LA POLITICA SCOLASTICA DELLA GELMINI
Data: Domenica, 30 agosto 2009 ore 00:52:21 CEST
Argomento: Comunicati


La mossa del “cavallo”

Ma ripartiamo con ordine. Non è facile delineare il profilo della politica scolastica della nuova legislatura che si è aperta dopo le elezioni dell’aprile 2008, con il conse-guente cambio di maggioranza e di governo. Stupì non poco la nomina di un ministro giovanissimo e quasi sconosciuto, pochi i riferimenti alla politica scolastica nel pro-gramma di governo (con una elaborazione di qualche peso nell’entourage dell’on. Aprea, già sottosegretario nel ministero Moratti), molto caute le prime dichiarazioni programmatiche del neo-ministro (giugno 2008) , ispirate al fair-play, con un forte ri-chiamo all’esigenza di riforme condivise. Non passarono inosservate, nel primo discor-so, due citazioni: una sul rigore necessario nello studio (con riferimento a Gramsci), l’altra sulla valorizzazione del merito e della professionalità dei docenti (con riferimento al programma del PD).
Emergevano, in questo primo scenario alcune parole chiave: autonomia, profes-sionalità, valutazione. Una agenda condivisibile, anche se sarebbe stato corretto riem-pirle di contenuti, indicare degli obiettivi, una strategia, le risorse: non basta qualche bella intenzione per costruire una politica scolastica. Mentre si profilava questo dibattito e si affacciavano nuove parole, come carriera, merito, sussidiarietà, federalismo, si è avuta una forte ma impropria accelerazione della politica scolastica attraverso il rapido susseguirsi di tre decreti legge: il 112 (giugno 2008), il 137 (settembre 2008), il 154 (ottobre 2008), sotto la spinta di esigenze finanziarie, ma non solo. Si tratta di tre prov-vedimenti di ampia portata:
– il primo (D.L. 112/2008) contiene un’ampia delega per introdurre modifiche all’ordinamento scolastico tramite semplici regolamenti, quindi senza ulteriori delibera-zioni del parlamento;
– il secondo (D.L. 137/2008) interviene su aspetti della vita quotidiana a scuola (come la valutazione, il maestro unico, ecc.);
– il terzo (D.L. 154/2009) incide sui rapporti tra Stato e Regioni in merito alla governance della rete scolastica.
Si tratta di tre decreti legge approvati tambur battente “a posteriori”, in sede di conversione parlamentare, con tre voti di fiducia (in verità due, perché il terzo decreto è stato approvato con notevoli modifiche dopo le forti resistenze delle Regioni) .

I nuovi luoghi della democrazia

Con i decreti legge si guadagna certamente in efficienza e celerità, ma si perde in partecipazione e condivisione, oltre a ledere i normali meccanismi di una democrazia parlamentare, come ben hanno sottolineato i ripetuti interventi del Presidente della Ca-mera (Fini) e la spesso inascoltata “moral suasion” del Presidente della Repubblica (Na-politano). Se si governa con i decreti-legge non è più necessario argomentare in maniera convincente le scelte che si devono effettuare, perché è possibile farlo dopo, cercando di costruire un consenso a posteriori. O meglio, è sufficiente “annusare” nell’aria la possi-bile direzione del consenso popolare, farlo affiorare (o vellicarlo) con qualche editoriale ben congegnato, e la politica scolastica sembra già bella e fatta… È successo questo, almeno in un caso, con la reintroduzione del voto numerico nella scuola elementare e media (per decreto legge: ma dopo 32 anni, dove stavano le ragioni di urgenza?), con-travvenendo ad un vasto e diverso orientamento del mondo della scuola e delle scienze dell’educazione. Ci riferiamo all’editoriale sul ripristino del “voto” firmato da Giulio Tremonti nell’agosto 2008 , di lì a pochi giorni finito nel decreto-legge 137/2009. Ma non sarebbe stato più utile dedicare energie intellettuali a miglior causa di fronte alla in-cipiente tempesta finanziaria?


Solo un salasso finanziario?

Ciò che colpisce nel primo decreto legge, il n. 112 (convertito poi in legge 133/2008), è la diretta finalizzazione di tutti i possibili interventi ad un solo grande ed esplicito obiettivo: la riduzione della spesa dello Stato per l’istruzione di circa 8 miliardi di euro nel quadriennio 2008-2011. Posto che lo Stato spende ogni anno circa 42 miliar-di per l’istruzione, la riduzione è di circa il 5% annuo. Detto in questi termini sembra una normale operazione di “rimodulazione” della spesa (con la promessa di reinvestire il 30% dei risparmi ottenuti nella cosiddetta premialità), ma si può commisurare l’entità del taglio, osservando gli effetti sul personale: si tratta di una riduzione di oltre 130.000 dipendenti (87.000 docenti e 44.000 non docenti) da operare in un triennio. Un inter-vento necessario, si è detto, per riallineare la spesa con gli standard europei. Ma è stato ben argomentato che i livelli di spesa italiani sull’istruzione non sono fuori controllo, anzi la percentuale della ricchezza nazionale dedicata alla scuola (3,6%) è inferiore alla media OCSE (3,9%). Ed anche la quota del bilancio pubblico (7,4%) è al di sotto dei parametri medi a livello internazionale (9,0%), con percentuali che sono oggi ulterior-mente peggiorate. L’unico dato che ci vede in rosso è quello relativo al costo medio per alunno, ma su questo indicatore influiscono molti fattori, alcuni dei quali specificata-mente italiani, come l’integrazione degli alunni disabili nelle classi comuni, scelta che viene comunque riconfermata . Inoltre, dai dati, emerge uno scarso investimento di ri-sorse “private” – dei genitori e delle imprese – verso l’istruzione. Ma nel nostro paese, come ben si sa, un conto è la “cosa pubblica”, un conto sono le “tasche” degli italiani.
Il rischio, in definitiva, è quello del pauperismo che potrebbe investire il nostro si-stema educativo, dell’impoverimento progressivo di risorse verso l’istruzione pubblica, di fatto mettendo a rischio il concetto di educazione come diritto universale, come bene comune da tutelare ad ogni costo, e non in via “subordinata” alle contingenze economi-che. Ci si può appellare, in questo richiamo, alla ben nota prolusione del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, quando rivendica il possibile valore aggiunto di una buona formazione per lo sviluppo economico, sociale e civile del nostro paese .


Piccolo cabotaggio o grandi domande?

Ma quella cui abbiamo assistito nell’anno appena trascorso, è solo una manovra finanziaria o c’è dell’altro? Di fronte al rischio di una società de-scolarizzata ci do-vremmo interrogare non solo sul più e il meno della contabilità nazionale, ma sui valori in gioco, sull’idea di società, sull’idea di scuola, di persona, di apprendimento, di cono-scenza, di conoscenza, di cultura…
Sarebbe ingeneroso rubricare tutti i cambiamenti solo come rude manovra finan-ziaria, ma già quel tipo di manovra esprime un’idea di società, di rapporto tra cittadini, Stato e pubblica amministrazione, soprattutto perché si rimettono in discussione i doveri della fiscalità e le scelte di spesa, e si mette continuamente in cattiva luce il significato ed il valore della spesa pubblica. Per onestà, tuttavia, una domanda non si può eludere: quanto costa effettivamente la scuola italiana e cosa “produce”? Tutto ciò che si spende è ben speso o ci sono evidenti aree di spreco? I risultati si potrebbero migliorare? E in che modo?
Certo, si tratta di una discussione difficile per noi che stiamo nella scuola e che non siamo troppo disponibili a metterci in discussione. Ma anche chi fa le domande do-vrebbe porgerle senza quell’astio verso la “cosa pubblica” che induce solo a reazioni di-fensive. L’impressione è che chi governa abbia adottato un atteggiamento rinunciatario, che consideri non più riformabile la scuola e si accontenti di ridurne i costi, per ottenere un matematico aumento di produttività attraverso un ruvido conto economico: ottenere gli stessi risultati riducendo il costo di produzione. Ma, allora, dove sono finite le grandi sfide che ci attendono? Sappiamo che i risultati del nostro sistema educativo non sono soddisfacenti, se prendiamo per buoni i cinque indicatori di Lisbona 2010, che ci vedo-no abbondantemente lontani dagli obiettivi europei (per indice di diplomati, tasso di di-spersione, livelli di apprendimento, competenze scientifico-tecnologiche, educazione permanente).

I BENCHMARK EUROPEI. CONFRONTO ITALIA-EUROPA
I cinque indicatori dell’Istruzione Obiettivi per il 2010 Italia (2006-07) Europa
Giovani che abbandonano prematura-mente gli studi (popolazione di 18-24 an-ni con al più la licenza media e che non frequenta altri corsi scolastici o formativi superiori a due anni; early school leavers) Non oltre il 10% 19,7 14,8
2007
Tasso di scolarizzazione superiore (popo-lazione di 18-24 anni che ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria di 2° grado) Almeno l’85% 75,1 78,1
(popolazione 20-24 an-ni,2007)
Studenti con scarse competenze in lettura Non superiore al 13,7% (Diminu-zione almeno del 20%) 26,4 24,1
2006
Adulti di 25-64 anni che partecipano all’apprendimento permanente (forma-zione e istruzione) Non inferiore al 12,5% 6,2 9,7
2007
Laureati in discipline tecnico-scientifiche sul totale dei laureati Aumentare al-meno del 15% 12,2
Fonti. Per l’Italia: ISTAT, Informazioni statistiche territoriali. Indicatori regionali di contesto chiave (QCS – Quadro Comunitario di Sostegno. Per l’Europa: Commis-sione europea: Progress towards the Lisbon objectives in education e training, 2008.


Rifacciamo meglio i conti

Non possiamo però eludere le domande sui conti e sul rapporto tra risultati scola-stici e qualità della spesa per l’istruzione. È una questione che stava alla base del “Quaderno bianco” sull’istruzione, del settembre 2007, con la doppia firma dei Ministe-ri dell’istruzione e dell’economia . Le diagnosi di quel rapporto sono ormai conosciute. Sotto accusa stava già allora il rapporto elevato tra allievi e insegnanti (che si può cal-colare anche con la formula, quanti insegnanti servono per 100 alunni?). Mentre nei paesi dell’OCSE servono mediamente 7,5 insegnanti per “scolarizzare” 100 alunni, in Italia questo rapporto sale vertiginosamente a 9,2 e fino a 11,5 (considerando tutte le possibili varianti nell’organizzazione scolastica, ora depurate dalla voce “compresenza”).

TAB. 1 - IL RAPPORTO DOCENTI-ALLIEVI (NUMERO DI INSEGNANTI OGNI 100 ALLIEVI)
Criterio di conteggio Rapporto nu-merico
Insegnante di base (frontale) 9,3
Insegnante di base con insegnanti di religione 9,6
Insegnante di base con ins.ti religione, ma senza insegnanti tecnico-pratici (confrontabile con dato OCSE) 9,2
Insegnante di base con ins.ti di sostegno 10,4
Insegnante di base con ins.ti di sostegno e reli-gione 10,7
Insegnante di base con ins.ti di sostegno, reli-gione e altro (inclusa scuola dell’infanzia) 11,48
Fonte: MEF-MPI, Quaderno bianco sull’istruzione, Roma, 2007.

Il rapporto docenti-allievi è un indicatore sintetico che tiene insieme: (1) il nume-ro di allievi per classe (dato appesantito per la scuola primaria); (2) il modello organiz-zativo (l’handicap, la compresenza, gli insegnanti tecnico-pratici, ecc.); (3) il tempo della scuola (es.: il tempo pieno e prolungato nella scuola di base); (4) l’orario di inse-gnamento dei docenti.
Sono quattro variabili oggi sotto osservazione, sulle quali si va ad incidere anche nella manovra finanziaria dell’estate 2008, con la previsione (contenuta nel Piano pro-grammatico del 5 settembre 2009, mai approvato formalmente dopo i pareri condizio-nati dei due rami del Parlamento) di:
1. elevare il numero medio di allievi per classe (+0,40 nel triennio), anche mediante la soppressione delle piccole scuole;
2. azzerare o ridurre le quote di compresenza, sia nel primo che nel secondo ciclo;
3. comprimere la durata oraria della settimana scolastica, soprattutto nella scuola se-condaria superiore, ma razionalizzando anche quelli della scuola primaria e se-condaria di I grado;
4. completare le cattedre dei docenti a 18 ore e ridurre il “vezzo” delle ore di 50 minu-ti, senza recupero.


Il “quaderno bianco”, invece…

Alcune di queste misure erano prefigurate anche nel “Quaderno Bianco” di Padoa Schioppa-Fioroni, che sviluppava un’analisi rigorosa dei flussi di spesa per la scuola, in cui venivano accantonati due assunti aurei della pedagogia progressista (o meglio, del buon senso pedagogico progressista) e cioè che:
– all’aumento del tempo scuola erogato corrisponda un miglioramento dei livelli di apprendimento;
– alla diminuzione del numero di allievi per classe corrisponda una migliore qualità dell’insegnamento.
Abbandoniamo, al momento, questa delicata “querelle” pedagogica, per ricordare invece l’intelligente proposta del “Quaderno bianco”, cioè di destinare le eventuali eco-nomie ottenute ad un immediato ristorno nei medesimi territori in cui si è “razionalizzata” la spesa, a vantaggio della qualità dell’istruzione (edifici, stipendi, tec-nologie, ecc.). Con un inevitabile corollario: la modifica delle forme di governance, per associare al tavolo delle decisioni gli enti locali e le scuole (oltre che l’Amministrazione scolastica): aprire e chiudere scuole, offrire o non offrire determinati indirizzi, ampliare o meno il tempo scuola, riconvertire strutture obsolete, ecc. sono scelte che si adottano solo operando insieme, superando resistenze e diffidenze antiche.
Tale principio era stato messo nero su bianco anche in un provvedimento legisla-tivo (la legge finanziaria per il 2008), con la proposta di sperimentare questo modello di governance a partire da alcune province. Non se ne è fatto nulla e, con il decreto legge 112/2008, è rimasta solo una rude manovra finanziaria (fare cassa ai danni della scuola pubblica), per compensare i mancati introiti di tasse golosamente abbonate agli elettori (Ici, successione, ecc.).


Il nuovo senso comune “antipedagogico”

Per agevolare la nuova prospettiva economicista, durante tutto lo scorso anno si è costruito un poderoso “senso comune” pedagogico (meglio, antipedagogico), che ha puntato decisamente il dito contro la scuola italiana, quella degli ultimi 40 anni, che si vorrebbe egemonizzata da sindacati e insegnanti autoreferenziali e pervasi da un atteg-giamento buonista e permissivo, con una amministrazione compiacente.
Paradossalmente, di fronte ad una società fragile, liquida, dove non ci sono più le grandi narrazioni a fare da collante (a fare comunità), si chiede alla scuola un sopras-salto di rigore, di richiamo alle regole, attraverso meccanismi sanzionatori più forti ed univoci. Parliamo del grande successo che anno avuto temi quali il ripristino del voto (anche nella scuola dei “piccoli”), il ritorno del voto in condotta, il ritorno del maestro unico, la riduzione di orari scolastici considerati troppo estesi ed intrusivi, lo stesso leit-motiv della semplificazione e della essenzializzazione dei programmi. Annunci e prov-vedimenti che veleggiavano, all’inizio dell’autunno 2008 , ad oltre l’80% di popolarità, anche se i più acuti osservatori vi scorgevano dietro un pensiero sbrigativo, semplifica-tore, come se si potesse ripristinare con un decreto-legge il principio di autorità venuto meno nella società e nelle famiglie.
Le testimonianze, però, sono autorevoli:
– scuola senza anima, profetizza Giuseppe De Rita, per sostenere l’esigenza di un punto di riferimento stabile nelle relazioni educative, fin dalla scuola elementare;
– scuola senza bussola, che deve riscoprire il valore dei saperi “forti” (lingua e matematica) sostiene Galli della Loggia;
– scuola della ricreazione che non educa più al pensiero e alla cultura, incalza Luca Ricolfi;
– scuola che ha dimenticato il valore dei saperi disciplinari, fin dalla prepara-zione dei docenti, ribadisce Giorgio Israel;
– scuola abbruttita da “vacui pedagogisti”, intenti ad architettare arzigogoli va-lutativi incomprensibili ed incomparabili, rispetto alla levigata certezza dei “numeri”, sentenzia infine Giulio Tremonti .


Il pacchetto “sicurezza” in pedagogia

È certamente condivisibile il richiamo al valore della cultura, alla forza conosciti-va dei contenuti, senza però dimenticare la necessità della mediazione didattica, dell’analisi formativa delle discipline, per meglio trasmettere i saperi e ricostruirli con le giovani generazioni.
Sarebbe comunque un livello alto del dibattito sul futuro della scuola. La tradu-zione mediatica sulle prime pagine dei giornali è stata assai più deludente e sbrigativa. Le parole più ricorrenti sono state: lassismo, mancanza di regole, tolleranza zero, serietà degli studi, cinque in condotta, in un crescendo che ha trovato il proprio diapason nella successiva puntualizzazione del ministro Tremonti (la parafrasi di un celebre trittico: “un libro, un maestro, un voto” è di quelli che fanno stropicciare gli occhi).
Si è costruito un fragile consenso mediatico sui timori di una società ormai schiacciata dalla globalizzazione, su una scuola che viene richiamata all’ordine, senza curarsi dei rischi di impoverimento e di segregazione che si celano dietro molte parole d’ordine populistiche. La proposta di classi ponte sembra fatta apposta per smentire il ruolo “universale” di accoglienza della nostra scuola pubblica. Insomma, la scuola è sulla difensiva ed a volte sembra essere solo la Chiesa ad opporsi con nettezza a questa deriva.


Quale sarà l’agenda dei prossimi mesi?

Superato lo scoglio delle secche finanziarie, con le inevitabili conseguenze sugli organici del personale, chissà se ci sarà più il tempo (ed il modo) per affrontare i temi veri, i nodi del nostro sistema scolastico. Non ci riferiamo tanto ai disegni di un nuovo ordinamento, che appaiono a molti osservatori piuttosto dei restyling non sempre ben riusciti, come quelli dell’improbabile “riforma” della scuola secondaria di II grado e del tormentone sul ritorno del maestro unico.
Ritorniamo invece alle parole chiave con le quali avevamo iniziato la nostra cro-naca: l’autonomia, la professionalità, la valutazione. Parole che potrebbero dar vita ad una agenda “sostanziosa”.

Autonomia
Autonomia sta per decentramento, federalismo, comunità, territorio, enti locali. È un processo che riguarda l’intera società, quindi più ampio della sola scuola, perché coinvolge la forma della vita pubblica. È tempo di compiere un bilancio sincero di dieci anni di autonomia (dal Dpr 275/1999), capire se il nuovo contenitore giuridico ha avuto una positiva incidenza nel miglioramento degli ambienti di apprendimento, se ha detto qualcosa sul “core curriculum” o si è limitato ad incentivare progetti e proposte slegati dai compiti fondamentali della scuola. È giusto pensare a nuove regole di governo della scuola dell’autonomia (in discussione nella proposta Aprea), che sembrano però una medicina amarissima, soprattutto quando introducono strappi alle nostre tradizioni di partecipazione e di cooperazione, strizzando l’occhiolino al mondo aziendale (il consi-glio di amministrazione, la fondazione, il reclutamento dei docenti a chiamata, la morti-ficazione delle rappresentanze sindacali, i “pieni poteri” al dirigente scolastico). Va detto che l’ultima versione della proposta (luglio 2009) sembra più attenta alla ricerca di un indispensabile consenso.

Professionalità
Da molte parti si insiste per valorizzare la professionalità, per attrarre i migliori laureati verso l’insegnamento, per modificare i meccanismi di reclutamento, per ricono-scere meriti ed impegni. Anche qui le proposte sono diverse: costruire una carriera, ma-gari a tre livelli come nel mondo universitario (è ancora la proposta Aprea) oppure agire sulla leva degli incentivi, premiando azioni innovative, risultati concreti, progetti di mi-glioramento, magari a livello di team (come suggerisce la Fondazione Agnelli). La sfida è riconoscere il “valore aggiunto” che molte scuole (ma non tutte) apportano ai livelli di ingresso dei propri allievi anche per contrastare condizionamenti sociali ancora potenti.

Valutazione
È stato l’anno del voto, ma il voto in decimi semplifica, riduce, distorce. C’è biso-gno di più valutazione, ma di una valutazione formativa da incrociare con l’esigenza di una rendicontazione pubblica dei risultati. Il sistema valutativo deve essere ad ampio spettro: dall’autovalutazione, come eminente atto formativo (che consente agli allievi di ricostruire i propri apprendimenti) alle rilevazioni strutturate degli apprendimenti (che possono consentire comparazioni nel tempo e nello spazio, armonizzando i criteri di valutazione), al riprendere con serietà il tema della certificazione (che può consentire di rendere esplicite le competenze di cui tutti parlano, spesso a vuoto).

Sono tre prospettive aperte a soluzioni diverse, su cui non è possibile assumere posizioni pregiudiziali, ma per le quali occorre aumentare la elaborazione e la proposta, verificando la tenuta delle idee in un confronto aperto con il mondo della scuola.


Ricominciamo dai curricoli?

Nella breve stagione Fioroni (2006-2008) erano stati elaborati due testi significa-tivi in materia di curricoli: le “Indicazioni per il curricolo”, con i traguardi di competen-za per il primo ciclo (DM 31 luglio 2007) e le “Linee guida per l’obbligo di istruzione”, con assi culturali e competenze trasversali per il biennio (DM 22-8-2008). I due testi – benché la loro validità fosse limitata a due anni scolastici – stanno reggendo bene il di-battito culturale, ma la loro incidenza nella scuola è assai limitata, soprattutto per la scuola secondaria di II grado.
È mancato un vero accompagnamento, in termini di azioni formative e di ricerca-azione, ma i documenti dimostrano ancora una loro inaspettata vitalità, tanto è vero che:
– il primo viene di fatto prorogato per i prossimi tre anni scolastici, anche se con la spada di Damocle della armonizzazione con le obsolete e faraoniche Indicazioni del 2004, ma soprattutto con i discutibili assetti organizzativi imposti dalle restrizioni fi-nanziarie;
– il secondo dovrà essere riassorbito dal nuovo ordinamento con decorrenza dal 1° settembre 2010, quando indirizzi e tabelle orarie della secondaria “riformata” do-vranno essere arricchite da indicazioni programmatiche (e non è certamente proponibile il ritorno ad una didattica di stato e ad una miriade di obiettivi specifici).
È giusto lo sforzo di “semplificare” ed “essenzializzare” i curricoli (così si espri-me il Dpr 89/2009), ed è giusto farlo attraverso una più esplicita definizione delle com-petenze attese al termine di ogni ciclo, senza dimenticare che i saperi della scuola con-tano se sanno dire qualcosa ai nostri ragazzi, alla loro vita, alle loro domande, al loro bi-sogno di comprensione del futuro attraverso il patrimonio della cultura che cerchiamo di trasmettere loro nelle aule scolastiche.

Red Rom






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