HUSSERL: L'IDEA DI EUROPA
Data: Lunedì, 09 febbraio 2009 ore 00:05:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


Husserl: l'idea di Europa

di Giuseppe Goisis*

Il contesto delle importanti riflessioni proposte sull’Europa da Edmund Husserl (1859-1938) è costituito dall’ampia letteratura circa la 'crisi di civiltà', letteratura fiorente tra le due Guerre mondiali.

Ortega, Huizinga e, negli anni Venti del Novecento, Spengler avevano, con diversi accenti, presentato il vasto quadro del 'declino dell’Occidente', soffermandosi in particolare sulla perdita di rilievo dell’Europa, attanagliata da una crisi giudicata difficilmente superabile. Le proposte di soluzione della crisi diagnosticata sono diverse in ciascuno di questi Autori, oscillando tra le speranze di rinascita prospettate da alcuni e il nichilismo più profondo in cui versano altri.

La crisi delle scienze europee e il contributo della fenomenologia

Husserl sembra avere una certa conoscenza di questa letteratura sul crepuscolo dell’Europa e dell’Occidente, in modo peculiare, come ci testimoniano alcune sue lettere, del fortunato testo del pedagogista R. Pannwitz (1881-1969): La crisi della civiltà europea (1917).

Pannwitz, in questo saggio, delineava le forme più notevoli dello spirito europeo, dal Rinascimento fino alla contemporaneità, sottolineando come la caduta di Napoleone avesse inficiato l’ultimo tentativo di unificare saldamente l’Europa, sotto il segno unitario della cultura francese. I tentativi successivi, pure numerosi, si sarebbero rivolti, semplicemente, al vantaggio di gruppi privilegiati, senza tener conto del bene dell’umanità europea in generale. La crisi viene quindi interpretata come il venir meno degli scopi, non potendo essere lo scopo principale se non l’uomo, la sua valorizzazione e la sua maturazione. Attraverso il ricorso a molti Autori, fra cui Nietzsche, Pannwitz rileva come non rimanga che una sola via di uscita alla crisi europea: guardare verso Oriente, recuperando una più ricca comprensione dell’umano, come quella rappresentata dalle dottrine di Buddha, Laotse e Confucio, e mediando tali dottrine attraverso la più profonda cultura germanica, coeva a Pannitz stesso.

Husserl espone le sue riflessioni sullo smarrimento dell’Europa soprattutto nella sua ultima, grande opera, peraltro rimasta incompiuta: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. A questo scritto, Husserl, il padre della fenomenologia, lavorò tra il 1935 e il 1937, prendendo le mosse da una serie di conferenze, tenute a Vienna e Praga attorno al 1935. Le prime due parti dell’opera furono pubblicate nel 1937 a Belgrado, la terza vide la luce, postuma, nel 1954, come sesto volume delle opere complete, suscitando un grande scalpore e una discussione internazionale, alla quale parteciparono filosofi come P. Ricoeur, E. Lévinas e, in Italia, E. Paci e G. Semerari.

La prima parte de La crisi delle scienze europee, che mantiene il tono vivace delle conferenze preparatorie con qualche sottolineatura enfatica, esordisce con la diagnosi appassionata circa l’indebolimento della coeva umanità europea, rispetto ai grandi ideali che la animavano, soprattutto durante il Rinascimento e l’epoca galileiana; la crisi delle scienze moderne costituirebbe un aspetto, per quanto decisivo, della crisi universale dell’umanità europea, la quale avrebbe assegnato al sapere scientifico lo scopo di guidare all’azione. Le scienze dunque, nello spirito galileiano, come luce per risolvere i problemi storici, intellettuali e spirituali dell’umanità europea, protesa a rinvenire nella scienza il proprio appagamento e la propria intima pacificazione.

Ecco che, per Husserl, l’umanità europea sarebbe posta in crisi dall’insidia inquinante dell’irrazionalismo, un irrazionalismo che conduce alla perdita dei significati, a un relativismo e nichilismo privi di mordente (Husserl insiste, in pagine profonde e felici, sulla 'stanchezza' dell’umanità europea, sull’affievolimento del suo coraggio intellettuale, contrapponendo al depotenziamento contemporaneo l’‘eroismo della ragione’, caratteristico di quel manipolo di Greci generosi che avrebbero conferito il primo slancio alla tensione conoscitiva, peculiare dell’Europa).

Quali le ragioni profonde di una crisi, che sembra deviare verso un punto, drammatico, di non ritorno? Prima di tutto, sono da mettere in conto gli abusi dell’astrazione, caratteristici di una posizione illuministica, più o meno grossolana; Husserl, andando in profondità, diagnostica la radice della perdita dei significati nell’‘obiettivismo fisicalistico’, caratteristico di tanta parte della cultura europea, formatosi a contatto con le investigazioni scientifiche.

In una parola, la crisi delle scienze non riguarda la sicurezza del loro procedere, la fecondità tecnica scaturente dalle loro indagini; paradossalmente, l’estrema prosperità degli esiti pare coincidere con l’oscurità, sempre più densa, circa i fondamenti e i significati; assumere il modello 'fisicalista', comporterebbe, in particolare per le ‘scienze dello spirito’, un decisivo fraintendimento, sfociante in una conclusiva astrattezza e parzialità: 'le scienze di fatto creano uomini di fatto', contribuendo cioè a una reificazione generale dell’umanità europea, ridotta da fine a mezzo, da idea a oggetto.

L'umanità europea

Husserl propone un’idea complessa e ricca dell’Europa e dell’umanità europea, criticando, in particolare, l’inadeguata impostazione della psicologia, mal compresa a partire dalla prevalente mentalità matematistica; la psicologia verrebbe deformata dalla visione matematistica, la filosofia della storia verrebbe, a sua volta, imprigionata in schemi positivistici, perdendo il riferimento agli scopi fondamentali di ogni azione umana, entro la dimensione della storicità (in tale stile riduzionistico, ogni rinvio verso un’ulteriore, più profonda dimensione assumerebbe la caratteristica di una 'metafisica' da rigettare).

L’umanità europea, per rigenerarsi, dovrebbe recuperare pienamente l’ideale ‘classico’ del sapere, un sapere in grado di appagare e costituire la meta ultima nel cammino dell’umanità; la critica husserliana si muove dunque fra due abissi: quello di un pensiero positivistico, riducente l’uomo a oggetto in un mondo di oggetti, e quello di un irrazionalismo che si nutrirebbe delle insufficienze e degli abusi della ragione, conducendo tuttavia a un’autentica notte oscura dell’umanità (notte testimoniata, fra l’altro, dalla pleiade di Autori della ‘Rivoluzione conservatrice’ germanica fra le due Guerre, sfociante infine nella temperie nazionalsocialista).

Dalla crisi della ragione non si esce, secondo Husserl, attraverso la rinuncia alla ragione, ma proprio, invece, attraverso il suo potenziamento, la sua dialettizzazione, proponendo quindi una nozione più comprensiva e globale della ragione medesima. È questo il cuore della seconda parte della Krisis husserliana, protesa a mostrare come la concezione obiettivistica si sia insinuata entro le scienze europee moderne, facendo smarrire il nesso con l’attività ‘costitutiva’, inerente alla soggettività umana.

Secondo Husserl, bisogna riandare a Galilei, a Newton e ai loro seguaci; per essi, tutta la realtà naturale è ‘letta’ in termini quantitativi, ridotta a relazioni matematiche, secondo un prevalente criterio interpretativo che Husserl chiama: ‘euclideo’. Attraverso un’interpretazione dotta e raffinata, Husserl evidenzia come il paradigma galileiano faccia perdere, via via, ogni aspetto qualitativo al mondo naturale, e come, soprattutto, il criterio della ‘verità’ venga gradualmente sostituito con quelli della ‘efficienza’ e ‘fecondità pratica’, lasciando così l’umanità europea priva del suo telos costitutivo.

L’umanità europea e il ‘mondo della vita’

Se la crisi delle scienze europee consiste nell’indebolimento dei significati umanistici della scienza stessa, la rinascita dell’umanità europea dovrà passare, necessariamente, per un superamento di ogni concezione naturalistica, per l’allargamento dell’idea di razionalità e, infine, per l’esaltazione della soggettività.

Al risveglio della soggettività, Husserl dedica pagine dense di analisi acute, mostrando come la soggettività umana venga resa sempre più debole dal ‘mondo parallelo’ che l’attitudine matematista viene disegnando, rendendo la psicologia, in particolare, meno cognitiva e mirante a realizzare un semplice adeguamento dell’uomo al suo ambiente circostante: è da tale ‘sonno dogmatico’ che Husserl tenta di ridestare l’umanità europea, cercando di ripristinare la viva intenzionalità della coscienza, quella coscienza che la dominante prospettiva meccanicista aveva mortificato.

L’intenzionalità che Husserl delinea costituisce l’asse capace di ricollocare, in un nuovo equilibrio, polo soggettivo (‘noetico’) e polo oggettivo (‘noematico’): si tratta di riferirsi al mondo e di rappresentarlo, senza ridursi a esso, o venirne schiacciati, smarrendo ogni valore di verità nella ‘fatticità’ e nel primato dell’efficacia.

Nel grandioso orizzonte interpretativo tracciato da Husserl, l’intera filosofia moderna europea sembra ingaggiare una magnanima lotta contro il positivismo e il naturalismo scientista, allo scopo di salvaguardare il peculiare rilievo della soggettività umana; nelle analisi husserliane, le stesse scienze si lasciano ricondurre all’attività costituente della coscienza, a un ‘mondo della vita’ (Lebenswelt) già dato, fin dall’inizio, alla coscienza, ma che essa, con un’opera destinata a riprendere ‘sempre daccapo’, ha il compito di rielaborare, quasi di ricreare, in una straordinaria tensione quotidiana.

L’impostazione di Husserl è, dal punto di vista interpretativo, all’origine di molti tentativi compiuti, successivamente, dall’ermeneutica contemporanea; per la sua impostazione, dietro a ogni proposizione scientifica, che obiettiva una sfaccettatura del mondo naturale, è possibile identificare uno strato anteriore e più profondo, e così via, in un processo di regressione che ci conduce a mettere in luce le strutture di una temporalità e spazialità anteriori a ogni predicazione e tematizzazione, anteriori anche rispetto alla dimensione categoriale.

Tali strati ultimi possono solo venir intuiti, non costruiti e configurati in precisi paradigmi, e la regressione a tali strati ultimi ha una funzione decisiva per quella ‘presa di coscienza radicale’ alla quale Husserl invita l’umanità europea: si tratta di procedere a ritroso, di ricomprendere il processo che le scienze hanno seguito, per la loro costituzione, in Europa, non tanto fermandosi ai loro esiti cristallizzati e dogmatici, ma piuttosto cogliendone a fondo le movenze originarie, per riprendere il ‘compito di verità’ che le scienze stesse, nell’ultima fase della loro parabola, sembrano aver dimenticato.

Le pagine conclusive della Krisis sono dedicate al destino della psicologia in Europa; liberata da ogni residuo obiettivistico e naturalistico, la psicologia potrebbe, secondo Husserl, ritornare ai suoi fondamenti filosofici, riaccostandosi alla fenomenologia trascendentale, avendo un atteggiamento diverso e funzioni diverse, ma possedendo come tema la soggettività universale, la quale, pur nella varietà delle sue manifestazioni, rimane invincibilmente unitaria.

Il contributo husserliano all’idea di Europa e alla sua rinascita

Ricapitolando, un primo motivo d’interesse, nell’interpretazione husserliana della storia europea, è costituito dalla sottolineatura del rilievo della cultura e della tradizione; l’odierna discussione sulle radici culturali dell’Europa ha reso acutamente attuali le riflessioni di Husserl, per le quali la cultura dell’Europa cambia continuamente, ma senza nulla abbandonare, di essenziale, nel suo cammino. La differenza sostanziale tra Husserl e gli altri teorici della crisi, fra cui l’evocato Pannwitz, consiste nel fatto che Husserl non rivolge il suo sguardo all’Oriente, attendendo da lì la salvezza, ma si concentra piuttosto sui tratti originari della tradizione europea, evidenziandone la forza creativa.

Se non si vuol soggiacere a una concezione meramente economicista dell’Europa, concepita come un grande spazio mercantile, se si comprende che non di solo Euro vive l’Europa, occorre allora interrogarsi sull’identità profonda dell’Europa, sul rapporto fra tale identità e le differenze, di vario tipo, che si squadernano nel nostro continente; c’è bisogno, allora, di volgersi alla filosofia, alla comprensione radicale che essa schiude, e di tale comprensione Husserl è davvero un battistrada, concependo la tradizione non come semplice riproduzione o copia, ma come la continua rielaborazione di un pensiero originale.

Del resto, lo stesso J. Monnet, giunto al termine della sua vita e interrogato su come avrebbe voluto ricominciare, se avesse potuto, così rispose: “Per l’Europa, se potessi, ricomincerei dalla cultura”.

Una cultura europea, per Husserl, improntata a uno stile di creatività: “Un popolo ha cultura nella misura in cui mette in atto una spiritualità originariamente creativa e, creando, la incorpora in un’espressione carnale e, mosso da questo eros creativo, procede a sempre nuove creazioni spirituali”.

Un ultimo motivo di attualità mi sembra costituito dalla critica husserliana alla febbre nazionalista; fra le varie forme di naturalismo e di oggettivazione, Husserl colloca il nazionalismo. Si tratta di una malattia, e non di poco conto, che aggredisce continuamente l’umanità europea, conducendola a rompere l’equilibrio fra l’universale e il particolare; si smarrisce lo sfondo filosofico, la vera ‘lingua europea’, i filosofi finiscono di essere i ‘funzionari dell’umanità’, e tutto si viene appiattendo in una generale deresponsabilizzazione.

Occorre dunque riprendere contatto con la vita, con le sue esigenze concrete, e operare una nuova sintesi tra la vita e la cultura fondata sulla libera ragione, non sulle sue forzature e sugli abusi deliranti di certo razionalismo. Al vecchio razionalismo intollerante occorre contrapporre un’autocomprensione ‘realmente razionale’, senza forzature né esasperazioni retoriche, caratteristiche invece di quel culto della Heimat che sta dietro al nazionalismo e a quei rancori esagerati che alimentano le guerre: “L’umanità europea si getta in braccio all’egoismo, all’idea di potere e abbellisce il proprio idolo con fraseologie idealistiche che, secondo la loro fonte di senso, provengono dalla fucina di idee eterne che, nella loro pura forma, stanno in totale opposizione a tutte le forme di egoismo”.

Infine, il gran valore della prospettiva husserliana mi sembra condensarsi negli stimoli tesi a risvegliare l’Europa, infondendole una nuova virtù di coraggio, il senso di essere una comunità di popoli in cammino, una comunità di popoli viventi ‘in una concordia sinfonica’, e non in una ‘discordia senza concordia’.

Se si depurano queste righe da una certa enfasi generosa, non si può non convenire con le profonde intuizioni di Husserl: “Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, da buoni europei, con quella fortezza d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno. Allora dall’incendio che distruggerà lo scetticismo, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione umanitaria dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale”.

*Professore straordinario, insegna Storia della Filosofia politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Oltre a due monografie su Péguy e Bergson, ha pubblicato: Sorel e i soreliani (Venezia 1983); Mounier e il labirinto personalista (Venezia 1988); Il pensiero politico di G. Bernanos (Torino 1989); Mounier tra impegno e profezia (Padova 1990). Ha dedicato alla riflessione sulla pace due volumi: Il giardino di Isaia, con L. Biagi (Pordenone 1992) e Eiréne. Lo spirito europeo e le sorgenti della pace (Verona 2000). Da alcuni anni approfondisce il pensiero politico di A. Rosmini, sul quale ha in preparazione uno studio di sintesi. Di recente ha pubblicato Camminando lungo il crinale. Riflessioni su rischio, fuga e paura (Venezia 2006) e Laicità possibili, con O. Marson e G. Maglio (Portogruaro 2007).







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