''LA COSTRUZIONE DELL'IDENTITA' ATTRAVERSO LA STORIA'' di ANDREA MUNI
Data: Mercoledì, 26 agosto 2009 ore 00:00:00 CEST
Argomento: Redazione


La costruzione dell’identità attraverso la storia
di Andrea Muni*

Estratto della relazione tenuta il 22 agosto 2009 in Cochabamba (Bolivia) presso l’Auditorium “C.E.A.P.” per la conferenza internazionale organizzata dal Servizio Dipartamentale dell’Educazione di Cochabamba, dal Distretto Educativo “Bolivar” e dal Centro di Studi e Aggiornamenti Pedagogici “C.E.A.P.”

Traduzione in italiano dal testo originale spagnolo fatta dallo stesso autore.



Contro le mode pedagogiche e didattiche

Nessuna teoria o pratica del curricolo è sufficiente, né necessaria, ad azioni pedagogiche e didattiche soddisfacenti, non lo è mai stata e mai potrà esserlo. Non è un curricolo “più scientifico” o “ben confezionato” che fa una pedagogia e una didactica più soddisfacente. Tutte le teorie e le pratiche del curricolo che oggi ci ritroviamo tra i piedi nelle scuole del mondo, con sorprendente omologazione acritica e passiva a modelli cattedratici imposti dall’alto, sono nate in ambienti nord-europei e statunitensi nei primi decenni del Novecento, con presupposti umanisti, illuministi e positivisti molto ingenui, che si immaginano la persona umana come una macchina programmabile; sono nate da esigenze di controllo delle menti dei bambini allo stesso modo del controllo della produzione industriale, seguendo modelli amministrativi di risultati calcolabili e prevedibili, nel minor tempo possibile e con la minor fatica e spesa possibile. Se la persona umana è solo un meccanismo biologico, è chiaro che è sottomesso alla necessità delle leggi fisiche, chimiche e biologiche, una necessità che toglie la libertà.

Da questa concezione meccanica, biologica, della mente viene la didattica per mappe concettuali, che presuppone una concezione della mente umana come un computer e una concezione dell’insegnante come ingegnere programmatore e come tecnico di questo computer. In questa prospettiva disumana e meccanica dell’insegnamento e dell’apprendimento, in cui tutto è (o vuole essere) programmato e previsto, dove sta la libertà del pensiero di chi apprende, non si sa. Fra l’addestramento dell’animale e l’insegnamento a una persona l’unica differenza saranno i contenuti, mentre i metodi saranno sostanzialmente uguali, semplicemente più complessi e articolati, fatti di premi e castighi (carote e bastoni) finalizzati a far memorizzare informazioni, ripetere istruzioni e copiare o imitare comportamenti.

Oggi va di moda un po’ dappertutto l’insegnamento attraverso l’uso di programmi informatici. Certamente, una persona che si ritrovi a imparare attraverso un computer può memorizzare informazioni previste ed esercitare operazioni mentali programmate. Nella migliore delle ipotesi, potrà apprendere ed effettuare procedimenti mentali simili a quelli informatici: schematici, precostituiti, predeterminati, dove non si dà spazio a cose propriamente umane come il pensiero libero, aperto, interpretante, artistico, letterario, filosofico, creativo, critico, costruttivo, imprevedibile nei suoi percorsi. Le tecnologie dell’insegnamento, in quanto tali, non sono sufficienti né necessarie allo sviluppo del pensiero e alla formazione dell’identità. Al contrario. Il presupposto che sta alla base di un eccesso di fiducia (di fede) nella potenzialità (nella potenza) dei computer è che la mente delle persone sia uguale a un congegno meccanico o informatico, sia una macchina biologica riempita di input socio-culturali e basta.


Quale psicologia, quale etica nella pedagogia e nella didattica

Nel comportamento di chi dà importanza all’insegnamento per mezzo delle tecnologie è implicito che il pensiero, e quindi l’identità, di chi apprende non interessa. È implicito che non interessa il pensiero se la persona si comporta come una macchina (fisico-chimico-biologica con informazioni socio-culturali): questo è mancanza di identità e di libertà. Nella misura in cui tu sai usare una macchina o sai comporti come una macchina, l’azione educativa di chi ti ha insegnanto ad usare macchine o a comportarti come macchina si può considerare soddisfacente?

La logica delle didattiche curricolari e di molti metodi e tecniche didattiche, opponendosi al “vivi nei pericoli”, calcola meticolosamente, con una prudenza efficentista che striscia nel mero calcolo dei rendimenti, dei risultati, degli effetti. L’insegnante si fa buon calcolatore. Deve fare previsioni, previsioni, previsioni. Deve essere astuto. È una pedagogia, e una didattica, dell’astuzia, all’interno di un quadro socio-culturale generale di astuzia. Però l’imprevedibilità della vita umana in generale, e delle  situazioni didattiche in particolare, mettono sempre limite alla previsione calcolatrice. Nessun calcolo logico delle possibilità può annuallare la straordinaria imprevedibilità della realtà vitale umana. L’insegnante calcolatore costruisce dispositivi dotati di ogni allarme e sistema di sicurezza, e finisce col non muoversi dal proprio congegno. Molte prudenze, in pedagogia e in didattica come in tutta la vita, non sono più che una manifestazione di paura (terrore, orrore). A volte un insegnante prudente nasconde nella propria falsa prudenza la paura e la mancanza di audacia. La audacia può essere “un termine medio tra la paura e la temerarità” (Aristotele, Etica a Nicomaco, III, V, 1115a; cf. san Tommaso d. A., S. Th. II, q. 123, a.3).

Una società, una cultura, una psicologia, una pedagogia, una didattica che si accomodino nella prudenza, e che abbiano una ossessione di sicurezza, un’ansia di certezza, di prevedibilità, calcolabilità, programmabilità, pianificazione, razionalizzazione terminano scavando la propria fossa, producono timorosi incapsulati nel loro ego. Oggi, nelle scuole, un pericolo che osservo è il pericolo che tutto degeneri in calcolo di astuzia. Però in ciascun momento, in ciascuna scuola, ciascuno studente e ciascuna situazione ha qualcosa che sfugge al mio controllo, oltrepassa la mia capacità di obiettività, che supera le possibilità umane di programmazione, che non si lascia dominare o addomesticare come cosa o schema stereotipato e impersonale.


(Da) dove l’identità? Le parole di Tucide

Quando qualcuno si incontra di fronte a qualunque teso di storia, si incontra davanti a un testo letterario, che si offre a essere interpretato da chi lo legge. (cf. p. es. Veyne, P., “Comment on écrit l’histoire”, Editions du Seuil, 1971; Gadamer, H.G., “Wahrheit und Methode”, J.C.B. Mohr, Paul Siebeck, Tubingen 1960, 1965, 1972; Ricoeur, P., “La mémoire, l’histoire, l’oubli”, Editions du Seuil, 2000). Dov’è l’identità di chi legge? È nell’interpretazione che dà al testo. Finché l’insegnamento della storia continua a essere considerato come trasmissione di informazioni storiche, chi apprende continua a essere considerato como qualcuno che deve mettere dentro di sé liste di parole e non ha modo di esercitare la propria soggettività, di costruire una propria identità. Nella misura in cui, l’insegnamento della storia viene considerato come proposta di confronto di ciascuno con una realtà esposta in forma letteraria, aperta a una azione interpretante, libera e liberante, si rende possibile l’esercizio costruttivo dell’identità di chi, nel proprio apprendimento della storia, mette tutto se stesso, specchiandosi e confrontandosi in quello che legge.

Faccio un esempio. Prendiamo un testo sulla guerra del Peloponneso. Nell’opinione comune è considerata una guerra complessa, complicata, difficile da comprendere, distante e separata dalla nostra realtà, noiosa. In realtà è estremamente interessante e appassionante. Diamola da leggere ai bambini. Leggiamola insieme a loro. Prendiamo atto che è noiosa e difficile. Prendiamo questa difficoltà come una sfida mettendoci a interpretarla. Insegnamo agli studenti a vincere le difficoltà, a motivarsi davanti agli ostacoli, a superare la tentazione di rassegnarsi e arrendersi nelle crisi; insegnamo ad affrontare le crisi, a prender consapevolezza di non essere incapaci, ma di potercela fare anche là dove ci tremano le gambe.

A te, questa guerra cosa dice? Cosa vedi, in quello che leggi? Come possiamo incontrarci dentro a quel testo? Nell’interpretarlo, esercitiamo e sviluppiamo il nostro pensiero e la nostra identità. Tutto qui. Non occorre molto denaro per leggere mezza paginetta di storia e interpretarla. Occorre una piccola fiducia nella mente, in quella degli insegnanti e in quella degli studenti. Se si tiene più fiducia (o fede) nelle macchine, nei DVD educativi, nei manuali belli e pronti da deglutire così come sono, allora finiamola di parlare di insegnsamento e di scuola, e diciamoci chiaramente che questa scuola di insegnanti umani oggi è una spesa collettiva inutile, una cosa vecchia, da museo, da buttare, che non serve più, è morta. È morta perché al suo posto vogliamo una scuola industriale di una società industriale, una industria culturale, la stessa delle industrie della comunicazione di massa (stampa, radio, televisione...), e la stessa della quale ci fa ridere Charlie Chaplin nei suoi film.

Io non credo che la “vecchia” scuola fatta di insegnanti e di persone che pensano e che si confrontano con i testi attraverso il dialogo sia morta. Al contrario. È proprio qui la sfida che vi invito ad accettare: a riscoprire la scuola libera del pensiero, del dialogo, del confronto, della avventura, che non è dialogo, confronto e avventura tanto tra gli studenti, quanto piuttosto tra di ciascuno di loro e la realtà testuale esterna a loro, nella quale ognuno di loro si incontra, e che può rendere possibile che i loro rispettivi “io” separati si ritrovino a vedere, a interpretare, e a parlare di una stessa cosa, altra da ciascuno di loro allo stesso modo.

Non servono soldi. Non serve riempirsi di cose, di oggetti, di materiali. Non servono metodi o tecniche pedagogico-didattiche nate e sviluppate in Inghilterra o in Francia, negli Stati Uniti o in Germania, in Canada o in Svizzera. Non serve armarsi dei libri di psicologia più costosi, più nuovi e attuali. Quando si ha paura, uno si sente in pericolo, si arma; nelle scuole spesso i metodi e le tecniche psicopedagogiche più nuove finiscono con l’esser viste dagli insegnanti come le armi migliori con le quali combattere le proprie difficoltà esistenziali di fronte a una realtà così complessa e imprevedibile come è la mente dei bambini, come sono le situazioni quotidiane dell’insegnamento e come è la società precaria e instabile nella quale vivono (o sopravvivono). I bambini se ne accorgono, percepiscono gli insegnanti in atteggiamento di guerra, si rendono conto del loro stato di difesa armata pronta all’attacco, si percepiscono come nemici, si sentono in guerra con gli insegnanti e si armano, a loro volta, di scudi e spade psicologiche come la ribellione, la disobbedienza, l’iperattività, la violenza, la provocazione, il rifiuto, la rabbia, l’indifferenza, la noia. E allora, via le armi. Abbiamo il coraggio di riconoscersi come persone umane (non macchine) e vivere come tali. Eliminiamo la codardia che ci lega, ci stringe (ci stritola) ai manuali. I manuali, tanto quelli per i bambini quanto quelli per gli adulti, li hanno scritti persone come noi, sono in tutto e per tutto discutibili.

Torniamo alla guerra del Peloponneso. Questa guerra ci dà esempio di come nessuna forma di governo, di per sé, sia migliore delle altre, nessuna sufficiente a garantire il bene comune, come pure di come, dietro (o dentro) ai bei nomi e alle belle parole, come è il caso della tremenda parola “democrazia”, si possano nascondere emozioni, sentimenti e pensieri illusori, possano mimetizzarsi, come astuti predatori, soggetti feroci e diabolici, con stessa razionalità e intelligenza degli Hitler e degli Stalin, dei terroristi islamici e dei kamikaze giapponesi, della criminalità organizzata.

Questa guerra si fa esempio di come grandi potenze economiche, militari e culturali possano nel giro di breve tempo terminare; e si fa esempio di come queste possano arrivare alla propria brutta morte per opera delle proprie umanistiche mani, le stesse mani che fino all’inizio del massacro (e fino alla fine del massacro) si nascondevano in fiori e in bandierine di pace, in belle cose e in belle parole.

Questa guerra è un tratto di storia di una società e di una cultura individualista e umanista, che per le sue stesse caratteristiche psicologiche, sociali e culturali ha finito col suicidarsi senza nemmeno accorgersene. È un tratto di storia di una società e di una cultura per molti aspetti superiore alle altre, superiore per potere economico e per originalità e genialità delle forme di pensiero artistico, letterario, filosofico, storiografico, politico; superiore a tutti eppure incapace della cosa più semplice, più banale, più mecessaria: la sopravvivenza, la autoconservazione, l’autodifesa.

È una storia di una grande società, di una grande cultura, così grande da lasciarsi vincere dal proprio egoismo, dall’arroganza, dall’orgoglio, dalla superbia, di lasciarsi vincere da altri che lei considerava inferiri, barbari, selvaggi, e che effettivamente, in confronto a loro, lo erano (lo sembravano) per molti aspetti.

È una storia di una società, di una cultura che fino a oggi noi occidentali, almeno a partire dall’inizio dell’età moderna (prima con l’umanismo e il rinascimento, poi con l’illuminismo, abbiamo sempre continuato a prendere per noi stessi come esempio e modello da imitare e ripetere o continuare, abbiamo sempre guardato con ammirazione, e che tuttavia era una società, una cultura diabolica, profondamente schiavista, maschilista e razzista, una società che considerava gli stranieri come “barbari”, da trattare come schiavi, animali da lavoro, una società incapace di starsene in pace e di lasciare che gli altri se ne stiano in pace, continuamente in guerra, una società e una cultura di persone inquiete, agitate, violente, che non sono state capaci di vivere e che, per loro stessa mano, si sono accoltellate a vicenda.

È una storia dalle molte contraddizioni interne, che si presta tanto a una lettura tragica quanto a una lettura comica; una storia profondamente sociologica, psicologica e filosofica. È una storia che si presta anche a una lettura poliziesca, nella quale le varie parti in conflitto si incontrano in un tribunale, davanti ai giudici, nella quale le ragioni di ciascuno sembrano equivalersi, nella quale nessuno sembra essere in errore, nella parte del torto, della colpa. Come dire: “la colpa non è di nessuno, la situazione che si è creata è più forte di ciascuno e domina tutti”.

È una storia che si presta a infinite letture e riletture nella quale ciascuno di noi, insegnante o studente, si può ritrovare come vedersi allo specchio (strano, nella quale l’ “io” riflesso in realtà è realmente “altro”, un “altro-da-me”, e non un “altro-io”) e, nel confronto con questa immagine, costruirsi, svilupparsi o mettere in discussione la propria identità.

Questa guerra del Peloponneso è solo un esempio di come si può fare storia a scuola, a tutte le età, in tutte le realtà geografiche e culturali, senza bisogno di far ricorso all’uso di computer o dei più nuovi, più aggiornati, più costosi manuali psico-pedagogico-didattici in commercio prodotti a Londra, Parigi, Zurigo, Berlino o New York.


L’ “io” e l’ “altro”

Si può insegnare la storia attraverso il dialogo diretto con i testi della letteratura storica. Soprattutto con quelli antichi, che, grazie alla distanza temporale che ci separa, ci permettono una separazione emotiva dalle cose di tutti i giorni che ci preoccupano, proiettandoci con una partecipazione totale in una storia che non sentiamo più nostra e che effettivamente non lo è, e che, tuttavia, non è totalmente altro da quello che stiamo vivendo, ma si presta sempre a interpretazioni di straordinaria attualità per vie metaforiche e analogiche.

Insegnando agli studenti a dialogare, a interpretare, a pensare, a non vergognarsi e a non nascondersi con pigrizia e codardia dietro a quello che dicono o fanno gli altri, ma ad avere il coraggio, la forza, la volontà di pensare liberamente e di dire liberamente quello che pensano, di mettersi alla pari con i testi che leggono e, se possibile, di metterci qualcosa di nostro, di contestarli, di immaginarseli differenti, di vivere al loro interno.

È un invito a prendere le distanze da una pedagogia e da una didattica con troppe pretese di scientificità e con troppe illusioni di progresso; un invito a liberarsi da modelli pedagogici e didattici che si sono imposti all’opinione internazionale uniformando, omologando, appiattendo tutto e tutti a poco e a pochi; un invito a vincere la propria timidezza e a iniziare a pensare che siamo capaci non solo di imitare quello che dicono o che fanno i cosiddetti “esperti”, ma anche meglio. L’uniformità è propria delle produzioni in serie o degli eserciti, non delle scuole.

La costruzione dell’identità di una nazione, di un popolo, di uno stato o semplicemente di un gruppo si fa a partire dalla costruzione dell’identità di ciascuno (“affermazione dell’io”). E, in una scuola, l’identità di me, di te, di lui consiste nel proprio pensiero, nella propria interpretazione del mondo e delle cose del mondo.


Il nuovo e il migliore. Il mito del progresso

Ci sono mode psico-pedagogiche che non convincono. E c’è una tirannia di queste mode. Parole come “modernità”, “originalità”, “novità” a volte corrispondono a illusioni. Il mito del “progresso” è un “dio” per la “modernità”: al “progresso” bisogna sacrificare tutto; tutto deve tacere e sottomettersi alle sue esigenze. Pero, “progresso” perché? Le persone che vivono in situazioni materialmente più bebestanti o agiate sono forse più felici delle altre, più amabili, più buone, più umane? [...]

Altre parole, contrapposte, come “vecchio”, “retrogrado”, “superato” sono detti come disvalori. Molte volte i modelli pedagogico-didattici considerati “migliori” semplicemente corrispondono alle necessità delle catene di consumo e a una logica propria del consumismo, che ci impone una identificazione con chi è potente: ci convince a desiderare forza finanziaria, psichica e culturale. La scuola si fa scuola di competitività, che propone come modello esemplare le persone più forti e, a volte, senza scrupoli. L’insegnamento della storia è utilizzata, a volte, come storia di alte società, di élites al potere. Però non è necessariamente così. È possibile evitare di stare dentro a modelli di dominazione?


Servi e padroni

Per Sartre, nella relazione io-tu, o io-l’altro, ciascun membro della coppia è necessariamente o tiranno o schiavo; il mondo dell’altro è una permanente provocazione alla lotta, all’adattamento o al superamento. È possibile una scuola differente, che non si limiti a depositare e a conservare strutture sociali e culturali?

Ci sono scuole che hanno molte cose e usano molte cose, però sono molto poca cosa (cf. p. es. Fromm); hanno paura a qualunque cambio di programma, a qualunque pensiero che possa mettere in discussione la propria identità. È possibile una scuola differente?

“La pedagogia dominante è la pedagogia della classi dominanti”; una pedagogia come “pratica di dominazione” (P. Freire, “Pedagogìa del oprimido”, Editorial Tierra Nueva, Montevideo, 1969 (1), !970 (2), p. 5, tr. it. mia). Ci sono alcune scuole, alcuni insegnanti che fanno un uso autoritario dei propri saperi, sacralizzati nei loro manuali. L’autorità umana, la giustizia umana sono sempre dei più forti, sempre vantaggiose ai più forti. L’idea meramente umana di autorità e di giustizia è vantaggiosa per i più forti, svantaggiosa per gli altri (cf. p. es. Platone, “La Repubblica”, primo libro; cf. anche autori contemporanei come Foucault, Sini). È possibile una pedagogia non dominante, non di classi dominanti, non di pratiche di dominazione? È possibile un insegnamento all’interno di un’idea di giustizia non vantaggiosa (o svantaggiosa) per un gruppo socio-culturale?


Dialogare le possibilità

I conflitti e le ambivalenze di ciascuna storia, di ciascun momento di ciascuna storia, non ci obbligano alle stesse interpretazioni o percezioni nel modo di confrontarci con queste storie. Possiamo trovare immense possibilità di interpretare tutte le indecisioni e i fallimenti dei soggetti della storia, tutte le loro lotte, i loro dolori, i loro usi dela libertà. La storia è ciascun istante aperta a un’infinità di percorsi e lo studio di questa storia infinitamente aperta di infinite aperture è un modo straordinario per esercitare un pensiero delle possibilità, delle infinite possibilità infinitamente possibili. Ciascun istante di ciascuna storia è un luogo sconosciuto, pericoloso, rischioso, un tempo di avventura, di incertezza, di complessità, una casa dell’infinito. Leggendo ciascuna parola di una narrazione storica, in ciascun momento uno si può sentire, percepire, sperimentare, vivere in uno stato di tensione cognitiva, di dubbio, di perlplessità nel dare ragione all’uno o all’altro, nell’interpretare in un modo o nell’altro un atto, un evento, una situazione. La perplessità può essere una strategia eccezionale per educare a un’etica discorsiva, o dialogica (cf. p. es. J. Muguerza, “Desde la perplejidad”, FCE, México 1990). Quello che è necessario e sufficiente in una scuola è il dialogo. Chiaro. Però, che sigifica “dialogo”? Se non “pensiero dialogico” (cf. p. es. Martin Buber, Ferdinand Ebner, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas, Xavier Zubiri, Emmanuel Mounier, Pauolo Freire)?

In ciascuna storia, che è tanto storia di schiavitù come di libertà, determinismo e “caso” si mescolano. La interpretazione di ciascun atto o situazione si può fare occasione per esercitarsi al pensiero della libertà, allo sviluppo di un pensiero libero e liberante (liberatore). In ciascuna situazione nella quale mi incontro con un testo di storia, mi si scopre (desnuda) la mia libertà nell’interpretarlo e quella dei soggetti del testo, che la hanno vissuta (usata o consumata). Io mi posso vivere come soggetto con identità propria liberandomi di strutture psicologiche e culturali dominanti, egemoni, che si possono nascondere in un attivismo e che possono dar luogo a una schiavizzazione culturale e in una disumanizzazione. L’attivismo, “che è l’azione per l’azione, minimizzando la meditazione, nega anche la pratica autentica e impossibilita il dialogo” (P. Freire, “Pedagogia del oprimido”, cit., p. 84, tr. it. mia).

Il lavoratore non si afferma nel suo lavoro, ma si nega; non si sente bene, ma si disgusta; non sviluppa una libera energia fisica e intellettiva, ma mortifica il suo corpo e rovina la sua mente. Per questo il lavoratore non si sente se stesso fino a che esce dal suo lavoro, e nel lavoro si sente alienato. Quando non lavora, si sente a casa; quando lavora, fuori.

(K. Marx, “Manuscritos de París. Anuarios franco-alemanes, (1844), O.M.E. V, Crítica-Grijalbo, Barcelona 1978, p. 352).

Il lavoratore, e lo studente. Il lavorare per il solo lavorare (il lavorare, di per sé) non è cosa buona. L’attivismo, in definitiva, è connesso al capitalismo. Il capitalismo non è solo un modo di produzione, ma anche uno stile di vita e una espressione di una visione antropologica con tre presupposti: 1. la primazia dell’azione e del lavoro; 2. la primazia di una mera “ragione” o “razionalità” strumentale (positivismo, scienticismo e tecnocrazia); 3. un criterio quantitativo, sempre in relazione con la produzione e il consumo. Il sogno del capitalismo selvaggio (capitalismo che domina e sfocia in una violenza strutturale) consiste nell’avere più denaro, disporre di più beni, ottenere maggiore possibilità di consumo, comodità, sicurezza ed essere proprietario di quanto più e di quanto meglio.


Storie di altri

Ciascuna storia di ciascuno è una storia di altro, o di altri. Per questo, è una opportunità per confrontarsi con l’alterità e, attraverso questo confronto, sviluppare la propria identità. In ciascuna storia si presenta il problema dell’accoglienza (dell’ospitalità, del rifiuto o della perplessità) dell’altro, del “barbaro”, di chi “parla un’altra lingua”, di chi “parla in altro modo” o comunque “dice altro, che io non conosco o non comprendo”, di chi non pensa nè vive come noi. Questo si fa occasione per esercitarsi a descrivere e interpretare le realtà storiche attraverso una pluralità, infinita, di prospettive. Se non esiste l’altro, non esiste nemmeno il se-stesso. L’io può apparire (trasparire) solo quando c’è, davanti all’io, l’altro-io. L’altro è la condizione di possibilità dela costruzione dell’io. L’io si fa io nel tu e per il tu, nell’incontro con il tu, nel confronto con il tu, nel conflitto con il tu, nel dialogare e nel giocare con il tu.

Non posso pensare nme stesso come esistente, se non in quanto mi concepisco come non-essere-gli-altri, come altro distinto da loro. [...] L’io non esiste, se non in quanto se stesso è per l’altro e in relazione all’altro.

(G. Marciel, “Homo viator”, Nova, Buenos Aires 1954, tr. it. mia).

È nell’altro, nel tu, nell’alterità che si constituisce l’io. L’essere umano si basa nella natura essenzialmente dialogica dello stesso. La storia che trovo è fatta di (da, per) altri, altre persone e altri io. Tutta la storia è fatta da biografie (io-altro), da sempre, fin dai primi storiografi (A. Momigliano, “The Development of Greek Biography”, Harvard College 1972, ma 1968).

L’altro non è altro-come-me, ma è, essenzialmente, altro-da-me. Con lui faccio (mi trovo in) relazioni di scambio. In queste relazioni di scambio l’altro non trova in me la sua origine, nè l’io nell’altro, ma entrambi eccediamo i nostri reciproci limiti e le nostre reciproche appropriazioni. L’altro è traccia di trascendenza. La relazione tra l’io e l’altro è, essenzialmente, asimmetrica: l’altro è prima di me ed eccede al circolo del mio io. (Cf. A. Pintor Ramos, “En las fronteras de la fenomenologìa”, en Gonzáles, G. e Arnaiz, R., (eds-), “ética y subjetividad. Lecturas de Emmanuel Lévinas”, Universidad Complutense, Madrid 1994, p. 42).

La storia intera è inconcludente, aperta. Questo può educare a un pensiero aperto, che non ha ansie di concludere, che si mantiene in movimento infinitamente inconcluso (cf. p. es. Muguerza, cit.). Eraclito ci dice che “la guerra è origine di tutte le cose”. Per noi, la guerra, il conflitto (polemos) è origine di tutti gli apprendimenti, di tutte le interpretazioni, di tutti gli sviluppi psicologici e storici.


Luoghi della libertà

La storia è il luogo della libertà. Quando uno accoglie (ospita) la libertà, o ne è accolto (ospite), deve accogliere (ospitare) anche il rischio, il pericolo del fattore dell’imprevedibile. Ciascuna decisione è rinuncia ad altre possibilità, ugualmente buone. Le limitazioni e le possibilità vanno insieme. L’orizzonte delle libere interpretazioni è illimitato. Nella misura in cui si sperimenta liberamente interpretante, il soggetto si mostra capace di superare i processi causali e i vincoli deterministici, può realizzare la sua indipendenza ed emancipazione da essi. È in questo modo che si può realizzare quello che alcuni ci dicono “educazione come pratica della libertà” o “educazione dialogica con finalità liberatrice” (P. Freire, cit., passim). Gli automatismi delle risposte meccaniche può dar luogo a noia, insensibilità, indifferenza, passività, al contrario delle situazioni di conflitto cognitivo e di libertà di interpretazione.

La storia ci si presenta nei testi come infiniti punti separati, isolati gli uni dagli altri, staccati, arcipelago di isole senza connessioni o ponti, come un caos, una aggregazione caotica. L’ordine, l’unità, si affida alla mente di chi legge, di chi sta a guardare e si mette a vedere, di chi sta a sentire e si mette in ascolto. È il lettore che può trovare un ordine, un’unità alle storie donandole un significato, e un altro, e un altro ancora.


Machere di pace

Si parla molto di “pacifismo”, di “cultura della pace”, di “educazione alla pace”. Però come parlare di pace se non parlando dei conflitti, che sono propri della condizione umana e che costituiscono una condizione di cambiamento culturale, storico? Leggo di un pacifismo che si limita a reclamare la pace. Questo modello di pacifismo appartiene a chi adotta come massima della propria esistenza la tranquillità; la paura (l’orrore, il terrore) di vivere impedisce qualunque tipo di compromesso. È il pacifismo dei soddisfatti, dei timorosi e dei docili che, rinchiusi nella propria mediocrità, possono solo nascondersi in una città di conigli, città di anime morte e di sicurezze vili (cf. Mounier). Avere pace (“avoir la paix”) è la fonte di tutte le codardie (Péguy).

Nella storia dei gruppi (grandi o piccoli), come nella storia delle persone (quali che siano), ci sono momenti decisivi nei quali si possono fare dei passi irreversibili. Penso ad esempio alle varie indipendenze (politiche o personali), alle invenzioni e alle fruizioni delle tecniche, alle promozioni di alcuni gruppi sociali o di altri. Alcuni (pochi o molti che siano) hanno aspettato e lottato per questi passaggi, vestiti di “progresso”, “miglioramento”, “avanzamento-in-bene”. Ma, dopo i felici inizi, passato l’entusiasmo per la novità, ci si accorge che non tutto è stato risolto. L’umanità, come ciascuna persona, va avanzando, però ciascun momento del percorso porta problemi nuovi e ciascun “progresso” può servire anche per commettere dei mali maggiori dei precedenti.

Ciascuna rivoluzione (culturale, sociale, politica, economica...) pretende di essere buona, però le persone continuano a sperimentare mali sempre nuovi e sempre più forti, continuano a sperimentarsi sempre infelici e insoddisfatti, sempre bisognosi e desiderosi di altro, sempre poveri, per quanto ricchi in economia e in cultura, in beni materiali e intellettivi. La costruzione di una identità, personale o nazionale, forte e indipendente, non necessariamente porta pace, giustizia, felicità, o comunque modalità soddisfacenti di vivere.

Gli ateniesi “sono nati per non vivere né lasciar vivere tranquilli” (Tucidide). Il mondo degli antichi ateniesi, simbolico e significativo, in ciascun momento (suo o nostro) si fa luogo in cui incominciano (e finiscono) differenti possibilità. Ciascuna storia, essendo sempre particolare e concreta, rimette a una totalità, a una pienezza di significato; una stessa storia “può incarnare valori e disvalori differenti e, per questo, può essere bene in un senso e male in un altro” (M. Garcìa Morente, “Ensayos sobre el progreso”, Dorcas, Madrid 1980, p. 43). Gli aspetti simbolici e significativi possono essere visti solo attraverso una azione interpretante del pensiero di un soggetto che ospita l’altro, libera e liberante, attraverso della quale il soggetto, accogliente, esercita, sviluppa e afferma il proprio io, la propria identità, libertà e umanità, infinitamente aperta ad altro.

* Andrea Muni è maestro di scuola elementare statale. Ha scritto “Cose che gli insegnanti non dicono”, Armando, Roma 2009.






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