Linux sta dilagando. Ci sono le prove
Data: Marted́, 22 settembre 2009 ore 12:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Non è un modo per attirare l’attenzione, è un dato di fatto. Da sempre ci sono indicatori che evidenziano con elevato grado di sicurezza se un determinato settore di mercato si sta muovendo o no, e come si sta muovendo. E quando gli esperti affermano che i virus writer stanno virando verso l’Open Source, oltre agli aspetti di mero ritorno economico, c’è alle spalle una flessione – in questo caso in positivo – dell’impiego di sistemi Open Source.

Non si tratta assolutamente di statistiche commerciali, di analisi sul fatturato, no, nulla di tutto questo: si tratta di semplici osservazioni, peraltro difficilissime da fare, come spiegava prima dell’estate Linux Insider. Che ha interpellato più di un blogger per avere il “polso” della situazione e le risposte non si sono fatte attendere. “I numeri di NetApplications sono molto poco rappresentativi della realtà”, ha scritto il blogger Robert Pogson, un fisico ed entusiasta utilizzatore di Linux fin dal 1999. “Tra il 2003 e il 2004 IDC ha stabilito che Linux era sopra a Mac OS circa del 3 per cento. Da allora, Linux ha visto crescere le proprie quote di valori compresi tra il 20 e il 50 per cento in vari segmenti”.

Secondo il blogger, sommando i fatti con ragionevolezza si può affermare che lo share medio di Linux oggi si attesti sul 10 per cento del totale, con una diffusione che vede il 2009 come un anno dove il pinguino ha fatto più strada del solito e con numeri, in quei paesi dove l’adozione di Linux ha il sostegno dei governi come Russia, India, Cina e Brasile, molto più grandi.

Quote, dunque, tali da non passare più inosservate, tanto a coloro che navigano le acque del Closed Source, quanto a coloro che fanno dei propri sporchi business la via per ottenere grandi quantità di denaro. Per questo Microsoft taglia i prezzi in Cina e sui Netbook: sanno perfettamente che il mondo ormai inizia a sapere che esistono valide, validissime alternative e non possono più “chiedere quello che vogliono: non possono rinchiudere la genialità in una bottiglia”.

Parole di un appassionato, di un feroce sostenitore ad ogni costo? Forse, ma a confermare questa tendenza ci sono proprio le sterzate del mondo underground, dove si confezionano – e si vendono, nota bene – trojan, virus e ogni altro malware atto ad arricchire illecitamente.

“Gli sviluppatori di malware stanno virando verso l’Open Source, nel tentativo di rendere il loro sofware malevolo più utile per i truffatori”, esordisce Nick Heath di Silicon.com su Cnet. “Offrendo ai programmatori criminali libero accesso al malware che ruba dati finanziari e personali, gli sviluppatori di malware pensano di espandere le capacità di profitto dei vecchi trojan”, continua Heath.

Nello spiegare la tendenza, Heath ha anche citato prezzi e sentito il parere di diversi addetti ai lavori. Ad esempio, spiega, se in passato un software come il Limbo Trojan si vendeva a cifre intorno ai 350 dollari prima di divenire “Open”, oggi lo Zeus Trojan costa tra i mille e i 3mila dollari.

Ciò nonostante, se da un lato chi sta “dall’altra parte” ha i sorgenti a disposizione ed è teoricamente facilitato nella rilevazione e prevenzione, almeno sotto il profilo euristico, dall’altro lato ad un Open Trojan possono arrivare contributi prima inattesi: chi è esperto di crittografia potrebbe aggiungervi un modulo di cifratura, oppure chi ben conosce lo streaming video potrebbe aggiungere funzionalità di trasmissione a distanza del desktop della macchina infetta.

Sta di fatto che gli analisti della RSA hanno misurato le variazioni apportate da questa nuova “filosofia”: la crescita delle infezioni da Trojan è cresciuta esponenzialmente. Secondo le sue misure, RSA ha rilevato 613 infezioni in agosto 2008 e 19102 infezioni esattamente un anno dopo.

Certamente non giovano al mercato inversioni di tendenza come quella recentemente messa in atto da Asus, che dopo aver sponsorizzato a lungo Linux sui propri Netbook, improvvisamente has changed his mind, ha cambiato idea e propala di nuovo ai quattro venti che “con Windows è meglio”: tali rapide “inversioni a U” non fanno che indispettire quei segmenti di clientela che, se prima era decisa ad impiegare un sistema operativo free, dopo simili eventi starà lontano dal closed source per puntiglio, oltre che per convinzione.

D’altro canto, prescindendo da situazioni abbastanza particolari come quelle di alcuni adolescenti che, con l’innocenza della gioventù, frettolosamente affermano di non rilevare differenze tra Windows 7 e Ubuntu Linux, è altro dato di fatto che oggi, a meno di non trovarsi ad armeggiare con periferiche particolarmente insidiose sotto il profilo della necessità di driver specifici, non c’è più quasi mai bisogno incontrovertibile di usare per forza Windows o Mac: prendere un CD di Ubuntu Linux, infilarlo nel lettore, avviare il PC e ritrovarsi pochi minuti dopo con una macchina che funziona perfettamente, naviga, scrive, stampa, gestisce iPod e BlackBerry, archivia, disegna, progetta, chatta con chiunque, usa Skype vedendo tranquillamente anche la Webcam e… salvo poche eccezioni qui ci fermiamo, non è più né utopico né un mito, è realtà.

L’unico effetto collaterale negativo, per così dire, è rappresentato dai destinatari del malware: una massiccia diffusione di Linux porterebbe, inevitabilmente, ad un certo proliferare di malware studiato, stavolta, apposta per agire contro tale sistema. Con due sostanziali differenze: la prima è che chi scrive virus per Windows viene applaudito, chi ne scrive per Linux viene deriso. La seconda è che l’architettura di un sistema *nix è diversa. Talmente diversa da essere intrinsecamente piuttosto resistente e tale da non aver bisogno – o quasi – di un antivirus, di un antispyware e di tutte le altre “trappole” di cui un PC Windows-based ha, volente o nolente, assoluto bisogno, pena la morte sicura, nel giro di poche… navigazioni.(da nbtimes.it)

Marco Valerio Principato







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