CHE COSA VUOL DIRE EDUCARE DEI CITTADINI?
Data: Luned́, 14 settembre 2009 ore 00:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Ragione e passioni nell'educazione civica

Maurizio Viroli
cosmopolis
 

In questo saggio intendo proporre alcune riflessioni che traggo da tre esperienze, più che da libri, anche se alcuni libri mi hanno aiutato. Il progetto "Educazione alla cittadinanza" delle scuole marchigiane; il "Master in Educazione Civica" che da qualche anno opera in Asti, il lavoro presso la Presidenza della Repubblica durante il settennato di Carlo Azeglio Ciampi. Sulle base di queste esperienze vorrei ragionare sulla questione "che cosa vuol dire educare dei cittadini?"
Per rispondere a questa domanda dobbiamo partire dalla consapevolezza che il cittadino è un particolare tipo di essere umano che gode dei diritti politici e civili e ha consapevolezza dei doveri che i diritti comportano. Aggiungo che non solo ha consapevolezza, ma vive esercitando i diritti e assolvendo i doveri. Com'è facile intendere, è una figura che si incontra spesso negli auspici dei filosofi politici, ma raramente nella storia e non è mai maggioranza, neppure nelle società democratiche, dove è piuttosto una specie in declino, se non in via di estinzione.
La consapevolezza è conquista della ragione, il vivere delle emozioni, delle passioni o, per usare un'espressione che traggo dal libro di Alessandro Cavalli Educare alla cittadinanza democratica, è il frutto di un processo di interiorizzazione. Il cittadino, o la cittadina, sanno perché sentono e sentono perché sanno, e il loro sapere e il loro sentire si traducono nel vivere in armonia con i diritti e con i doveri.
Insisto sull'unità del sapere e del sentire che si esprime nel vivere concreto: chi sarebbe disposto a riconoscere come vero cittadino l'individuo che non ha alcuna, o poca, consapevolezza dei diritti e dei doveri, o una persona che, pur conoscendo bene i suoi diritti e i suoi doveri, vive in modo che contraddice del tutto o in parte la sua consapevolezza? Sottolineo anche la connessione fra diritti e doveri, o meglio, la priorità dei doveri. Non è vero cittadino chi non sa esercitare i diritti, ma non lo è neppure chi rivendica ed esercita tutti i suoi diritti senza assolvere alcun dovere.
La prima figura - quella dell'individuo che non ha o non sa esercitare i diritti - è quella dello schiavo o del servo o del suddito; la seconda - quella dell'individuo che conosce e sa esercitare i suoi diritti, ma calpesta o lascia da parte i doveri - descrive il cittadino corrotto che è poi, in piccolo, un tiranno. Per completare il panorama delle tipologie, tutt'altro che ipotetiche o rare, contrapposte a quella del cittadino, menziono la persona che ha tutti i diritti ma ha mentalità servile, e la persona banale, che non ha consapevolezza interiore (sulla quale tornerò).

1. Quale ragione e quali passioni?

Quale ragione, quale consapevolezza razionale è necessaria per avere un cittadino nel senso pieno del termine? In primo luogo è indispensabile la ragione empirica, che ci dà conoscenze specifiche assimilate criticamente. Come ha sottolineato Michael Walzer nella prolusione che ha inaugurato il Master in Educazione Civica di Asti, essere cittadino significa dover prendere parte a deliberazioni politiche che hanno grande importanza (guerra e pace, giustizia sociale, ambiente). Per questo è necessario che i cittadini abbiano almeno una conoscenza generale delle forme di governo, del funzionamento dei sistemi politici, delle ideologie e delle teorie politiche, della Costituzione, della storia del loro paese.
Ma più importante ancora della ragione empirica e critica è la ragione morale che insegna a ragionare su questioni etiche, a distinguere, benché sia distinzione sempre aperta a correzioni e revisioni, fra giustizia e ingiustizia; a giustificare una scelta morale, a vedere le connessioni fra valori e fra fini e mezzi. È, in estrema sintesi, la ragione che insegna a dialogare con gli altri cittadini per cercare le regole del vivere civile alla luce dell'aureo principio: "fai agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te".
È utile insegnare anche il valore della ragione strumentale che indica i mezzi atti a conseguire il fine voluto, cerca ciò che è vantaggioso, calcola i costi e i benefici prevedibili dell'azione. Ma l'individuo che si affida soltanto a questa ragione raramente può diventare buon cittadino. Essa è infatti un tipo di ragione che fa intendere che, poniamo, sarebbe più vantaggioso per tutti se tutti pagassero le tasse secondo il reddito. Ma la ragione strumentale farebbe intendere anche, all'individuo che la interroga, che è ancora più vantaggioso per lui non pagare la sua parte di tasse e lasciare che siano gli altri a pagarle.
Bisogna porre la ragione strumentale sotto la guida della ragione morale, ma perché l'individuo dovrebbe accingersi a questo passo? Perché dovrebbe imporsi un limite? Credo che l'unica motivazione per l'individuo a porre la ragione morale al di sopra di quella strumentale venga non dalla ragione, ma dalle passioni, meglio, da alcune passioni. Quali sono le passioni che guidano dei veri cittadini?
Prima di rispondere osservo che le passioni orientano le deliberazioni politiche e morali e muovono all'azione. Come insegnavano i teorici classici della retorica, è difficile persuadere i cittadini ad approvare leggi in favore di gruppi o classi che essi odiano o verso i quali provano invidia. Inoltre, non è affatto vero che le passioni oscurino o confondano sempre la ragione. Ci sono passioni che permettono di vedere lontano e di distinguere. Sicché per avere individui che deliberano e agiscono da cittadini - e non da sudditi, da servi, da individui banali - dobbiamo avere individui che provano determinate passioni.
Indico in primo luogo l'amore del vivere libero e la repulsione per il vivere servo. Nell'amore della libertà ci sono molte componenti, ci hanno insegnato i classici del pensiero politico. C'è in taluni casi la lealtà all'insegnamento dei padri e dei maestri; c'è in altri la convinzione religiosa che l'uomo non è fatto per servire altri uomini ma solo Dio; c'è in altri ancora una sensibilità estetica, una particolare attrazione alla libertà come bellezza: ricordiamo le celebri parole che Tucidide mette in bocca a Pericle nel celebra elogio della libertà ateniese: «amiamo il bello, ma non lo sfarzo» (La guerra del Peloponneso, II.40.1).
Parte importante dell'amore della libertà è l'amore della patria. Sono consapevole che il concetto è stato ed è travisato e piegato a sostenere politiche di aggressione e di discriminazione che ripugnano la coscienza civile. Ma questo non vale per l'idea di patria che è nella Costituzione, laddove definisce "sacro" il dovere di difenderla per sottolinearne il carattere di un obbligo che può essere importo dalla legge ma che deve avere un fondamento ancora più solenne perché può richiedere il sacrificio della vita. La Costituente recepì e diede veste giuridica alla percezione che con la caduta del fascismo non era morta la patria, ma era iniziato il percorso di costruzione di una nuova patria. Basti citare le parole che Piero Calamandrei annota nel suo diario il 1 agosto 1943, pochi giorni dopo la caduta del fascismo: «Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un'allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all'operaio che passa in bicicletta: si può esprimere, senza timore della delazione il nostro sdegno, il nostro biasimo, la facezia che avvince spesso più di un'invettiva. Tutti ci si può ripetere queste frasi banali, che avvicinano e accomunano come una parola d'ordine, come un segno di riconoscimento tra fedeli di una stessa religione: 'Finalmente! questi assassini! questo vigliacco! questo buffone!'»[1].
Il concetto di patria che è completamento necessario dell'amore della libertà è quello che ci ha lasciato il Risorgimento. La radice culturale dell'idea di patria come madre comune che non ammette privilegi o discriminazioni viene da Mazzini: «La patria è una comunione di liberi e d'eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. [.] La patria non è un aggregato, è una associazione. Non v'è dunque veramente patria senza un diritto uniforme. Non v'è patria dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze»[2]. Una vera patria non può avere stranieri entro i propri confini. Deve garantire a tutti e a ciascuno la dignità che viene dai diritti di cittadinanza e il rispetto e l'autorispetto che solo il lavoro e l'educazione assicurano: «La patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale - finché un solo vegeta ineducato fra gli educati - finché un solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria - voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti. Il voto, l'educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate»[3].
Anche il Secondo Risorgimento, la lotta antifascista, si ispirò largamente al questa idea di patria. Vittorio Foa, per citare un solo esempio, si sentiva idealmente vicino a Mazzini, al quale riconosceva il merito di aver educato gli italiani ad un patriottismo fondato su un concetto di patria che «non esprime una entità territoriale né deve necessariamente identificarsi con determinati istituti e tanto meno colle aspirazioni di un gruppo di persone per il fatto che esse hanno più spesso quella parola sulle labbra; ma ha invece un contenuto concretamente ideale: per i radicali francesi la patria era una Francia ancora sensibile agli ideali di giustizia; calpestare la giustizia era per essi opera necessariamente antipatriottica; il preteso contrasto in realtà non esisteva. Non sono cose vecchie perché sono cose di tutti i tempi e sempre attuali: l'Italia poi ha il vanto di una insuperabile tradizione circa la concezione extraterritoriale ed ideale della patria: tutto il pensiero e l'opera del partito d'azione del Risorgimento era inconfondibilmente su quel solco. Se ciò non meraviglia per quel che riguarda i più alti esponenti del moto mazziniano e garibaldino, è invece notevole l'istintiva sicurezza con cui la maggior parte delle camicie rosse, certo non inclini a meditazioni intellettuali, sentivano di difendere la propria patria non solo quando combattevano l'austriaco ma anche nelle lotte contro gli italiani di Napoli o nelle battaglie per la libertà delle repubbliche sudamericane o della Grecia o della Francia repubblicana nel 1870-71»[4].
Noi dobbiamo educare dei cittadini italiani, e dei cittadini europei e cittadini del mondo. Ma proprio chi ha il giusto concetto di patria, quello che ho delineato, diventa più facilmente cittadino dell'Europa e del mondo. Si ponga mente alla straordinaria profezia che Croce formulò nelle ultime pagine della Storia d'Europa: «Per intanto, già in ogni parte d'Europa, si assiste al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità (perché, come si è già avvertito, le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche); e a quel modo che, or sono settant'anni, un napoletano dell'antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l'esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s'innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all'Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate»[5]. C'è del resto una profonda ragione teorica che rende necessario collocare il concetto di patria al centro dell'educazione civica, ovvero che l'amore della patria è una forma di caritas, di amore compassionevole verso persone e cose delle quali percepiamo la bellezza, il valore e la fragilità. È proprio questa costellazione di passioni, sentimenti e ragioni, che spinge alla cura e al servizio, due aspetti essenziali della vita da cittadino.
Accanto all'amore della libertà, colloco la passione dello sdegno, inteso, ancora una volta sulla scia dei classici, come quel profondo senso di repulsione per l'ingiustizia che è proprio degli animi grandi ed è invece del tutto sconosciuto agli animi servili e ignobili. Sopportare di essere trascinato nel fango e sorvolare se vi sono trascinati gli amici, scriveva Aristotele nell'Etica Nicomachea (IV, 1125b. 30 - 1126b. 10), è atteggiamento da schiavi. Diverso dalla compassione, che è dolore nei confronti della immeritata sfortuna di altri, diverso anche dall'invidia, che è il dolore per un bene che gli altri hanno e noi no, lo sdegno è, in senso stretto, un'ira buona di fronte all'ingiustizia, o meglio ancora l'ira dei buoni: l'ira per giusti motivi, l'ira nei confronti delle persone contro le quali è giusto provare ira. Lo sdegno è insomma la sana ira guidata dalla ragione e come tale può, anzi, deve, vivere anche nell'animo della persona mite.
Lo sdegno muove all'azione. Per questo Concetto Marchesi, che conosceva bene i classici, si appellò, nel discorso agli studenti dell'Università di Padova del 1 dicembre 1943, allo «sdegno che vi accende» per esortarli all'impegno nella resistenza antifascista. Lo sdegno esige l'azione per meditata ragione anche nelle circostanze più difficili, quando le speranze di vincere sono esigue o nulle, quando bisogna agire nell'indifferenza dei più, e quando lottare espone a pericoli certi. Ciononostante è un dovere necessario del cittadino perché solo lo sdegno spinge a difendere la libertà nei tempi bui, quando i più piegano la schiena e si rassegnano all'oppressione. Bobbio l'ha definito «l'arma senza la quale non vi è lotta che duri ostinata, senza la quale, vittoriosi, ci si infiacchisce, e, vinti, si cede»[6]. È la virtù dei precursori, degli anticipatori, di quelli che dimostrano che si può lottare e incoraggiano gli altri a seguire il loro esempio anche quando la prudenza, con buoni argomenti, consiglia di stare fermi, di tacere, di adeguarsi. Chi agisce per sdegno "esclude interessi e calcoli", e diventa capace di quel "fanatismo" degli iniziatori che hanno entusiasmo di sincerità e sanno tradurre il pensiero in azione, come scriveva Piero Gobetti nel 1922[7].
La fatica di chi agisce per sdegno spesso non ha effetti immediati. Non riesce ad incrinare il potere di chi opprime e non riesce a fermare l'oppressione. Ha tuttavia l'effetto di incoraggiare altri a mettersi per il medesimo cammino, e compiere qualche altro passo. A volte può dare anche la vittoria insperata. Dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, un fremito di ribellione scosse l'Italia e mise in grave difficoltà Mussolini e il suo governo. Gaetano Salvemini scrisse che se un leader politico si fosse alzato in Parlamento e avesse apertamente accusato Mussolini di essere il mandante dell'assassinio, il governo non avrebbe superato la crisi. Nessuno lo fece. Lo avrebbe potuto fare soltanto un uomo mosso dallo sdegno che trascina la ragione, sempre attenta a mostrarci i pericoli. Ci voleva un altro Matteotti, che parlò perché lo sdegno di fronte alle illegalità e alle violenze fasciste gli fece sentire il dovere di farlo.
Lo sdegno non è soltanto la passione dei momenti straordinari, ma deve ispirare l'agire dei cittadini nella vita ordinaria della repubblica. Ogni volta che viene violato un principio di libertà e di giustizia, l'azione guidata dallo sdegno dovrebbe essere la risposta normale di cittadini maturi. Nella realtà, prevalgono spesso la docilità, l'indifferenza o l'azione rabbiosa che è segno di impotenza più che di forza. Per il suo fine, che è il principio morale, e per il suo presupposto, la grandezza dell'animo, lo sdegno è passione difficile, a tal segno che non ha molto senso prescriverlo come dovere per tutti. Si può solo insegnarlo, con l'esempio dei migliori, ai migliori, e sperare che i cittadini capaci di guidare gli altri non siano, come spesso è avvenuto nella storia d'Italia, troppo pochi.
Infine, fra le passioni del cittadino colloco il senso dell'onore, inteso come l'ambizione di distinguersi per ragioni moralmente degne. Di onore parla esplicitamente la Costituzione all'articolo 54: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». Cosa vuol dire il dovere di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore? A prima vista, onore e disciplina sono principi propri di società o di istituzioni autoritarie e gerarchiche che non hanno nulla a che vedere con una repubblica democratica e dunque non possono essere criteri dell'operare dei suoi pubblici funzionari. L'onore nel suo significato tradizionale è infatti il riconoscimento di una superiorità dovuta al rango sociale o alla ricchezza. In Italia poi, l'espressione "uomo d'onore" indica l'individuo che obbedisce ciecamente alle regole e ai capi dell'associazione mafiosa. Ma l'onore è anche il riconoscimento della particolare superiorità ed eccellenza che dobbiamo alle persone oneste solo ed esclusivamente in virtù della loro onestà, in particolare l'onestà con cui assolvono i loro doveri pubblici.
Questa concezione della giusta ambizione, del giusto desiderio di distinguersi si contrappone all'interpretazione dell'individualismo, prevalente in Italia, che ci insegna che vero individuo è solo chi non ha doveri verso gli altri. L'individualità democratica afferma invece il valore dell'autoaffermazione e dell'autoespressione, ovvero la consapevolezza che ogni tipo di individualismo comincia con se stesso e con ciò che ognuno intende fare. Essere ed esprimere se stessi, anche in una società democratica, comporta un tratto di resistenza. Per affermare noi stessi dobbiamo spesso contestare quello che tutti gli altri pensano, o almeno compiere uno sforzo per non essere come tutti gli altri. Al tempo stesso, l'individuo democratico non è insolente perché la sua volontà di esprimere se stesso è accompagnata dal riconoscimento che ogni altra persona ha il medesimo diritto. Il rispetto democratico per gli altri modella e limita l'autoaffermazione e l'autorealizzazione. Il fatto di avere tutti gli stessi diritti impedisce il privilegio e non permette di perseguire la realizzazione e l'espressione di noi stessi usando gli altri quali mezzi per la nostra realizzazione.
La realizzazione di ciascun individuo non è una minaccia per gli altri individui. L'individuo democratico vuole essere differente e vuole essere unico, vuole andare per la strada che ha scelto, vuole provare, vagare, lasciarsi andare. Desidera essere lasciato in pace non vuole essere coinvolto nel gioco di altri, vuole passare inosservato, vuole avere i suoi segreti, essere considerato difficile da definire; preferisce non avere obblighi con altri, essere padrone di se stesso; desidera pensare, giudicare e interpretare da solo; vuole sentirsi vero, non confuso, o sorpreso; desidera vivere senza svolgere per tutta la vita il medesimo ruolo; vuole mettersi alla prova e verificare i propri limiti, accumulare diverse esperienze; aspira a modellare la propria vita ma non in una forma rigida; vuole soprattutto essere se stesso, trovare il suo vero io; in determinati momenti della vita desidera rinascere ritrovando se stesso. Affermare ed esprimere se stessi significa insomma diventare individui secondo la propria concezione, e questo è lo sforzo per raggiungere il vero onore.

2. Come educare alla ragione morale e alle passioni civili?

Alla ragione morale si educa non con l'indottrinamento - che è metodo di insegnamento del tutto incompatibile con le finalità dell'educazione civile - ma con la pratica del dialogo e della discussione libera e rigorosa governata da un assoluto rispetto delle idee di tutti. Preoccupazione fondamentale di chi vuole educare all'uso della ragione morale deve essere quella di insegnare a porsi e a porre domande morali, e a stimolare ciascuno a cercare proprie risposte, a compiere il cammino e lo sforzo che sono indispensabili per diventare una persona libera, interiormente libera: l'opposto degli esseri umani banali che sono capaci della banalità del male, come ci ha spiegato Hannah Arendt.
La pratica del dialogo esige di dare voce alle opinioni anche più ripugnanti alla coscienza civile. Ho ottenuto i migliori risultati non quando ho spiegato gli ideali dell'eguaglianza e della libertà, ma quando ho presentato gli argomenti opposti, ad esempio gli argomenti e le dottrine dei razzisti e dei fascisti. E ancora più efficace è stato, nella mia esperienza, fare vedere: fare leggere nell'edizione originale il testo delle leggi fasciste o i discorsi di Gentile, o gli articoli tratti da "Gerarchia". Infine, è efficace guidare gli studenti a riscoprire il vero senso delle parole: libertà, tirannide, onore, disciplina, patria, lealtà, religione. È meglio guidare gli studenti a cercare, a trovare, a riportare alla luce e, riportando alla luce, ad arricchirsi intellettualmente e moralmente.
Per quanto riguarda le passioni, ma questo è principio che vale per l'educazione civica nel suo insieme, l'esempio vale più delle parole; la pratica più della predica. L'educazione civica, da questo punto di vista, in quanto parte dell'educazione morale, è simile, sottolineo simile, non identica all'educazione religiosa. È del resto cosa notissima che gli studiosi parlano di religione civile per indicare forme particolarmente coerenti e rigorose di coscienza civile. Efficaci sono anche le narrazioni di concrete vicende umane, le immagini, i simboli e i rituali: tutto ciò che tocca le passioni passando prima dagli occhi che dalla mente. Essenziali sono infine le testimonianze di persone che hanno dato l'esempio, persone che sanno pronunciare parole che ispirano perché i giovani sentono che sono vere, che dietro di esse c'è una profondità immensa, una grande luce interiore.
L'educazione civile è ardua perché richiede più che dei professori o degli insegnanti, dei maestri, come fu, per citare un noto esempio, Augusto Monti. Aver incontrato un maestro come Augusto Monti, ha scritto Massimo Mila che lo ebbe professore di italiano e latino al Liceo Massimo D'Azeglio di Torino, «vuol dire essere diventati tali e non altri, esserci così e così comportati, avere assunto quelle tali responsabilità, in quel modo essersi schierati. Si capitava sotto la sua fèrula finito il ginnasio, tra i 14 e i 16 anni, un groppo indistinto d'aspirazioni confuse e di inclinazioni malsicure, ed egli in tre anni quel gnocchetto di materia umana ancora tutta malleabile te lo formava e ti sortiva di là, da quel liceo, ch'eri un piccolo uomo, con la tua vita davanti, con le tue convinzioni, con la tua bussola, armato e pronto per il viaggio»[8]. Ardua, ma necessaria, per poter sperare in una rinascita civile dell'Italia. La rinascita è sempre avvenuta, quando è avvenuta, grazie all'educazione che fa riscoprire la bellezza e la dignità della vita vissuta secondo un alto senso dei doveri civili. Proprio perché necessaria è da tentare con rigore e sobrietà. Il luogo giusto è la scuola perché nelle nostre scuole ci sono ancora dei veri educatori e ci sono tanti ragazzi e ragazze che non chiedono altro che di imparare a vivere da cittadini, nonostante tutto.

 

cosmopolis rivista culturale
[1] P. CALAMANDREI, Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, Tomo secondo, 1942-1945, La Nuova Italia, Firenze 1982, pp. 154-155.
[2] G. MAZZINI, Dei doveri dell'uomo, in Scritti politici, a cura di T. Grandi e A. Comba, UTET, Torino 2005, p. 884.
[3] Ivi, p. 885.
[4] Ivi, p. 243.
[5] Ivi, p. 358.
[6] N. BOBBIO, Italia civile. Ritratti e testimonianze, Passigli Editori, Firenze 1986, pp. 286-287.
[7] Cfr. ivi, p. 132 e p. 128.
[8] M. MILA, Scritti civili, a cura di A. Cavaglion, Einaudi, Torino 1995, pp. 303-304.
 
 





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