Stop a raccomandati e rettori a vita:
Data: Domenica, 05 aprile 2009 ore 00:00:00 CEST
Argomento: Redazione


ROMA (30 marzo) - Mai più concorsi locali, banditi dai singoli atenei, per posti destinati ai raccomandati di turno. Il sistema in vigore, che ha prodotto tanti guasti, sarà archiviato. E’ in arrivo il disegno di legge che riforma la governance degli atenei e il sistema di reclutamento dei ricercatori e dei docenti. Sarà  anche rivista la normativa dell’autonomia universitaria perché «non risponda più a logiche corporative e autoreferenziali». Il ministro Mariastella Gelmini presenterà a Palazzo Chigi il testo prima di Pasqua. L’obiettivo è quello di superare i conflitti di interesse con una «netta attribuzione delle responsabilità» per garantire «trasparenza ed efficienza» degli atenei anche con un «sistema di incentivi e disincentivi».

Tre i punti centrali. «Ai rettori non più di due mandati», ciascuno della durata di quattro anni, per evitare il fenomeno aberrante dei rettori “a vita” che, in barba alla democrazia, si fanno rieleggere modificando gli statuti. C’è chi è arrivato a collezionare fino a nove mandati consecutivi, è accaduto a Brescia, ma anche Cagliari non scherza, con sei mandati. Per rimettere in sesto la governance si prevede la «netta attribuzione dei compiti e delle responsabilità tra Consiglio di amministrazione e Senato accademico» per evitare sovrapposizioni tra i due organismi. Inoltre regole nuove per le assunzioni dei docenti con «l’introduzione di forti elementi di competizione meritocratica».

Viene cancellata la legge Berlinguer: gli atenei non potranno più fare i bandi locali. Il provvedimento è adottato per evitare che gli aspiranti al ruolo di ricercatore o di docente vengano esaminati da commissioni addomesticate. Negli ultimi dieci anni, infatti, con accordi sotto banco il “maestro” riusciva a mandare in cattedra il suo allievo. Ma torniamo alla selezione. Chi supererà le prove otterrà «l’abilitazione scientifica» che sarà riferita ad una determinata fascia della docenza e che avrà la «durata di cinque anni». «L’abilitazione si conseguirà sulla base di un esame dei titoli scientifici del candidato, ma conseguire l’abilitazione non significherà automaticamente essere assunti», spiega Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale, uno dei membri del tavolo per la riforma. «La lista degli abilitati - continua Lenzi - sarà a numero aperto, come avviene in Francia. Ogni anno i candidati potranno concorrere e sottoporsi alle prove, poi gli atenei, a loro discrezione, faranno le chiamate».

Come saranno composte le commissioni? Le procedure di selezione saranno affidate a un comitato di settore, uno per ogni ambito scientifico-disciplinare, composto da professori ordinari estratti a sorte da liste di eletti in numero triplo. Il sorteggio tra eletti, però, potrebbe essere il tallone d’Achille dell’intero sistema. Già, perché chi dice che in ogni settore non vengano eletti i soliti noti?
Si spezza, comunque, la logica del bando localistico su singolo posto. Secondo la Gelmini, infatti, «qualunque formula che leghi le abilitazioni al fabbisogno degli atenei porta inevitabilmente a privilegiare i “desiderata” delle sedi banditrici». «Il disegno di legge del ministro raccoglie ampio consenso», sostiene il senatore Pdl Giusppe Valditara, autore di un altro ddl sull’università, simile a quello che presenterà il governo. Che aggiunge: «E’ superato il concorso con il membro interno, che in questi anni, oltre ad avere cancellato ogni forma di mobilità indispensabile alla vitalità degli atenei (il 98% di candidati-vincitori ha partecipato a concorsi fatti in casa), ha anche compromesso la possibilità di dare giudizi rigorosi e imparziali».
Ma dai sindacati arrivano critiche. Gaetano Dammacco, della Cisl università, sostiene che «non si può fare la riforma senza consultare i sindacati: dopo una prima convocazione il tavolo tecnico non si è più riunito». Inoltre secondo Dammacco «non ci sarebbe bisogno di ricominciare da capo: c’è la legge Moratti, mai attuata, ma neppure abrogata, che ripristinava le liste nazionali».

Cattedre barattate, concorsi truccati, carriere lampo. I baroni finora hanno blindato le nomine negli atenei. Sono stati fatti patti scellerati, altro che logiche meritocratiche. Sono andati in cattedra parenti e amici degli amici, amanti, rampolli e fidanzate, ma anche tanti portaborse. Gli accordi erano funzionali al mantenimento delle lobby accademiche, il meccanismo dei concorsi-farsa era semplice: il “maestro” controllava la commissione facendosi nominare presidente e faceva in modo che i componenti fossero degli amici. Non contavano i titoli scientifici quanto il cognome, l’asservimento e l’appartenenza. Così finora ha vinto la cooptazione: sono stati fatti perfino bandi con un solo partecipante, ritagliati sulle sue caratteristiche. Se c’erano altri concorrenti con metodi intimidatori erano invitati a liberare il campo. Ai commissari veniva recapitato il “medaglione” o “santino” con il profilo del predestinato a vincere. Ogni tentativo di moralizzare il sistema finora è fallito. Le Procure di mezza Italia hanno aperto inchieste: Bari, Firenze, Siena, Bologna, Messina, Palermo, Roma, Napoli al riguardo hanno brutte storie da raccontare. «La corruzione nei concorsi è un fenomeno strutturale», afferma Nunzio Miraglia dell’Associazione nazionale docenti universitari. Mentre Giovanni Grasso, direttore del Dipartimento di Scienze biomediche dell’ateneo di Siena, punta il dito contro i «comitati di affari» che hanno fatto degenerare il sistema. Vedremo se stavolta le nuove regole riusciranno a cancellare il nepotismo e a dare speranze ai giovani meritevoli. Intanto, qualche cosa negli atenei si muove, nascono comitati per la «rinascita morale».
Anche i passaggi di carriera avvenivano con oscure manovre, la riforma farà chiarezza anche su questo punto. Verrà operata una distinzione fra reclutamento e promozione, entrambi subordinati al titolo di abilitazione. Prima gli atenei erano costretti a bandire concorsi «teoricamente aperti» anche quando il concorso serviva a promuovere un docente interno, situazione da cui scaturivano abusi. In futuro ci sarà un «sistema a due fasi». Se per esempio un professore associato aspira a diventare ordinario dovrà prima prendere l’abilitazione da ordinario sottoponendosi al «giudizio» della comunità scientifica che esaminerà le sue qualità di studioso per poi essere valutato dal proprio ateneo in riferimento alla ricerca e all’attività didattica. Essere abilitati a un ruolo superiore non significherà avere la promozione assicurata. Anche perché, dopo tante carriere generosamente elargite, in tempi di bilanci in rosso si chiede agli atenei di far rientrare le promozioni in un budget finanziario compatibile.
Si vedrà se tutto questo sarà efficace. Il dissesto dell’università richiede una robusta cura, altri tentativi di riforma si sono risolti in una serie di non riforme. Ma stavolta c’è la leva finanziaria che dovrebbe convincere gli atenei a pratiche più virtuose, anche perché il governo per ridurre i tagli del 2010 pretende rigore di spesa e volontà di cambiamento.

da www.ilmessaggero.it




 







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