Quel che resta dell’onda lambisce anche il portone dell’Unversità Cattolica di Milano. Cartelloni di qua e di là: chi difende la Legge 40 e chi protesta per la scansione degli appelli di Economia. Segni di fermento, per niente circoscritti.
«La parola giusta», spiega Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, a pochi giorni dalla "Giornata universitaria" che si celebra il 26 aprile, «è "movimento": si muove – in tutta Europa – un sistema che sente di non essere più perfettamente in grado di assolvere alle sue funzioni specifiche. L’università da struttura medievale, evolutasi a formare le classi dirigenti, da qualche decennio è diventata di massa: continua a fare ricerca e formazione, ma i numeri sono molto cambiati. Su questo passaggio in Italia si è innestata di recente la rapida applicazione della riforma del "tre più due" (ora "tre e due"), con alcuni risultati positivi e inevitabili difficoltà, nel tentativo di armonizzare sistemi universitari europei che uniformi non sono».
- Che cosa significa in questo contesto, essere oggi università cattolica?
«Nell’ambito del processo di riforma significa non restare periferici, in quanto non statali in un sistema a maggioranza statale. E, in quanto cattolici, conservare la storia, non per difenderla, ma per farne un impiego saggio e guardare al futuro. A differenza di molte università cattoliche europee, la nostra non è nata per impulso di una diocesi, ma ha raccolto l’aspirazione dei cattolici italiani ad avere una loro università. Corrispondere a questa aspirazione è ancora oggi il nostro compito».
- Il concordato prevede per i docenti il nullaosta ecclesiastico.
È un limite?
«No, c’è qualcosa di simile in tutte le università cattoliche europee, è tipico delle università cosiddette "di tendenza". Ma questo non ha impedito, a cominciare da padre Gemelli, di nominare, per la loro competenza, anche docenti laicissimi».
- A proposito di Agostino Gemelli, ricordarlo con un convegno storico significa prendere le distanze dalle controversie nate attorno alla sua figura?
«Esattamente, significa ricollocarlo, non solo come fondatore dell’Università, nel contesto della Chiesa di allora e degli accidenti storici che, operando, ha attraversato: a 50 anni dalla morte si comincia a prendere la giusta distanza».
- Come spiegare a un aspirante studente la specificità della Cattolica?
«Con un’espressione cara a padre Gemelli: "l’andare al cuore della realtà", non per modellarla a nostra misura, ma per conoscerla e semmai modificarla. E "attenzione alla persona": per questo preferisco parlare di educazione anziché di formazione».
- Tutti gli atenei fanno a gara ad accaparrarsi studenti, per ragioni economiche. Concorda con chi dice che sarebbe concorrenza vera solo togliendo valore legale al titolo di studio?
«Non credo che quel valore in sé, presente o assente, sia la soluzione dei malanni dell’università. Il non averlo porterebbe a una competizione anglosassone dove le università di prestigio accolgono solo l’8 per cento di chi fa domanda. Ma credo che la concorrenza non vada limitata al numero degli iscritti, ma debba contemplare la qualità della ricerca. E su quel fronte l’università italiana non mi pare male in arnese come dicono».
- C’è pericolo di confondere la quantità con la qualità?
«La moltiplicazione dei corsi di laurea non è stata positiva, si rischia di scardinare le facoltà disorientando gli studenti e complicando la comunicazione interna, ma qualcosa si sta correggendo».
- L’università pubblica patisce i tagli e la crisi. E voi?
«Anche. I finanziamenti straordinari alle università non statali risentono della stessa crisi. È vero che abbiamo quote di iscrizione più alte delle statali ma facciamo del nostro meglio per offrire servizi, per non pesare troppo sulle famiglie e facilitare l’accesso a chi ha redditi bassi anche attraverso numerose borse di studio».
- È vero che i test di ingresso rivelano matricole sempre meno preparate?
«Premetto che noi abbiamo il cosiddetto numero chiuso solo nei pochi casi previsti dal ministero: la nostra linea è aprire. Di certo, le nozioni geografiche, storiche e filosofiche dei diplomati di oggi possono sembrare inferiori a quelle dei loro coetanei dei miei tempi, ma il compito di un ateneo, diventato più aperto, non è solo certificare una preparazione ma anche completarla. Si tratta di trovare la strada per il miglior raccordo possibile tra la scuola secondaria e l’università, intesa come corso di studi cui gli studenti aspirano. Poi, anche per sopperire a quel che viene meno in termini di approfondimento, abbiamo creato le "alte scuole" post-laurea».