Pettine e code: le ragioni di due docenti precarie
Data: Marted́, 04 agosto 2009 ore 11:17:40 CEST
Argomento: Opinioni


Code e pettine

 

Ruolo, incarico, graduatorie, e da quest’anno anche code e pettine sono le parole che rimbombano nella testa di ogni docente precario che si rispetti. Di quei precari che hanno affidato alla scuola una parte fondamentale della loro vita: il lavoro. Lavoro  che dovrebbe dare serenità e fiducia, che dovrebbe aprire a nuove prospettive se solo fosse stabile e che invece genera tormento morale e fisico perché a grosso rischio perché, appunto, precario.

E, come se non bastassero le azioni “meritorie” dei vari governi che si sono succeduti negli anni, ci si mette anche chi, con pochi scrupoli, specula sulla pelle di coloro che  ormai si sentono  privi di ogni speranza.

Promuovere ricorsi contro l’inserimento in coda,  non ha fatto altro che generare ulteriore confusione tra chi invece dovrebbe, ora più che mai,  restare unito.

A chi avrebbe potuto far bene ricorrere,  se non all’ultimo docente inserito in terza fascia che,  al massimo,  poteva ritrovarsi ancora ultimo altrove? Certo non a chi, dopo anni di sacrificio, aveva finalmente raggiunto una posizione in graduatoria tale da garantire il ruolo o almeno un incarico a tempo determinato perché, a ben riflettere nessuno poteva essere certo di non trovarsi nella propria o in un’altra provincia, qualcuno che “a pettine” lo avrebbe preceduto.

Grazie allora a chi, come la Gilda degli Insegnanti ha permesso di aprire gli occhi a quanti hanno chiesto un parere, rifiutando di inoltrare inutili e dispendiosi ricorsi che ad altro non sarebbero serviti se non ad alimentare vane speranze di precari e tasche di compiacenti associazioni.  

 

Napoli, 31/7/09

Virna Ricci

 

Docente precaria

 

 

 

 

In risposta alla docente precaria che scrive da Napoli, e dalle cui premesse intuisco  che siamo entrambe nella stessa situazione, oltre che nella sacrosanta posizione di pretendere un lavoro stabile che riempia le nostre vite. Un’altra cosa però, io mi sento di pretendere: le pari opportunità, senza discriminazioni a carattere territoriale, regionalistico o provinciale.

E’ vero, collega, che non tutti i precari sono nella stessa posizione di punteggio, ma a meno che non si voglia ammettere che esistono precari di serie A (tanto punteggio, magari inseriti al nord) e precari di serie B (medio punteggio, dislocati in zone più colpite dalla “razionalizzazione), dobbiamo rispettare il principio di base di una pari opportunità lavorativa, che molti di noi hanno dovuto pretendere attraverso la ben nota “pietra dello scandalo”: il ricorso.

Quel ricorso che con fatica riusciamo a farvi leggere per quello che è: la  rivendicazione di un diritto che, se dimenticato, darebbe il via ad una rovinosa catena di precedenti (a mio parere) di malcostume. Il diritto a essere uguali in qualsiasi zona d’Italia. Il diritto a conservare i meriti acquisiti ovunque nella nostra nazione. Il diritto di cercare una possibilità di lavoro senza che qualcuno se ne abbia a male, urli “al ladro”, e invochi per questo un nuovo, sconcertante muro di Berlino che dovrebbe arginare, ingabbiare e incatenare un precario (mobile per definizione, oltre che per disperazione) ad una provincia per decenni.

Che auspicio è mai questo, nel 2009? Mentre si parla di Europa, di confini e barriere che cadono, mentre si accolgono gli abilitati all’estero (cristallizzazione? o vale solo per la questione “spostamenti fra regioni”?) l’Italia si distingue per la reclusione dei suoi lavoratori precari in singole province, invocando la presa in giro di una continuità didattica che, noi lo sappiamo bene, molti precari non possono garantire per la natura stessa del loro contratto. E se non fosse abbastanza triste il pensiero che questo proposito viene proprio dal Ministero che dovrebbe agire nel nostro interesse, ancora più sconvolgente è l’idea che siano gli stessi docenti ad augurarsi  una catastrofe democratica di siffatta portata, nella convinzione (illusione) che questo possa giovargli.

A chi può giovare un Governo che ignora le più elementari regole della Costituzione, e che impartisce poi l’ordine di “resistere” alla sentenza di un Tribunale?

Come può sentirsi tutelata da un Governo che inaugura una stagione di anarchia del Diritto, al fine di compiacere una forza politica che descrive noi, gente del sud, con i peggio epiteti (per non parlare delle canzoncine), issati a vessillo ideologico?

Come non comprendere che il famoso patto del 2007 (graduatorie rese ad esaurimento in vista di un notevole prospetto di assunzioni) è venuto meno per volere dello stesso Ministero che adesso, con la solidarietà di molti sindacati, ha creato una corrente di pensiero ad hoc, che individua nel ricorso (certo, il ricorso) il vero problema del mondo della scuola, distogliendo ben bene l’attenzione da ciò che al ricorso (vinto, ricordiamoci, per qualche motivo) ha portato.

Una scellerata politica di tagli nella scuola pubblica, in totale controtendenza col famoso (e ricordato sempre per metà) “patto targato 2007”.

Mi piacerebbe capire come si riesce, in un’estate di sforbiciate economiche alla scuola pubblica come questa, a trovare il tempo per fare i conti in tasca a quelle associazioni che hanno patrocinato il ricorso al Tar, come se adesso fossero questi i numeri che contano per noi precari.

Quello che conta per me, collega di Napoli, è la speranza non tanto che la legge mi assista (a quanto pare, se per il suo sindacato questi ricorsi sono inutili, per il giudice amministrativo sembrano invece  più che fondati), ma che il mondo della scuola si riabbia dall’iniziale paura che il “collega meridionale lo scavalchi”, per rendersi conto che il collega meridionale non ha meno diritti di lui, che nessuno si trasferisce o fa ricorso per dispetto, che non è un “modo di fare da furbi” come vorrebbe far credere qualcuno, è un diritto.  Il diritto ad essere uguali in questa nostra Italia, e negoziare un principio simile, mia cara signora, anche se “sulla soglia del ruolo”, può essere molto, molto pericoloso.

 

Roberta Monno, docente precaria.







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