I pirati sbarcano sulle nuvole. Col salvagente
Data: Marted́, 21 luglio 2009 ore 12:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Molti penseranno che di The Pirate Bay, dopo l’ammaina-bandiera di inizio mese, nelle cronache della blogosfera non se ne parlerà più, che il nugolo di pirati dissolto negli ingranaggi di Global Gaming Factory non trovi più spazio nelle notizie mainstream, ma non è così: c’è chi ha colto segnali di rinnovamento che potrebbero avere un futuro, potrebbero dare alla Nuova Baia un angolino sulle nuvole, dove iniziare nuova vita. E nuovo business, naturalmente, ammesso che le fauci dell’industria dei contenuti falliscano nei propri scopi di accaparramento del capitale ricavato dalla vendita della Baia.

A ventilare questa possibilità è Cnet: partendo dall’entrata di Wayne Rosso (ex CEO di Grokster e fondatore di Maxxbox, nonché severo critico della RIAA) nel board di Global Gaming Factory, ha tentato di capire qualcosa in più. E non si è fatta sfuggire l’occasione di intervistare Rosso, per sapere cosa potrebbe accadere della Nuova Baia.

The Pirate Bay, ormai è noto, ha smesso di essere quel che era.Dunque, secondo quanto ha illustrato Rosso, la novità succosa potrebbeessere un innovativo modello di business basato proprio sul cloud computing.Il “piano” prevede, infatti, che gli utenti della Baia paghino uncanone mensile per poter ottenere musica, ma potrebbero ridurre ilcosto di tale canone contribuendo al business sotto forma di spazio di memoria di massa, un tipico modello storage-as-a-service.

Ad esempio (le cifre sono immaginarie perché Rosso non ne ha indicata alcuna) un utente potrebbe mettere a disposizione un gigabyte di spazio per la nuvola e il costo del suo abbonamento verrebbe ridotto da 9 a 5 dollari. “Più il vostro computer condivide risorse contribuendo al network, meno si paga, fino a pagare anche zero”, ha detto Rosso. “Il controllo di questo parametro è in mano all’utente”.

In altri termini, TPB vorrebbe assurgere al ruolo di primo servizio peer to peer commerciale in stile cloud, che separa i concetti di acquisizione e vendita di capacità di memoria di massa. Ciò, secondo Cnet, potrebbe rivelarsi un modello interessante perché consentirebbe la vendita di un determinato tipo di servizio ad una ben precisa fetta di utenza (musica e video), ma al contempo di vendere lo stesso servizio anche ad altri segmenti, come qualsiasi attività business che abbia bisogno di spazio di memoria di massa.

La domanda sorge spontanea: funzionerà, ovvero funzionerebbe? Difficile dirlo così, “su due piedi”. Benché James Urquhart, autore dell’articolo su Cnet, offra il proprio punto di vista su come egli stesso affronterebbe la novità, sorgono diversi interrogativi.

La sicurezza innanzi tutto: quale business si fiderebbe di impiegare risorse di memoria di massa disseminate ovunque nel globo, che oggi ci sono e domani non si sa? Questa evenienza va prevista, e comporta sviluppo di software specifico a tutela.

Non solo: attraverso degli exploit, il software così sviluppato esporrebbe un ulteriore fianco alla sicurezza, perché dei malintenzionati, una volta individuate le necessarie debolezze, potrebbero approfittarne per appropriarsi di dati altrui.

Certamente – come conclude lo stesso Cnet – può comunque trattarsi di un’idea, almeno in linea di principio, intriguing: ma è impossibile non concludere che della vecchia Baia, ormai, è rimasta traccia solo nella memoria di chi la usava così com’era.

Tanto più che il modello Legal-Bay, del quale a quanto si legge sta sorgendo un esemplare anche in Italia, a cura della SIAE, può risultare particolarmente insidioso per i perversi meccanismi attrattivi offerti dal business che potrebbe comportare.

Un modello, però, che i giuristi tendono a individuare – a dir poco – come inelegante: “una società di intermediazione che agisce in un regime di anacronistico monopolio non può elaborare e, magari, gestire servizi di distribuzione di contenuti digitali perché, ovviamente, per questa via, rischia di travolgere d’un soffio le più elementari regole del diritto antitrust nazionale e comunitario dando vita ad una sorta di «cartello digital-telematico» dei titolari dei diritti del mondo audiovisivo”, sostiene Guido Scorza, giurista e blogger accanito, nel citare la vicenda.

Prescindendo, insomma, dagli aspetti meramente tecnici, il volere per forza trasformare l’atto di scaricare, un fatto che è proprio della Rete, quasi viscerale, in un’attività non solo legale ma anche redditizia, non sembra essere così semplice. Quanto meno, più la Baia diventa un business vero, solido e reale, meno attrarrà quel tipo di utenza che prima la frequentava e, quel che è peggio, quell’utenza – questo dev’essere chiaro – non scompare. Semplicemente si sposterà altrove: le fonti alternative non mancano.

Marco Valerio Principato







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