (Platone? Il circolo ermeneutico heideggeriano?), inoltre è per me stupefacente l’emergere di un riferimento kantiano, chissà quanto consapevole e ricco di stimoli: "Un film è dunque il risultato di una successione di fasi", nella quale "il <cinema mentale> dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva" (categorie – immaginazione – sintesi trascendentale?).

Ma veniamo a Cabrera.

Intanto per Cabrera un concettimmagine corrisponde ad un film nel suo contenuto generale, in altre parole di ogni film è possibile individuare una vicenda portante, un’esperienza dominante, intorno alla quale ruotano altre vicende secondarie, ma tutte collegate alla principale. Per questo motivo ci sono film sull’amore, sull’odio, sulla guerra, sulla morte, sulla prostituzione ……

Questa corrispondenza intende evitare un’attenzione specialistica ai dettagli, agli aspetti specifici del codice filmico per concentrarsi filosoficamente solo sulla rappresentazione (sul racconto) di un’esperienza umana, perché il concettimmagine, per Cabrera si regge sull’attenzione all’esperienza umana in situazione.

In che senso?

Per Cabrera la premessa è che gli aspetti del reale, secondo i filosofi "cinematografici", non vanno solo enunciati logicamente, ma devono produrre "comprensione logopatia", cioè "non rappresentano semplici <impressioni> psicologiche ma esperienze fondamentali che sono tutt’uno con l’umana condizione, cioè con l’umanità in quanto tale, e posseggono pertanto una diretta valenza cognitiva"[10]

Esprimendo visivamente un’esperienza umana in situazione, il concettimmagine è difficile da definire in quanto ha, scrive Cabrera, la funzione di avviare la comprensione verso le situazioni e i percorsi più imprevisti e imprevedibili (Heidegger), in tal senso è nozione mobile, dinamica, cinema nel senso letterale del termine, chiuso (!?) nell’idea di movimento (ibidem).

Un film, per Cabrera, non ha valore filosofico perché utilizzando strumenti critici adeguati siamo in grado di compiere operazioni razionali di analisi e sintesi, cioè in altre parole di aggiungere una nuova fonte d’indagine. Un film, come concettimmagine, è filosofico in quanto, dati dei personaggi che agiscono in una situazione (la messa in scena), ci presenta un’esperienza possibile, che ci coinvolge proprio perché potremmo viverla.

Con chiarezza scrive:

" Il cinema rappresenta però la pienezza di un’esperienza viva, dal momento che include in esso la temporalità e il movimento tipici del mondo reale con tutte le difficoltà annesse, anziché limitarsi ad offrire tutti gli ingredienti necessari affinché lo spettatore (o il lettore) li utilizzi per creare l’immagine, che esso offre già direttamente"[11]

L’esperienza di cui il film è rappresentazione non ha nulla a che fare con la realtà è pura astrazione, è "impressione di realtà", domandarsi se la vicenda sia vera o falsa è come, per Popper, considerare inconfutabile la metafisica, non si va da nessuna parte, bisogna assumerla così come si presenta. Come scrive Cabrera:

In filosofia, proprio come nell’ermeneutica o nella psicoanalisi, si accetta tranquillamente che il cammino verso la verità e l’universalità possa essere molteplice e, spesso, paradossale; e che si possa sapere qualcosa a proposito del mondo o dell’essere umano tanto con la verità che con supposizioni inconsuete o con l’immaginazione" [12]

Il cinema e quindi il concettimmagine possono, secondo Cabrera aiutare la filosofia a percorrere nuove strade di senso, perché

"L’elemento patico dell’immagine "apre"uno spazio di senso, ci obbliga a considerare ciò che abbiamo tralasciato; ci obbliga, per esempio, a sentire che cosa vuol dire essere in guerra o che cosa significa essere aiutati dagli altri. […]
La problematicità introdotta dal cinema nelle indagini filosofiche tradizionali viene dalla sovversione ad opera del particolare, del sensibile, della molteplicità di prospettive, della sua incredibile capacità di adesione al vissuto, di trasformazione di un’idea in un’esperienza viva, comprensiva e dolente, della sua capacità di rendere difficoltosa ed ostacolare l’Universal-idea, insomma di impostare le possibilità di un mondo facendolo convivere con altri mondi" [13].

Caratteri del concettimmagine per Cabrera [14]

a. Coincide con l’intero film

b. Esprime un’esperienza possibile, di cui è la rappresentazione mobile ed articolata su piani molteplici

c. Mostra una vicenda che deve produrre un impatto emotivo, deve spingere alla riflessione, perché un film rinvia sempre ad un’idea più generale

d. Ciò che è mostrato, l’esperienza umana in situazione, riguarda la possibilità, cioè sono presentate vicende che potrebbero verificarsi; in tal senso è centrale il personaggio in quanto veicolo dell’identificazione

e. L’esperienza possibile non è da intendersi in maniera realistica, cioè come realizzabile in modo identico; il concettimmagine, e dunque un film, esprimono un alto grado di astrazione; potremmo dire che tutti i film sono irreali o fantastici al di là del genere

f. Gli aspetti tecnici che potenziano nel film l’interpretazione "patica" sono: il multiprospettivismo, la manipolazione dello spazio e de tempo e il montaggio. Tutti elementi che escludono un carattere realistico, in qualche modo "naturale", nell’immagine filmica.

 

 

 







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