Il problema dei ciechi sono i vedenti
Data: Venerd́, 20 febbraio 2009 ore 18:51:47 CET
Argomento: Eventi


TRENTO - Mentre parla, Mauro Marcantoni mi guarda negli occhi. Gli costa uno sforzo: «Ho dovuto esercitarmi». Spontaneamente non lo farebbe. Non è timido (niente affatto): è cieco. Puntarmi addosso i suoi occhi chiari, a lui non serve. «Serve a lei», sorride. «Se io non la guardo, lei non si rispecchia in me, e ha l'impressione di non esistere. Devo aiutarla ad elaborare il lutto della sua immagine». Bisogna dare una mano a questi vedenti. Quando incontrano un cieco, entrano in crisi. Quelli che incrociamo sui marciapiedi del centro di Trento, ad esempio, non appena s'accorgono del bastone bianco s'imbarazzano, si guardano attorno, s'appiattiscono contro il muro (errore: il muro è la bussola del cieco), si nota il loro sollievo quando siamo passati, e possono uscire dal cono di invisibilità in cui per qualche istante si sono sentiti sprofondare. I ciechi non sono più gli esseri grotteschi messi in versi da Dino Campana, «simili a manichini, muovono un poco al riso / strani come sonnambuli, terribili nel viso». Ma il loro handicap, dicono i sondaggi, tra tutti è ancora quello che inquieta di più. La cecità fa paura a chi non ce l'ha. E ne fa tanta di più quando non sa «stare al suo posto». Il posto dei ciechi qual è? Non siamo una società crudele: non è tendere la mano all’angolo della strada. è un lavoro da centralinista, o da massaggiatore, ma basta lì. I ciechi che puntano più in alto, i ciechi che non fanno i ciechi, sanno cosa significa sentirsi trattati da presuntuosi, pretenziosi, perfino arroganti. «Un cieco che mette gli sci è uno che "non accetta il proprio limite"», reagisce Mauro, «ma perché dovrebbe? Noi non siamo esseri umani con un senso in meno del normale, siamo persone che costruiscono la propria normalità su quattro sensi. Tutto ciò che ci sta, è giusto che ci stia». E non v’immaginate quanto ci stia, in quattro sensi. Tra le ottanta storie di "ciechi di successo" che Marcantoni è andato a cercare ai quattro angoli d’Italia, ci sono quelle di Patrizia Viaro, ballerina che danza con la benda sugli occhi perché sia ben chiaro agli spettatori; di Francesco Cozzula, navigatore di rally che "vede" le curve con il corpo; di Ubaldo Cecilioni, tiratore con l’arco che punta la freccia tastando un mirino elettronico coi piedi. C’è la storia di Antonella Cappabianca che commenta alla radio i programmi tivù, e quella di Luigi Bertanza navigatore a vela con satellitare parlante. Ma anche le storie meno estreme, le carriere da insegnante, tecnico informatico, avvocato, imprenditore, per Mauro sono «straordinarie, perché in un cieco è la normalità che fa l’eccezione». Anche Mauro Marcantoni è un "cieco di successo": perdere la vista, quindici anni fa, non gli ha impedito di diventare direttore di una importante scuola di formazione manageriale, ricercatore, giornalista, editore. Questa parola, successo, in verità non lo convince del tutto, «richiama idee di denaro e potere più che di appagamento e realizzazione di sé. Per me il massimo del successo è una coppia di ciechi che fa tre figli». Ma alla fine ha accettato di usarla nel sottotitolo ("Vivere con successo la cecità") di questo suo libro, I ciechi non sognano il buio, perché è un libro che vuole scuotere anzitutto i vedenti, un libro pedagogico e anche un po' spudorato. L’Unione italiana ciechi di Trento, che ora è entusiasta del risultato, dubitò prima di sostenere la ricerca. Ci sono tanti ciechi in difficoltà, perché occuparci dei più fortunati? Marcantoni li ha convinti così: «Il nostro rischio non è puntare troppo in alto, ma troppo in basso. Di sola tutela sociale si muore. Servono esempi perché altri possano osare, magari rischiare un fallimento, ma riprovare». Se c’è un "soffitto di vetro" che impedisce ai ciechi di arrivare dove possono arrivare, va rotto con una gomitata. «I ciechi vivono il loro limite come naturale, mentre è sociale. La maggior parte di noi resta chiuso in casa, alcuni accettano i mestieri "compatibili" fissati per legge anche se potrebbero aspirare a qualcosa di meglio. Poi ci sono i ribelli». A Mauro piacciono i ribelli. «Quelli che hanno rifiutato il vittimismo, e hanno scoperto che se rompi con le comodità della tutela sociale ti si apre un mondo di opportunità». Bravi anche gli scandalosi che esagerano, magari un po' narcisi. Quelli che fanno lo slalom seguendo il ticchettio dei bastoncini dello sciatore che li precede, quelli che dipingono, fotografano, quelli che vanno al cinema o allo stadio, insomma quelli che mettono a disagio i vedenti, anche i più politicamente corretti, perché «cercano la rivincita» sul loro handicap. «Tutti cerchiamo rivincite sui nostri limiti», li difende Mauro, «l’eccesso è il rischio di ogni uomo, e noi ciechi siamo una semplice variante della specie umana». Ribellarsi però è difficile. Hai tutti contro. Giulio Nardone voleva iscriversi all’università, l’oculista gli disse: «Lascia perdere, tra due anni sarai cieco». Non lasciò perdere: oggi è avvocato. Giorgio Rigato, analista informatico: «Non devi aspettarti che il mondo si regoli su di te, devi spostare il limite tra quello che puoi fare e quello che non puoi fare». Puoi rischiare di scoprire che quel limite è più ampio di quel che sembrava. Mirco Mencacci da bambino pasticciava col registratore perché pensava che la sua creatività fosse limitata al mondo dei rumori: oggi monta i suoni sulle immagini dei film di Giordana e Ozpetek. Non accettare lo svantaggio allora non è presunzione: è liberazione dal peso che ti tira giù. Bisogna rinunciare però a quell’orgoglio da figli di un dio minore, che diventa «senso di razza, rivendicativo e vittimista». Se un po' di rabbia, un po' di spirito di rivalsa aiutano a non lasciarsi andare, ben vengano. Giulio Franzoni è diventato imprenditore agricolo «per dimostrare qualcosa a chi diceva che non ce l’avrei fatta», e non se ne vergogna. Qualche aggressività va messa nel conto. Se Annalisa Minetti, ex miss, cantante, ora insegnante di ginnastica, scatenò un polverone a Sanremo sentendosi discriminata, fu dopo avere fatto finta per anni di vederci «per non impietosire». Claudio Costa invece si arrabbia proprio con l’handicap visuale: «è bastardo», dice. Maratoneta medagliatissimo alle Paralimpiadi, mal sopporta di avere bisogno di un accompagnatore per fare sport, «a livello di indipendenza è meglio un handicap fisico». Curioso lapsus: la cecità cosa sarebbe, un handicap morale? Culturale? Forse non è un lapsus, quello di Costa. Forse ha colto un punto. «I ciechi devono aver voglia di vedere», spiega Mauro. Lieve ma salda, la sua mano sul mio braccio mi guida più che farsi guidare. Traversiamo vie e piazze seguendo precisi itinerari cartesiani. «Cercava una pasticceria? Avanti, all’incrocio. Qui a destra invece c’è una bella galleria d’arte». Non è desiderio di stupire. Mauro sa che basta il rumore di un cantiere, e la città che ha disegnata in testa nei minimi dettagli si perde in uno scuro frastuono. Confessa: «Per quanto sia fiero della mia autonomia, non riesco a scacciare il terrore di sbattere ad ogni passo il naso contro un palo». Vuole solo farmi capire che tra dipendenza assoluta e superomismo c’è uno spazio enorme, che i vedenti non riescono a immaginare. Possono provarci? Tempo fa il Mart di Rovereto ospitò un esperimento, Dialogo nel buio: i visitatori vedenti erano invitati a svolgere attività quotidiane in un ambiente oscurato, per «capire come vive un cieco». Mauro scuote la testa: «Così non si capisce niente. Anzi si capisce il contrario. Essere ciechi per un’ora ti dà la sensazione che il cieco sia un incapace totale. Essere ciechi da sempre, o da anni, ti dà il tempo di organizzare la vita. La cecità resta una privazione brutale, ma non è per forza una condanna all’angoscia». La cecità toglie, certo. Ma in certe condizioni può perfino dare. Una lunga abitudine a vivere senza scrittura può sviluppare abilità compensative molto utili. Elio Borgonovi, docente alla Bocconi, ragiona sulle sue: «Non posso preparare appunti, quindi devo farmi una scaletta mentale. Ho sviluppato una forte capacità di sintesi». Qualche volta, come in un celebre racconto di H. G. Wells, il cieco se la cava meglio del vedente. Raggiungere obiettivi ambiziosi senza la vista non è come giocare a mosca cieca. Nessuna fortuna bendata. Il successo dipende da una razionale riorganizzazione dei quattro sensi attivi, da un efficiente "governo dell’incertezza". Francesco Levantini, apprezzato formatore all’Ibm, c’è riuscito così bene che ormai considera la cecità «non un problema, ma una seccatura». Del resto l’informatica sta accorciando le distanze tra ciechi e vedenti: scanner vocali che mandano in pensione il Braille, tastiere parlanti per cellulari, perfino le recentissime "penne magiche" che scandiscono ad alta voce il nome su un campanello o la targa di un portone sono protesi spaziali per i ciechi dell’epoca dei cani guida. Ma la vera vista del cieco restano gli altri umani. «Una capace rete di relazioni», secondo Salvatore Virga, fisiatra, vale un buon paio d’occhi. Siamo daccapo: il problema dei ciechi sono i vedenti. «Per ogni cieco di successo ce n’è uno nascosto», medita Mauro. Se c’è una costante in questi ottanta racconti, è la sensazione di aver dovuto pedalare in salita da soli, e non tutti ce la fanno. La civiltà dell’immagine è rigida con chi non condivide il primato della vista. Mauro la chiama "la legge della pizza": «Ne chiedi una senza mozzarella e ti rispondono "non si può". Perché non si può, me lo volete spiegare? Il pizzaiolo è pigro? Il cassiere non sa quanto farla pagare? Macché: questo è un mondo omologato, ogni scarto dalla norma è fastidioso». Eppure la pizza senza mozzarella esiste: Mauro e molti degli ottanta ciechi ribelli e appagati andranno a spiegarlo il 23 ottobre all’università Luiss di Roma. E non finirà qui. Marcantoni ha in mente un’altra inchiesta: che uso fa la società vedente del potere delle immagini. Dob biamo stare attenti: i ciechi ci guardano. Michele Smargiassi, 28/09/2008 da “La repubblica”






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