''L'ARTE DI AMARE'' (SECONDO LE DONNE) di DACIA MARAINI
Data: Marted́, 26 maggio 2009 ore 00:05:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Ovidio secoli fa insegnava ai maschi

giovani romani, soldati, servi, padroni,

come conquistare le donne, nei teatri,

ai mercati, sotto i portici, al mare, in città.

Li esortava a essere tenaci, furtivi, avidi,

rapaci di furbizia e di galanteria. “Sono le

piccole cose a conquistare le teste leggere

delle donne”, diceva. E poi ancora, invitando

a fare buon uso del vino: “sovente ai giovani

rapì la donna il cuore e fu nei vini come fiamma Amore

dentro la fiamma. Ma non ti fidare troppo

di un lume incerto di lucerna, la notte e il vino

nuocciono al giudizio. Chiedi alla luce se una

gemma è pura, se ben tinta di porpora è una lana,

chiedi al giorno se una donna vale. Ma al buio,

sappilo, tutte le donne sono belle uguali.



Ora io voglio rovesciare le tue parole.



Ovidio Nasone, poeta gentile e nemico.

La tua voce festosa io la faccio mia e dico:

 se tra voi, donne mie giocate, c’è

qualcuna che non conosce l’arte dell’amore

legga questi versi, sciolti nell’acqua dell’orgoglio,

e fatta esperta, imponga il suo furore.

  La mano di una madre selvatica, incontaminata

e secca ci ha guidate vigili al dovere sociale.



La madre tua assolata è una vestale, un carceriere

che ti indica la strada verso il tuo dovere donnesco.

Quella mano perversa e gentile che ti ha

lavato la faccia e il sedere, che ti ha imboccato

e pulito, carezzato e punito, quella mano è

la tua nemica più dura perché è una mano di donna

che ti insegna le regole dell’uomo, la mano

attenta e dolce del padrone sulla testa tua

che è sfottuta e tu non lo sai, donna mia cieca

e sorda, ardita e fiacca. Tu scavi nel tuo

ventre di terra un budello senza aria dove

nascondere e nutrire la tua anima asfittica incolore.

Buttiamo via le bende del pudore!

Gettiamo per una volta il dio del sacrificio

nell’immondizia e guardiamoci negli occhi

impauriti e viziosi per troppa servitù, donne mia amate.


Tu che nasci alla conoscenza del dolore

i calzettoni bianchi sotto il ginocchio,

la gonna corta a scacchi, i capelli a coperta

sulle spalle mingherline, a scuola, a casa,

nelle balere e sui motorini dietro al tuo ragazzo.

La tua bandiera è l’indifferenza truffaldina

degli occhi tuoi dolci di camelia affamata.

Delle altre donne non ti importa niente,

il nitore della pelle, il fulgore dei capelli,

il brillio dei denti ti fanno vincitrice senza

fatica e senza guerra, nell’onda naturale dell’età.

E vai e corri e sei beata di essere te perché

ti attacchi al suo torace fertile di maschio

sapendo che ti vuole come vuole il pane,

con serena languida passione, senza amore.


Ma è già tutto fissato come in una decalcomania

e tu sei dolce e lui aspro, tu sei molle e

lui è duro, tu sei debole e lui è forte,

e quando ti dice con la sua voce fragile:

“io ti prendo, sei mia”, tu accetti naturalmente

quel suo possesso che è sociale e non naturale,

ruzzolando in un fiato nella degradazione.

Gli sei grata per un gelato, per una corsa

in macchina, per una carezza, con umiltà e paura.

E non ti accorgi, mentre succhi quel gelato

di fragole che ti tinge la bocca di violetto,

che ti stai succhiando l’anima, troppo dolce

e fredda e saporita, ma già pronta a sciogliersi, a sparire.


La corruzione è così facile, pulita e onesta.

Le parole di tua madre, della tua maestra,

delle tue compagne, ti spingono come una

vitella di carne chiara verso la macellazione.

Non si sa quando comincia questa sottile

corruzione dell’integrità umana,

se dentro il ventre buoi dell’eredità

quando l’ossigeno lo succhiavi col sangue

in una boccata amara che ti riempiva i polmoni,

oppure dopo, nelle fasce di spugna che ti

stringevano il corpo deforme e arrossato.

Oppure dopo, fra le braccia amorose di un padre

impiegato che ti insegnava la prima A, la prima O.

oppure dopo ancora, dentro una veste rosa,

stringendo al petto la bambola dai capelli veri,

che fa la pipì da un buco di plastica molliccia,

per la tua educazione di mamma futura e ardente.

O dopo ancora, sul banco laccato di un asilo,

mentre una maestra miope e paziente ti insegna

a disegnare casette con giardini e fiori gialli alati.

Ed ecco che ti svegli e sei già corrotta,

la convinzione del tuo destino servile ti




si è piantato in testa come un chiodo che

tiene fermi per sempre i tuoi pensieri, le tue

certezze , i tuoi sensi, le tue voglie, le tue paure.

Quel chiodo ti ha fissato con un colpo splendente

nel buio ordinato e assennato del firmamento sociale.

Un chiodo infilato così bene e così a fondo

dentro le viscere del tuo cervello delicato

che dopo penserai di essere nata così, cornuta,

come quello strano animale, il liocorno,

bello e mai esistito, eppure dipinto e

cantato e concimato dalle fantasie del mito.

  Ma se tu, fin da principio accetti te

come persona intera, senza incrinazioni o ammacchi,



se tu accetti di guardare con occhi franchi

il mondo, le voglie, i raggiri, l’eternità,

 vedrai, ti cambierà la vita fra le mani,

e la tua testa camminerà da sola e ti sembrerà

strano e bello e forse pauroso, ma la mortificazione

l’avrai pestata come la serpe di tutte le vergogne

e i dolori ti sembreranno più veri, più radiosi.

Prendi per una volta la faccia del tuo ragazzo

fra le mani, senza tremare per l’ardimento,

piegagli la testa da una parte con tenerezza e

bacialo tu, mordendogli un poco il labbro superiore.

Sembra una cosa semplice, ma è più facile

che un cammello entri nella cruna di un ago

piuttosto che una donna abbia la forza di

essere se stessa, nella sua carne e nei suoi pensieri.

Digli a fior di labbro: come sei bello!

E prendigli la mano e digli: mi piaci,

ora ti bacio ancora per gioia e piacere mio.

E tu che sei vergine e ti vesti della tua verginità

come di una bandiera tricolore ,sgargiante, spampinata.

Tu che hai conservato questo bel fiore come un tesoro

fra le tue gonne amate per anni e anni con tenacia

e pazienza. Ogni tanto ti chiudi nel bagno,

sola come un pesce nell’acqua della vasca insaponata

e contempli il tuo gioiello radioso con occhi di

gelosa avidità. Può bussare tuo padre, può bussare

tua madre, la tua solitudine è così perfetta che

le tue orecchie sono diventate di marmo e la tua gioia

contemplativa è così arricciolata su se stessa

che il tuo ventre si è fatto trasparente.


Solitario, muto, fulgente, eccolo lì il piccolo velo

biondo della tua integrità che credi naturale ed è sociale.

Passi le dita di cigno su quel tesoro adorato e

non ti accorgi, non ti accorgi più che sei diventata

una melensa avida avara conservatrice di te stessa,

una guardiana feroce e impura della tua servitù storica.

Conosco una ragazza, non tanto alto nè tanto bassa,

con due seni chiari come meloni, che si è perforata

da sola con le sue mani e dopo si è asciugata il sudore

della fronte con le dita sporche di sangue e paura.


Tu no, tu ti siedi sul cuscino dei tuoi sensi ammaccati

e calcoli come un severo ragioniere, le tue entrate,

le tue uscite sul libro dei privilegi fatali.

La verginità la conservi per apparire più pura

e non ti sei accorta dell’impurità che ha marcito

il tuo animo che ora puzza di muffa e di fanghiglia.

  Ed eccoti là, il giorno che hai deciso. Sei sposa,

sei amata, sei acconciata a festa. Hai avuto il



permesso ufficiale di rompere quel piccolo opaco

velo del tuo onore e oggi aprirai le gambe

al potere carnoso del tuo padrone legale.

Sei lì e tutto ti mortifica, ma la mortificazione

la scambi per malessere naturale. C’è stato lo

scambio dei regali. Sei passata come una bolla

di saliva maliziosa sulla bocca unta di olio

dei tuoi cugini, zii, cognate, nonne, parenti

che alludono al tuo prossimo sacrificio con

sconcia allegria e ribalderia paesana.


Tu sei lì, sudata, fra i fiori e i pezzi di

torta mangiucchiata su cui giacciono mozziconi

di sigarette spente. Ti guardi intorno contenta

perchè questa è la tua parte da recitare oggi,

pura, festosa, solida, sorridente, consapevole

degli occhi ansiosi che ti immaginano a letto,

ritrosa e poi vogliosa, con sopra il tuo sposo

trionfante, ambiguo, accaldato, che ti “fa” donna.

Credi che il tuo malessere, la tua mortificazione

siano cose bambinesche da negare e non sai che

stai cacciando via da te mosche fastidiose.


E poi viene la notte e ti chiudi nella stanza

dell’amore accompagnata dalle fantasie voraci

di tanti parenti e amici vestiti a festa.

Ti sfili il vestito bianco, pesante, costoso.

E lui, lo vedi, è lì, con i segni della canottiera

sul petto magro, gli occhi accesi di straniero.

La tua mano umidiccia corre all’interruttore

della luce. Rimanete al buio, così mezzi nudi e ostili.

Tu ti apparecchi, gentile e carnosa,

a recitare adesso un’altra parte, quella di moglie

alla prima notte di matrimonio, timida, impacciata;

rassegnata, pudica, amorosa. Lui preme la sua

bocca secca sulla tua. Poi ti spinge all’indietro

con un gesto di impazienza ed ecco, tu già ti abbandoni

rovesciando sulle lenzuola la tua vergogna

camuffata da obbedienza  e docilità maritale.

Sei sdraiata, immobile, impaurita e lui

ti assale accanito e lesto. Per la testa ti corre

l’immagine di un ricciuto macellaio che ti

si butta contro col coltello sguainato.

Ma chiudi gli occhi e ricacci il pensiero

sacrilego e amorale. Qui c’è solo un marito

che fa il suo dovere e una sposa novella

da deflorare con trombe e squilli e scampanate.


A te hanno insegnato, vergine bella, come a me,

a lei, a tutte, non a parole chiare e precise,

ma con il linguaggio muto dei segni sociali,

che il movimento è indice di partecipazione,

che l’ignoranza è indice di innocenza, che

l’immobilità è indice di accettazione.

Te ne stai lì perciò, sposa soggetta e muta,

nuda e ferma, senza sapere dove mettere le mani,

senza sapere dove posare gli occhi, senza

sapere cosa dire o cosa fare, aspettando da lui tutto,

l’insegnamento primo dell’amore e della vita.

Ed ecco che il padrone, con paterna pazienza e

paterno affetto, ti forza con dolcezza, ti rompe

la carne dell’infanzia tu provi sgomento e

non dolore ma la tradizione dice che a questo punto

tu devi recitare la scena della resa e allora

digrigni i denti e trasformi il tuo sconforto in dolore.

Intanto il signore, l’uomo, si muove secondo un

ritmo che lui ben consce e tu no, si propone

con cocciuta baldanza di arrivare al godimento

e per fare questo ti preme, ti incalza, ti schiaccia

sotto il peso maschio della sua insicurezza.


Se è un tipo pudico, si accontenterà della tua

fissità silenziosa. Se è un tipo estroverso,

ad un certo momento ti chiederà: ma tu non provi niente?

prova a godere! E tu, la sposa in bianco, ripescherai

nella memoria i film, i libri, i racconti che

dicono come e quando una donna manda degli

urli da scannata poichè il suo uomo le scava

il ventre con la sua carne frolla e inamidata.

Urlerai, non sapendo se per vergogna dell’oltraggio

o per il disgusto di lui, di te, di quella resa

calcolata, consacrata e festeggiata.

Il tuo urlo sarà la tromba della sua vittoria.

Esprimerai così, con scema rassegnazione, il piacere

amaro e mielato di essere dichiarata proprietà privata,

crocifissa sopra un letto d’amore matrimoniale.


Ma se tu, sposa mia, provassi a cambiare

il tuo cuore rovesciandolo sottosopra ?

Se tu, anche avendo fatto il grave errore

di conservare il tuo perfido tesoro fra le gambe innamorate,

se tu lo affrontassi così:

“marito mio, spogliati che voglio vedere come sei fatto!

Bene, ora mi spoglio io”. E poi

gli dici: “guarda che io sono vergine, ma

è un caso, una cosa che non ti riguarda,

non l’ho fatto ne per te ne per nessuno,

ma solo perchè ho ceduto ad un lungo atto d’amore

per me stessa. Ora uniamoci, ma decido io come,

perchè questa verginità muoia senza colpi cattivi.

Ecco, sdraiati. Io mi metto accanto a te. O forse

sopra. Quando si è sopra ci si muove meglio

e si può guidare l’orgasmo come si vuole.


Se poi non ci riesco, proverai tu a metterti sopra,

ma quando lo dico io. E non ci saranno urli e

lamenti, ma solo abbracciarsi silenzioso”.

E meglio ancora se pretenderai da lui che

ti accarezzi con dolcezza il petto e i fianchi.

chiedigli che ti mostri il suo amore tanto

declamato baciandoti sul sesso addormentato,

con morbidezza. Diffida da chi crede che il coito

sia un atto di brutalità e di prepotenza.

Non è virilità quella ma sadismo e il sadismo

nasconde sempre debolezza e vizio.

La forza rende delicati e dolci, la paura

e la fragilità armano di spade gli infingardi.


Ma è tanto più giusto e generoso, che al

primo grande amore, che sia a quindici o

a diciotto non importa, tu butti nel cesso

la tua verginità malata assieme con le tue

ansie puberali, e prendi in mano il sesso

del tuo compagno, per guidarlo tu

trionfante e sicura verso la gioia vorace

del tuo ventre innamorato. Tu credi di avere

paura della natura, ma le paure sono solo sociali,

credimi, tu non temi il dolore ma il giudizio altrui.

Non puoi subire sempre per paura, a costo di diventare

come tua madre e come tua nonna, un anello

nella catena dolce- violenta della continuità patriarcale

che ti serva addolcita senza saperlo.


Prendi quel sesso che ti vuole dominare con

la sua protervia di maschio antico,

stringilo ben bene e non avere paura,

è solo carne e il suo sangue non è più solido del tuo.

Non spettare che sia lui

a fare, a decidere, a muoversi, a cominciare.

Non farti usare. Se tu fai l’oggetto, lui farà

subito il soggetto, è come un gioco di acciaio puro.

Colui che prende, che fa, che decide, ha ragione poi

a dire: l’ho presa, l’ho posseduta, è mia!

Perchè tu ti sei fatta prendere, possedere.

Mentre un corpo umano non si possiede mai.


Un corpo, una mente, un cuore, un fiotto

di sangue e di sentimenti animati, volerli

possedere è un sacrilegio. Se tu saprai questo,

il tuo fare l’amore non sarà più una resa.

Tu non sarai colei che si fa fare, come i maschi

vogliono che tu credi, per toglierti l’anima

dal petto senza dolore. Tu darai, come lui,

parteciperai all’amore, con tutta la furia,

il candore, l’egoismo, l’odio e l’orgoglio

necessari, distruggendo il vecchio ammuffito

pudore e imparando a riconoscere il nuovo

pudore, quello reale, violento, razionale.

  Il pudore sociale che tu credi naturale



 vuole che tu sia ritrosa, ambigua, dolce.

Il pudore vero sta rinchiuso come un tuorlo

dentro l’uovo, ricco, fiammante, e vitale:

Questo pudore ti insegna il senso della tua integrità

di cuore, bada bene, non di una carne fatta

simbolo sociale. Sii tu a baciarlo, a spogliarlo,

a carezzarlo, senza per questo rifiutare le sue

carezze e i suoi baci, ma che sia chiaro chiarissimo

lampante che siete in due a fare l’amore, non uno solo

sopra l’altro, contro l’altro, a danno dell’altro.


Rifiuta il gioco del corri e scappa che può

divertire ma alla fine ti porterà alla trappola.

La civetteria è un’arma così povera e infelice

che poi quando sei incastrata contro un muro

non ti rimane che sorridere e acconsentire.

Ma non c’è niente da nascondere, lo vuoi capire.

Devi prenderti il tuo piacere da lui come

lui lo prende da te, senza infingimenti,

con pari entusiasmo e passione. Fagli la corte,

inseguilo, parlagli apertamente. Decidi tu

quando vuoi fare l’amore, non lasciarlo mai

pregare e supplicare, perchè poi quando deciderai

non sarà più una decisione ma un cedimento

e subito lui urlerà di essere il tuo padrone

e avrà ragione perchè sarai vinta e

non vincitrice, avrai accettato la regola

del cacciatore che corre appresso alla preda.


Ovidio è morto e le sue ossa ora

sono diventate leggere come vetri, i suoi

succhi vitali sono stati mangiati dalla terra che

ha nutrito con volvoli e ortiche e faggi.

Sono passati secoli e secoli di ardimenti,

di guerre, di rivoluzioni e di trasformazioni.

Ma le sue parole sprezzanti e dolciastre

sulle donne sono rimaste vive. Si possono

trovare milioni d’uomini che la pensano uguale,

con torva ilare sicurezza, convinti che le

regole a cui si rifanno sono naturali ed eterne.

sento già la voce irsuta dei mie amici

rivoluzionari che mi dicono: anche l’uomo

è sfruttato, anche lui è vittima dell’oppressione,

non perdete di vista la lotta di classe con queste fumisterie.


Lo so, lo sappiamo, non gridate tanto,

l’intolleranza che mostrate è segno di paura.

Di che avete paura? di scoprirvi oppressori anche

quando siete oppressi? di trovare in fondo al

cuore una cosa dolce e scura che preferite non

portare al sole perchè si potrebbe trasformare

in una fiammata di razzismo buoi e selvaggio?

La donna, amici e compagni, è stata tenuta

fuori dalla storia, con mani e piedi di latte.

Fuori dal potere, con occhi rosati di coniglio,

e labbra umili di porcellino d’india.

Fuori dal tempo con mammelle piene di crema acida

e capezzoli gonfi di bionda abbondanza.

Fuori dalla ricchezza, con ventri colmi di seme nero

e caviglie pesanti di stanchezza.

Fuori dalla gloria, con braccia laboriose

e fulgide, con denti molli di diamante.


Provate a essere donna, per un giorno solo,

provate la leggerezza, l’oltraggio, la denigrazione

che si sono fatte carne nella carne e

nessuno ci bada più per niente affatto.

Provate a cercare un posto, una lavoro

che non sia di asina da soma, che non sia l’esposizione

e la vendita di una pelle levigata che aggrinzisce

al primo autunno. Provate a servire, quando la

servitù vi è comandata come una necessità,

un’antica innata tendenza del corpo femminile.

Provate a lavorare per un padrone che sarà

proprietario del vostro sorriso oltre che

del vostro lavoro; padrone del vostro animo

e del vostro ruvido cervello che in qualsiasi

momento penserà di poter stritolare

fra due dita unte di grasso, come una mosca.

Provate a cucinare, cucire, lavare, stirare,

scopare, pulire, strigliare. E dopo mi direte

cosa rimane del vostro bel fiato d’uomo forzuto.


Provate sempre a dire sì, ad aspettare

l’imbeccata, a chinare la testa, a ringraziare

di cuore. E poi saprete cosa vuol dire diventare

cieche tartarughe nelle mani di avidi Apolli

dalle dita palmate e i denti di acciaio brunito.

Provate a stare sotto, nell’amore, come coniglie

squartate, le gambe aperte, il cuore chiuso,

aspettando che lui prenda il suo piacere

come un’ape indaffarata e poi voli via,

carico di miele e di superbia, convinto

di avere lasciato sul corpo femmina di lei

il marchio della sua virilità infuocata.

Provate, provate, provate, e poi saprete cosa

significa disprezzare se stesse senza saperlo,

amare la propria prigionia senza capirlo,

perdere l’orgoglio fino al punto di buttare

in pasto agli dei paralitici e gessosi

che hanno fatto del mondo un palcoscenico

per le loro gesta di nevrotici pupazzi.


Perciò compagni ombrosi, sappiatelo, non basta

diventare una classe sola, abolire la proprietà privata.

Finirà lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma

non quello triviale e grandioso, istintivo e antico

dell’uomo sulla donna. E sai perchè mio gallo

dal fiato arso e bruciante? Perchè la libertà

non si riceve come un regalo involtato dentro

la carta d’argento e buonanotte e basta e grazie mille.

La donna può liberarsi solo da sè, con la sua testa,

e le sue mani, imparando a conoscere la sua diversità,

i suoi sonni storici, le sue vere voglie, i suoi autoinganni.

Ma da sè, solo da sè, con pena e guerra


Tu donna bella che hai sapore di fiordaliso.

hai la pelle vanagloriosa di uccello esotico,

e le labbra di pietra lunare, e gli occhi di

roccia incolore, i capelli di perle filate, i denti

zuccherini, la lingua marmorizzata, le ciglia

aguzze e fini come piume, tu che rigiri i tuoi

fianchi ambrati sotto la stoffa ruvida e leggera,

hai imparato molto bene le leggi del mercato:

io vendo il mio corpo, tu vendi il tuo potere,

io vendo la mia dignità di farfalla alata,

tu vendi il tuo avere, il tuo sapere.

Pensi di essere normale perchè il mondo

cammina così e tu ci sei dentro fino al collo

e non hai scelta nè destino all’infuori

del tuo corpo bello e levigato e ottuso.


Per te le donne sono tutte nemiche e

le disprezzi con noia e calore. Ed è naturale

perchè essendo una merce in vendita, hai paura

della concorrenza. Non ti sei accorta

che l’anima ti si è incollata ai polmoni,

per il troppo vendere e patire, gli occhi sono

diventati due ghiaccioli. La pelle ti è

diventata tesa e cattiva. Vendere il tuo corpo

che cos’è? niente, tu pensi. E invece è tutto.

Perchè non esiste un’anima e un corpo

nemici fra loro e imparentati malamente,

ma una solo tenerezza e un solo orgoglio di re

che hai schiacciato te. Tanto, ti hanno insegnato,

il corpo della donna non vale una cicca spenta,

che lo vendi o lo regali fa lo stesso.


Ma quella che subisci è una commedia, la commedia

dell’inganno. Tu inganni te stessa pensando

di farti oggetto e ti metti in vendita con

un cartello al collo, soavemente, con fiocchi

e ghirlande e collane d’ambra, in una parodia

d’amore che ti fa iridescente e stregata.

Lui ti inganna pensando di usarti come userebbe

un’automobile, per prendere il fresco, godere

della velocità, farsi vedere in giro, vantarsi.

ti usa e poi ti disprezza per l’uso che fai di te.

E tu accetti questo disprezzo con candida serietà.

Tu stessa pensi di essere disprezzabile,

perchè credi nella purezza borghese ipocrita

languidamente, con sogni accesi di rabbia

che ti corrugano la fronte di iena addolorata.

Tu credi di essere debole, perduta, peccatrice,

ti condanni e cerchi di salvare solo qualche

pezzettino di perbenismo dietro la facciata

di un salottino Impero, di un bel vestito fresco,

di una borsetta bianca, di una lunga macchina sportiva.

Diventi più feroce di un leopardo nel difendere

gli interessi costituiti, la famiglia, l’onore,

l’amore romanzesco, la maternità, le trine

spiegazzate del tuo petto di ragazza bella.


Diventi la sfinge portinaia della casa

della tradizione, abbracci gli uomini con odio,

e freddo calore, ma dai la colpa solo a te,

al casa, a Dio. Non ti viene nemmeno in mente,

nella tua aderenza al tuo destino fisiologico,

che sei l’agnello dolce e piagato di un lupo

rapace che ti porta via la carne a pezzi,

con umile pertinacia, e incolla la bocca sul tuo collo

sottile e bianco come per baciarti,

ma quando è pieno e gonfio del tuo sangue,

si volta verso di te e ti guarda con commiserazione

e se gli va, ti sputa in faccia il suo disprezzo.

Se tu solo capissi le tue ragioni e il sopruso

orrendo, vizioso e perfido che ti fanno tutti i giorni,

dentro un letto improvvisato, nell’odore

mielato del seme e del sudore che scivolano dal corpo

del tuo compratore impudicamente, e ti lasciano

pesta e lorda ed estranea a te stessa, per un pò

di soldi agognati. Se tu capissi questo forse continueresti

a venderti, ma ti organizzeresti, metteresti su

un diritto, una coscienza politica, un nuovo ardore.


E tu che sei madre. Con la falce di luna alla caviglia,

e il corpo rasato di suora,

e gli occhi appannati e le guance assonnate.

Tu che ti fai mettere sugli altari dorati

e apri e chiudi la tua vita per quei figli

armoniosi che ti hanno dato da fasciare e baciare.

Tu che piangi di orgoglio per la tua castità

e il tuo onore di madre pidocchiosa e adamantina.

Tu credi di essere una donna e invece sei un vaso,

un sacco, una vagina vestita di nero, piena di rispetto

e di mistero. Tu sei il recipiente

Dell’uomo e in nome del tuo contenuto ti si chiede fedeltà,

rinuncia, sacrificio, amore eterno.


Tu credi di esistere, bardata di argenti,

la corona in  testa di regina madre,

i piedi chiusi dentro scarpe felpate,

il ventre fasciato dentro bende fatate.

E invece sei morta. La tua vita l’hai persa

nel momento che ti sei lasciata spaccare

la carne dalla testa molle e lucida del

primo figlio adorato che sa di paraffina.

La morte certo è dolce e pudica.

Se poi una morta fa anche le faccende di casa,

e lava e stira e cuce e risponde sì signore,

ecco trovata la soluzione degli enigmi familiari.

Una morta si può anche venerare e baciare e

colmare di tenerezze e ambigue carezze filiali.


Ma se tu per un momento ti guardi allo specchio

e ti chiedi: c’è qualcosa di vivo in me?

Se tu fai l’atto di aprire la bocca per gridare,

se tu fai un segno rosso di vita sulla tua

immagine marmorea di morte, sei subito assalita.

Ti si dirà che sei noiosa e vecchia e

stupida ed egoista e vanitosa e inumana.

E tu, per gentilezza d’animo e candida bontà,

per un equivoco senso del dovere e per amore,

piegherai la testa e ti acconcerai a rimanere

quella cosa morta, graziosa e tenera che è

una madre serva che gira per la casa come un fantasma

indaffarato, silenzioso, ardente.


Popolana serissima, gentile, tu guardi con i tuoi occhi

spenti il mondo che ti opprime

e lo ringrazi per la sua oppressione, perchè

sei convinta nella tua testa aerea, che sei nata

per servire, per riverire, per faticare

e se i figli ti mantengono la giudichi

una grazia a ti tiri indietro e te ne stai

silenziosa, chinando la testa arresa

al grande favore che ti fanno lasciandoti vivere,

sfruttandoti teneramente, senza parere.

E’ così bello amare una madre-vittima,

una madre-agnello. Al figlio duole il cuore

nel petto vedendola invecchiare precocemente,

sempre pronta a pulire, lavare, stirare e

amorevolmente fare da mangiare ai figli

e ai figli dei suoi figli, senza mai protestare.


E’ facile amare chi rinuncia alla sua vita

per noi, chi non ha sesso nè pensieri che non siano prevedibili,

terragni, virtuosi

eppure, neanche questo basta. Una donna vecchia

sa, da come viene guardata in tram o al mercato

quanto poco conta e quanto disgusto ispira agli altri.

La sua vecchiaia non fa pensare alla ricchezza,

alla saggezza, agli onori, all’esperienza.

La sua vecchiaia fa pensare solo alle rughe,

alla pancia ammuffita, all’alito cattivo,

agli occhi lagrimosi e per chi ha fantasia,

al suo bianco e rugoso sesso senza peli.

se ottiene rispetto e tenerezza è solo in

famiglia, dai figli e dai nipoti che la vedono

come una faccendiera disponibile e svagata.


Ma fuori, nella vita, è solo una vecchia,

una strega, una befana, un fagotto ridicolo

e fastidioso. Perchè non si decide a morire?

A meno che non abbia la fortuna di essere

la madre di un uomo famoso, di un gran politico.

Allora sarà riverita e servita, ma per lui

mai per sè, perchè ha avuto il grande privilegio

di essersi fatta mangiare le viscere da un genio

che è uscito da lei con grande dolore e sangue.

Una donna vecchia è una nullità, vale meno di

un soldo bucato. Una donna vecchia è solo un corpo

avvizzito che tarda a morire per egoismo e malignità.

Mentre l’uomo vecchio è carico della sua vita,

la donna vecchia è carica solo della sua morte.

Un uomo vecchio si ammette che abbia sete

di carni bambine e tocchi e sussulti e cerchi

di fare sue due gambe morbide e affusolate.


Una donna vecchia che abbia fame di carne

da baciare è considerata un’arpia,

una pervertita che va subito rinchiusa in un manicomio.

La sua esperienza, il suo passato, la sua sapienza,

i suoi pensieri contano quanto quelli di un cane.

La si butta in un angolo e buonanotte.

Ma se voi, donne vecchie, madri astute,

cominciate a pensare che anche voi avete un sesso,

e una testa che macina pensieri ardenti

e due occhi accesi e due mani capaci e

un cuore affamato, se voi penserete che

siete quello che siete per sopraffazione e

gloria dei peggiori istinti dell’uomo,

forse non avrete vergogna e a dichiarare che

un bel ragazzo vi piace e potrete anche

carezzarlo senza sentirvi bruciare la mano di terrore.

Potrete baciarlo chiudendogli

gli occhi con due dita. Poichè l’estrema gioventù

e la vecchiaia sono portate all’amicizia.

E ai ragazzi piace essere amati dalle madri,

di un amore carnale lucidissimo e tenebroso.


Se penserete che la vecchiaia non è una colpa

di cui vergognarsi, se penserete che quello

che fa viva una donna non è soltanto la freschezza

della pelle e di un paio di labbra tornite,

se penserete questo vi sbarazzerete dei vostri lugubri

vestiti da fantasmi che puzzano

di cipolla e di varecchina, allungherete le vostre mani

tremanti sui corpi degli adolescenti che hanno

bisogno di essere amati come in un sogno,

di tutto cuore e con terribile indulgenza.

Se saprete questo non sarete più vecchie,

e inutili ma forti e utili. Se imparerete

a non confondere la casa con il mondo,

a non contaminare del vostro nero di seppia

le cose luminose e dolorose che vi circondano,

se imparerete a pensare con la votra testa,

a ridere con la vostra gola, a giudicare

con il vostro cuore maturato dal tempo,

sarete amate di un amore meno stupido e

mordente, meno assillante e nero. Perderete

in morbosità ma guadagnerete in ricchezza

di anima e di cervello e autonomia di cuore.


Ma tutto questo non sarà finchè la donna

non scoprirà che è diventata diversa

dall’uomo per ragioni storiche e non naturali.

Una storia mimetica da colonizzate ci

ha fatto come siamo, deformi, candide,

accanite, incerte, passive. E’ da questa

storia che dobbiamo tirare fuori i nastri

che ora sono lacci che ci legano le mani

e domani saranno bandiere sbattute al sole.

Donne mie amate predilette e disgraziate,

donne feroci nell’odio di voi stesse e

pieno di zelo poliziesco per amore della proprietà,

dell’onore, della conservazione,

dell’artificio, della gerarchia, della gloria,

vi siete identificate con l’uomo per sfiducia

in voi stesse, avete seguito il modello maschile

del forte virile sicuro

e con questo avete tradito le vostre compagne

le donne di tutti i tempi perchè voi pensate che

la donna è fatta di fango e avete coperto

questo fango con uno strato di porcellana lucente.

Ma il fango lo sentite come una colpa, lo odiate,

e per non farlo mai apparire in superficie,

passate giornate intere a riparare le crepe

e i fori nella vostra bella porcellana bianca.

Ma ora basta, spacchiamo questa copertura dura,

che ci tiene manse e segrete e fatate.

Prendiamo il coraggio di frugare dentro quel fango

e scopriremo che è un fango prezioso

nella sua umiltà, che si è fatto robusto e bello

pronto per costruire case e giardini.

No c’è da vergognarsi del fango della storia,

del fango della servitù, perchè è il nostro onore,

del fango dell’oppressione perchè quello che

ci fa oggi innocenti e forti e coraggiose,

incontaminate dal potere, colombe da cortile.

Usiamo quel fango per costruire nuove donne

meno belle forse e levigate, ma più salate

del sale dell’orgoglio e dell’amore.

(Dacia Maraini – Donne mie 1974)





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