L’email morirà presto. Lo annunciano ECM e soci
Data: Giovedì, 29 ottobre 2009 ore 12:00:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


La posta elettronica che oggi tutti conosciamo, che adoperiamo in Rete, è un sistema da considerarsi ormai ultra-vetusto. Si ritiene che il segno “@” (che si chiama at, inteso come “presso”, e non “chiocciola”) sia stato impiegato per la prima volta al fine di inviare un messaggio di posta elettronica nel 1971, tra due computer Digital Equipment DEC-10, per mano di Ray Tomlinson.

Sono quindi quasi 40 anni che il “sistema email” su Internet vive indisturbato, più o meno rinnovato con tecniche rivolte al tentare di allinearne le prerogative alle esigenze moderne. Oggi non c’è praticamente nessuno che usi Internet che non abbia anche (almeno) un indirizzo email.

Oggi è talmente semplice e immediato inviare un’email che tutti vorrebbero servirsene anche per svolgere quell’attività che ormai per telefono non si riesce più a portare a termine per nessun motivo: contattare le grandi aziende, il “servizio clienti”, in qualche modo “l’assistenza”, tendando di farsi leggere da qualcuno che effettivamente sia dentro l’azienda. Perché ormai, tra call center e numeri unici 199, 892 e 848, le aziende sono totalmente asserragliate dietro un muro di gomma invalicabile, perché non vogliono avere alcun contatto diretto con la clientela, giudicata – in media – un gran rompicapo, una perdita di tempo, un ostacolo allo sviluppo e un masso pesantissimo che incide gravosamente sul ROI. Dimenticando, neanche a dirlo, che senza i soldi di quella clientela le aziende andrebbero a gambe all’aria.

Inizialmente c’è stata una fase di deviazione: le grandi aziende, dopo aver eretto gli insormontabili muri di gomma sul fronte telefonico, hanno lasciato per qualche tempo aperta la porticina della posta elettronica. Era dunque possibile, per gli utenti (allora) un pochino più smaliziati, entrare in contatto con le grandi aziende via email: esse, specie quando appartenenti al settore hi-tek, lasciavano che ciò accadesse in quanto il fatto stesso che il cliente fosse capace di inviare una email già significava il non aver a che fare con uno sprovveduto.

Oggi le cose son cambiate: un’email in qualche maniera tutti riescono ad inviarla. Dunque (dal punto di vista delle aziende, che perseverano nell’errore) è stato necessario estendere alla email quello stesso muro di gomma già eretto a guardia delle linee telefoniche.

Ed ecco nascere, crescere, prosperare e lucrare il nuovo settore: l’ECM, ennesimo acronimo che sta per Enterprise Content Management (qui ce ne è un esempio). Una sigla che, tradotta in termini brutali, contraddistingue quei sistemi informatici in grado di “leggere” del testo e, sulla scorta di una serie di preimpostazioni manuali, di una capacità analitica in grado di “comprendere” parte del testo e di algoritmi particolari aiutati anche dall’Intelligenza Artificiale realizzano il sogno: far leggere le email al computer e far giungere a degli occhi umani solo quelle pochissime (nessuna?) che riescono a superare questa fredda scrematura automatizzata.

Questo sistema è ormai in uso praticamente in tutte le grandi aziende. Le quali hanno talmente tanto timore di vedersi recapitare una email a cui occorra rispondere che adottano – oltre all’ECM – mille stratagemmi: non vi è quasi mai traccia di indirizzi email sui rispettivi siti, oppure – nella migliore delle ipotesi – c’è un form da riempire, che vuole conoscere l’indirizzo email del mittente ma non rivela, ovviamente, quello a cui il messaggio sarà inviato. Oppure, c’è chi (come Vodafone) adotta sottodomini diversi per gli indirizzi pubblici (comunque mai esplicitamente esposti) e per quelli riservati al personale. In ogni caso, tutto ciò che ha a che fare con messaggi provenienti dal pubblico non raggiunge mai direttamente alcun essere umano: viene immancabilmente filtrato da un sistema ECM dedicato per la posta elettronica.

Per questo, chi ha avuto la “fortuna” (se ancora così può essere definita) di scrivere via email ad una di queste grandi aziende si è spesso visto recapitare risposte apparentemente senza senso, oppure di generico diniego, o indicazioni general purpose preimpostate che umiliano chi le riceve e trasmettono una sensazione di netto distacco, di rifiuto totale alla comunicazione da parte dell’azienda interpellata. Una sensazione che, in breve, fa concludere a chi l’ha provata di aver impiegato un mezzo attraverso il quale non otterrà forse mai il risultato sperato: quello di avere una risposta umana.

Sullo scenario, poi, negli ultimissimi anni sono venuti affermandosi i cosiddetti sistemi di IM (Instant Messaging, ovvero Messaggistica Istantanea). Tali sistemi, in breve una sorta di chat, consentono di dialogare con un’altra persona attraverso la tastiera. Ad essi si sono poi aggiunti la comunicazione vocale e video (ad es. Skype). E, da ultimo, ci si è messo  il social networking, nel quale è venuto man mano affermandosi il sistema di messaggistica interna, grazie al quale ad esempio due utenti di Facebook possono scambiarsi messaggi del tutto equivalenti ad una normale email, senza però aver bisogno della vera e propria email.

A questo punto, non è difficile comprendere che l’email intesa nel senso classico sta per morire: il dialogo (scritto e non) tra privati ha ormai mille alternative. Il contatto con le aziende via email non riesce o non produce risultati. Il contatto via email tra sconosciuti è inquinato dallo spam, che rende malfidenti destinatari e mittenti e instilla, comunque, nell’uso di quel sistema un disagio del quale è praticamente impossibile liberarsi. Quali sarebbero gli usi residuali dell’email, tolti questi?

Lo stesso tentativo di fornire la Posta Elettronica Certificata, una rivisitazione in chiave rimodernata di un modello di comunicazione praticamente analogo, nei principi, a quello iniziale, come si è visto ha in alcuni casi dei risvolti sconcertanti.

Dunque, prepariamoci: della posta elettronica via Internet così come la conosciamo oggi, in linea di massima, nell’arco di quattro o cinque anni resterà solo traccia nei libri di storia dell’informatica. (da nbtimes.it)

Marco Valerio Principato







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