L'ORIGINE DEL LINGUAGGIO:INTERVISTA A TULLIO DE MAURO
Data: Mercoledì, 13 maggio 2009 ore 00:05:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Tullio De Mauro

L'origine del linguaggio

Come mai, Professor De Mauro, la questione dell'origine del linguaggio ha occupato costantemente nella storia del pensiero uno spazio significativo?

Il linguaggio, dal momento in cui ogni essere umano nasce, accompagna non solo ogni istante della nostra vita di relazione con gli altri, ma anche la dimensione della nostra interiorità. Da questo punto di vista il linguaggio sembra qualche cosa di ovvio, di banale, di congenito, come il respirare. Basta però volgere lo sguardo intorno, cosa avvenuta assai per tempo nella storia della nostra tradizione culturale e dell'umanità, per accorgersi che nel linguaggio c'è qualche cosa di profondamente diverso dal respirare, dal camminare, dal nutrirsi e che questa diversità è data dall'esistenza di un grandissimo numero di lingue profondamente differenti tra di loro. E' come dire che respiriamo tutti allo stesso modo, ma che poi il respiro si realizza con nasi diversi. Oggi sappiamo bene che le lingue sono profondamente diverse perché, anche se con qualche problema, con strumenti di indagine accurati le possiamo censire una per una e oggi, nel mondo, ne contiamo di viventi oltre seimila. Ma questa proliferazione di lingue diverse era evidente anche nel passato, si tratta di una diversità singolare, perché non ha nulla a che fare con l'ambiente naturale in cui ci troviamo. Il processo di diffusione delle lingue fuori dal luogo di origine geografico, infatti, è un fenomeno noto. Nel caso delle lingue, quindi, la riduzione a cause ambientali non c'è. Ed è questo che, da epoche remote, ha colpito l'attenzione e la riflessione di chi ha osservato questa pluralità di lingue.

Già gli scribi del vicino Oriente antico del terzo millennio avanti Cristo - che redigevano le lettere dei loro sovrani per altri sovrani, in egiziano, in ittita o in sumerico - avvertivano la problematicità del mettere in corrispondenza due testi redatti in due lingue diverse. E' da allora che noi sappiamo che la diversità delle lingue è un fatto profondo e il perché le lingue siano diverse, è stato sempre motivo di curiosità intellettuale.

Ed è altrettanto remoto il chiedersi quale possa essere stata la forma della lingua primigenia?

Questa è la prima versione, la più ingenua di questa curiosità intellettuale, che non ci abbandona. In un antico testo, nelle "Storie" di Erodoto, egli, che era un grande osservatore della diversità dei costumi tra i popoli e convinto anche della grande importanza che ha la diversità delle lingue nel costituirsi delle diversità tra i popoli e le nazioni e le culture, racconta appunto di esperimenti un po' ingenui, come quello di un faraone, che avrebbe preso due poveri bambinetti e li avrebbe nutriti, nei primi giorni e nelle prime settimane di vita, al di fuori di ogni contatto con esseri umani. L'obiettivo del faraone era vedere se questi bambini sarebbero riusciti a parlare e quale lingua avrebbero parlato. Sempre nel racconto di Erodoto, i bambini, a un certo punto, avrebbero cominciato a dire la parola "becos", che in frigio, una lingua dell'oriente antico, una delle tante lingue dell'attuale Turchia, vuole dire "pane", cioè "cibo", "alimento". Questo, quindi, avrebbe consentito al faraone di stabilire in modo incontrovertibile che il frigio era la lingua primigenia dell'umanità. Come si vede, dunque, cercare di capire sia perché le lingue sono diverse sia la loro origine è un problema antico, più antico della stessa cultura greca da cui noi, ormai, si può dire in tutto il mondo, traiamo tanta parte dell'ossatura, dello scheletro profondo delle nostre costruzioni intellettuali e filosofiche.

Come mai da un secolo il tema dell'origine del linguaggio, che nell'Ottocento con il costituirsi della linguistica scientifica era diventato ricerca empirica di un'ipotetica lingua madre, perde d'interesse per i linguisti?.

Certamente il tema delle origini del linguaggio, inteso come ricostruzione della forma della ipotetica, o delle ipotetiche, lingue primigenie del genere umano cade sotto i colpi dei linguisti professionali, dei glottologi, che spiegano che non si può risalire in modo attendibile così indietro nel tempo e constatano, quindi, la ineluttabilità della registrazione della profonda diversità tra i gruppi linguistici. Nello stesso tempo una parte delle filosofie dominanti svalutano il tema stesso delle origini, da Humboldt a Benedetto Croce si sente ripetere che è inutile occuparsi del problema delle origini del linguaggio, perché questo problema si risolve studiando come funziona nell'attualità. La cosa interessante è capire che ruolo ha il linguaggio nella vita dello spirito umano. Quindi all'ostracismo professionale dei linguisti si aggiunge anche una messa in mora filosofica.

Il linguaggio è stato considerato da sempre come un privilegio riservato all'uomo. Come cambia quest'idea nell'evoluzione degli studi sul linguaggio?

Dagli anni Trenta, studiosi diversi, un americano come John Lilly, un austriaco come Karl Von Frisch, diventato poi per questi studi Premio Nobel, hanno cominciato a scoprire che il mondo della comunicazione è più vasto di quello degli esseri umani, che forme di comunicazione, molto sofisticate, esistono tra i mammiferi acquatici. Dai primi lavori classici di Von Frisch, condotti sulle api, un po' alla volta è nata una disciplina nuova, la "zoosemiotica", cioè lo studio sistematico dei modi di semiosi, dei modi di comunicazione per simboli e per segni, propri di specie animali diverse dal genere umano. Questi studi si sono ormai allargati, si può dire, non solo a tutte le specie, ma gli sviluppi della biologia molecolare, della genetica ci hanno portato negli ultimi quindici anni fino alle estreme frontiere della vita. A questo punto, noi sappiamo che forme rudimentali di interazione comunicativa si trovano anche in piccoli organismi unicellulari, in quelli archeozoi e protozoi da cui è cominciata la storia della vita sulla terra. Sembrerebbe oggi sempre di più, che non solo, come diceva Wittgenstein, un linguaggio è una forma di vita, ma che il linguaggio sia la forma della vita: là dove c'è qualcosa che vive, c'è qualcosa che comunica. E questo va detto non "en philosophe" soltanto, ma anche da freddo naturalista, se così si può dire.

Questo è uno scossone che porta a chiedersi se e cosa le forme di linguaggio degli esseri umani abbiano qualcosa a che fare con le forme di linguaggio degli altri animali, quali siano le loro affinità e le loro diversità. Quello che noi chiamiamo, per eccellenza, linguaggio, non è che una variante delle forme di comunicazione, il che non significa che sia riducibile alle altre, evidentemente, ma questo ci pone un problema di comprensione di ciò che è continuo e discontinuo nell'emergere del linguaggio non solo come categoria ma anche nel tempo, nella storia delle specie.

Ma anche un altro colpo è stato dato alla esclusiva identificazione della comunicazione con il linguaggio. Qual è?

L'altro scossone è venuto dall'allargarsi del nostro orizzonte conoscitivo per quanto riguarda le forme di comunicazione che l'essere umano gestisce e che sono diverse dal linguaggio verbale, grammaticalizzato. L'importanza di questo aspetto era stato compreso bene da Wittgenstein che aveva capito che c'era un problema di specificità tra il linguaggio fatto di parole parlate e scritte e le altre forme di interazione comunicativa. In tanti casi il gesto, per esempio, sostituisce completamente la formulazione verbale e così accade anche per la postura del corpo, l'abbigliamento e tant'altra parte della simbologia di cui è intessuta la nostra vita di relazione e di comunicazione che non è fatta di parole. A sostituire il linguaggio verbale ci sono anche forme più alte di comunicazione come i linguaggi matematici e i linguaggi simbolici che noi abbiamo creato a partire dalle lingue. Ci si è chiesti allora che rapporto c'è tra il mondo linguistico umano che ormai ci appare non più un mondo solo fatto di parole e di lingue, ma di codici di comunicazione diversi, e il mondo della comunicazione delle altre specie animali. Se le nostre unghie, i nostri capelli, il nostro sangue, il nostro scheletro, il nostro DNA, il nostro patrimonio genetico, si riportino a momenti diversi della scala evolutiva, abbiamo a che fare, diciamo, nella loro genesi, in modo ipotetico, ma ben documentato, con tappe successive della scala evolutiva. Ci si è chiesti se solo il linguaggio fosse un "unicum", una Minerva che esce tutta armata, grande e grossa, dal cervello di Giove, o se non avesse anch'esso una sua preistoria evolutiva, ricostruibile, documentabile, che potesse aiutarci a comprendere la sua struttura. E allora la discussione è ripresa. Così la discussione sull'origine del linguaggio è ripresa negli anni Cinquanta-Sessanta, un po' in sordina, fino a diventare di nuovo un tema di grande interesse scientifico. A questo punto, però, con la differenza che non si trattava più di sapere se i primi esseri umani avessero detto parole come "becos", ma si trattava, invece, di capire e di ricostruire, se possibile, attraverso la comparazione con le forme di comunicazione delle altre specie viventi, quali siano state le tappe attraverso cui il linguaggio si sia formato.

Diventa allora possibile, a suo avviso, dare una spiegazione genetica teoricamente convincente della costituzione del linguaggio verbale in base alle componenti che ne regolano il funzionamento?

Credo di sì. Credo che la domanda che oggi ci poniamo, e cioè la domanda del come gli "homines" abbiano cominciato a parlare, si risolva nella domanda dell'accumulo di prerequisiti necessari al parlare. E questo, evidentemente, è connesso alla discussione teorica su ciò che è necessario e su ciò che è contingente, su ciò che è struttura dura e ciò che, invece, è struttura contingente, nell'uso di una lingua. Il dibattito, da questo punto di vista, è molto acceso. Alcuni studiosi, soprattutto Lieberman, insiste molto sui prerequisiti di tipo anatomico e neurologico. Secondo Lieberman bisogna avere una struttura pienamente eretta perché si abbassi la laringe e questo ci permetta di avere il controllo di suoni così diversificati come quelli che sono presenti effettivamente e non accidentalmente nelle lingue. Abbiamo bisogno anche di una sottile possibilità di differenziare i suoni per potere costruire decine e decine di migliaia di parole, sottilmente diverse tra di loro, ma fatte degli stessi elementi. Contemporaneamente vi è bisogno di un apparato neurologico, quello preposto al controllo della produzione e alla discriminazione acustica di questi suoni, di poco diversi tra loro. Quindi la forma della calotta cranica, ricostruibile paleontologicamente, è molto importante per capire quando queste condizioni si sono create. Lieberman ipotizza una datazione molto bassa dell'origine della capacità linguistica che lo porta a concludere che, forse, neanche gli uomini di Neanderthal, così simili a noi e già con una vita sociale molto sviluppata, parlavano una lingua analoga alla nostra, alle nostre: siamo a cinquantamila anni, l'"homo sapiens" avrebbe imparato solo a tre quarti della sua storia a parlare.

Altri studiosi, come Leroi-Gourhan, ragionano in termini diversi, sostenendo che nel vedere i reperti di un milione e mezzo di anni fa ci si accorge che questi ominidi sono capaci di andare a cercare materie prime in terre lontane per formare degli strumenti che servono loro per costruire altri strumenti con i quali costruire ancora altri strumenti per ottenere cibo e per difendersi. Quando ci si accorge che c'è una struttura sociale, fondata sul lavoro e quindi sull'uso razionale delle mani, ci si trova di fronte a dei quadri culturali che ci fanno pensare che questi esseri, già in qualche modo, dovessero disporre di quella forma di vita comunicativa così complessa, che è l'uso di una lingua storico-naturale. Essi retrodatano quindi fortemente l'origine del linguaggio, da cinquantamila a un milione e mezzo di anni fa.

E secondo Lei una delle due ipotesi è più valida?

E' molto difficile da dire. Alcuni di noi fanno un ragionamento semplice e dicono che le parole delle lingue hanno e non hanno altri codici, hanno cioè la possibilità di trasferire il significato delle parole, di allargarne i confini a seconda delle necessità, riferendosi alla indeterminatezza semantica che, accanto alla ricchezza del patrimonio lessicale e sintattico è la proprietà chiave delle lingue. Questa proprietà non poteva non essere sfruttata nel momento in cui il lavoro di trasformazione dell'ambiente passava, per esempio, attraverso le tecniche di cottura del cibo, che è il momento in cui si usa il fuoco razionalmente, in modo programmato. Siamo così a trecentomila anni fa, nell'Asia Orientale, in Cina, siamo all'"homo pechinensis", nel momento in cui si comincia a cuocere il cibo. In quel momento l'essere umano deve avere cominciato a fare quell'operazione che noi facciamo quando diciamo: "oggi ho mangiato maiale" intendendo dire: "ho mangiato della carne di maiale cotta". Ma "maiale" vuole anche dire carne cruda di maiale", o anche il povero simpatico suino che grufola per nutrirsi e per vivere. La stessa parola, per effetto del fuoco, per dir così, ha dovuto imparare a dilatare i suoi significati, cioè gli essere umani hanno dovuto imparare a possedere un sistema simbolico, ricco di indeterminatezza semantica e di possibili determinazioni, in vie, su vie diverse. E quindi altri ancora pensano che trecentomila anni sia una buona datazione intermedia ma, al di là di questo, il grande interesse è l'esplorazione in termini genetico-evolutivi delle precondizioni che reggono e regolano la vita del linguaggio verbale, così come noi lo conosciamo, in rapporto alle altre forme di comunicazione dell'intero mondo vivente.







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