IL RAPPORTO TRA LA FILOSOFIA E LA TRAGEDIA:INTERVISTA A DENNIS SCHMIDT
Data: Venerd́, 06 febbraio 2009 ore 00:05:00 CET
Argomento: Rassegna stampa


La filosofia e il pathos della tragedia

Intervista a Dennis Schmidt

di Cristina Guarni

Dennis Schmidt, Professore di Filosofia alla Pennsylvania State University, è stato invitato a fine novembre come Visiting Professor dai professori Donatella Di Cesare e Francesco Saverio Trincia a tenere un ciclo di lezioni presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”.

Prof. Schmidt, vorrebbe presentare il Suo cammino filosofico a coloro che verranno ad ascoltare le Sue conferenze?

Ci sono molte vie che possono spingere qualcuno verso la filosofia: durante i miei anni di insegnamento mi sono accorto che le più diffuse passano attraverso le scienze, la religione o la politica. Per quanto mi riguarda, il mio percorso personale ha attraversato diversi stadi. La prima tappa, che serve a definire i miei interessi di fondo, è stata la situazione politica in cui mi sono trovato quando ho cominciato i miei studi universitari. Eravamo in piena guerra del Vietnam, una guerra a cui mi sono profondamente opposto, gli studenti venivano arruolati e il movimento dei diritti civili era ancora ostacolato a causa del razzismo di allora. Io ero entrato all’università per studiare fisica, ma a una manifestazione di protesta a cui ho partecipato mentre ero al secondo anno mi sono ritrovato in una conversazione con un professore di filosofia politica che mi parlava del rapporto di Socrate con le ingiuste leggi di Atene e del suo esser disposto a soffrire secondo quelle leggi piuttosto che abbandonare la città. Ero sempre stato interessato alla filosofia politica, ma questo fu per me l’impulso per cominciare a seguire dei corsi di filosofia. Il primo fu un corso su Platone in cui si leggeva il Critone. Allora, parlando con altri studenti che condividevano i miei interessi e le mie preoccupazioni, mi sono arrivate le voci che si facevano su Heidegger. Si diceva che la sua opera fosse tesa al superamento delle forme culturali che avevano portato ad appiattire la vita nei nostri tempi. In Heidegger si potevano trovare le aperture per una relazione più giusta con il proprio mondo. A colpirmi furono soprattutto la sua critica della razionalità tecnologica e i suoi imperativi, che mi apparvero uno sviluppo stimolante. Era il 1972, un periodo in cui leggevamo Heidegger come un pensatore capace di offrire un’alternativa agli assunti filosofici - e in ultima analisi metafisici - che animavano la cultura in quella congiuntura storica. Lessi Essere e tempo nello stesso semestre in cui lessi anche l’Essere e il nulla di Sartre. Entrambi i libri mi impressionarono catturandomi fortemente. Aprirono domande e vie di comprensione che non avevo mai immaginato, e che però mi sembravano familiari.

Ma non sono stati solo i libri letti a stimolarmi in quegli anni. Alcuni insegnanti, specialmente uno, sarebbero diventati dei modelli per me: modelli di sapere, di curiosità intellettuale e di apertura. La fortuna di trovare maestri particolarmente dotati è cominciata presto nella mia carriera, continuando in seguito, e quei maestri sono rimasti fondamentali per quello che sono diventato. Sono molto in debito verso di loro e posso solo sperare di ripagarli trasmettendo ai miei studenti qualcosa di quello che loro mi hanno dato. Non è un caso che la filosofia sia cominciata con l’ammirazione di uno studente per il suo maestro e con il suo instancabile tentativo di comprendere quel maestro. Socrate è stato il grande enigma della vita di Platone e il suo sforzo di comprendere il mistero di Socrate si sarebbe intrecciato al tessuto della filosofia stessa. Per come la vedo io, la filosofia ha un intimo rapporto con l’insegnamento – non nel senso di qualcuno che impartisce conoscenza a qualcun altro, ma nel senso della conversazione, del dialogo e dell’impegno nello sforzo di comprendere gli altri e ciò che essi dicono. Lo scopo non è insegnare a qualcuno cosa dire o pensare, ma imparare il modo per pensare da sé. Io ho continuato ad avere una grande fortuna nell’incontrare maestri particolari anche quando non sedevo più in aula come studente. Sono fortunato ad avere amici – a Roma, a Friburgo, negli Stati Uniti, e naturalmente a State College – che ora considero alla stessa stregua miei maestri.

Perciò devo dire che il mio cammino verso la filosofia e verso il punto in cui mi trovo ora è stato pieno di contingenze, casi fortuiti, fortuna. Eppure, se mi guardo indietro, sembra che mi sia stato completamente destinato, come se questo fosse ciò per cui sono nato. Le domande che oggi mi pongo, anche quando non sembrano avere una diretta connessione con i miei esordi, si alimentano ancora a quelle fonti che mi paiono sempre vicine.

Nel Suo libro On Germans and Other Greeks. Tragedy and Ethical Life (Indiana University Press, Bloomington 2001) Lei si confronta con alcuni esponenti della filosofia post-kantiana caratterizzati dal comune tentativo di riflettere filosoficamente sulla tragedia greca. Lei sostiene che sollevare la questione del tragico significa non tanto la ripresa nostalgica di un tempo passato quanto «un imperativo della storia a questa congiuntura storica» (p. 4). In che senso la storia è da comprendere come dispiegamento di un destino tragico? Perché la tragedia greca dovrebbe costituire il modello privilegiato per interpretare l’epoca presente?

Queste domande vanno al cuore del mio progetto in quel libro. Sono questioni che per me rimangono aperte. La svolta iniziale verso la Grecia nel pensiero tedesco, a cominciare da Winckelmann, era motivata proprio da una semplice nostalgia, ma la questione ben presto divenne molto complicata. La storia di questa parola – “nostalgia” – è importante per rispondere a questa domanda. La parola è apparsa la prima volta nella metà del XVIII secolo e deriva da un termine medico coniato nel 1678 da un dottore svizzero per descrivere la condizione medica del desiderio di casa diffuso tra i soldati che vivevano all’estero; è formata da due parole greche nostos (ritorno) e algos (sofferenza), il dolore che le persone in esilio possono sentir emergere dalla loro personale alienazione. Così la parola “nostalgia” fa la sua comparsa nello stesso momento in cui comincia ad affiorare una fascinazione per la Grecia. Non credo sia un caso. C’è un senso di esilio, di estraneità o alienazione che anima ogni “nostalgia”. Si sente il bisogno di recuperare qualcosa che è stato perduto. La fine del XVIII secolo è un’epoca di rivoluzioni, di rivolgimenti filosofici, è l’epoca in cui emerge l’industria e in cui prende vigore una visione meccanica della natura e della vita. È proprio lo sforzo di pensare appieno tale situazione a rivelare l’insufficienza della ragione concettuale. Ne risulta un forte desiderio di recuperare o di ritornare a ciò che è stato perduto a causa della visione meccanicistica della vita e dell’egemonia della ragione concettuale. È in questo momento, sulla spinta di questo desiderio, che il riconoscimento della forza della sofferenza, di quel che eccede ciò che possiamo controllare e definire, ricompare come un problema filosofico. E in forza di questo problema la tragedia greca, che è stata a lungo compresa come letteratura della sofferenza, riceve un nuovo riconoscimento. Stavolta però la questione della tragedia è tradotta in un’idea, l’idea del “tragico”.

Se mi soffermo sulla nozione di “nostalgia” è perché ammetto che in questo recupero del significato della tragedia greca sia all’opera una certa “nostalgia”. Ma anche per dire che se qui è all’opera una sorta di nostalgia, allora si tratta di una strana nostalgia per una situazione di vita, non per un altro tempo o un altro luogo che un giorno sono stati. La Grecia che affascina in questo modo non è un luogo reale, ma un’idea, una finzione, un sogno, un prodotto favoloso dell’immaginazione dei tempi. È significativo che nessuno dei filosofi che io considero come parte di questo movimento greco-tedesco abbia mai visitato la Grecia (Hedeigger lo avrebbe fatto solo abbastanza tardi nella vita e quando la visitò il suo principale commento fu il rimpianto che la “Grecia” era assente). Allora quel che mi colpisce di più è come questa nozione di Grecia e persino della tragedia greca assorba tutte le tensioni che spingono al di là dei bisogni del presente.

Ma, si potrebbe ancora chiedere: perché la Grecia? Soprattutto perché la tragedia greca? Qui diventa significativa la nozione di “destino”. La Grecia marca una sorta di inizio per l’Occidente. Sicuramente le radici e la storia di quell’inizio si protendono fino all’Egitto e persino all’Oriente (certamente all’India). Ma resta incontestabile che una rivoluzione ebbe luogo nella Grecia antica e che la sua eredità ci forgia in larga misura ancora oggi. Il punto di snodo di quella rivoluzione fu la formulazione di un approccio al mondo chiamato “filosofia”. Ovviamente il pensiero, la religione, le arti, la scienza esistevano prima di questo e ovviamente la “filosofia” non ha un punto di vista privilegiato su come il mondo debba essere compreso. Nondimeno, questo sguardo all’idea e questo discorso unito al concetto è una nuova forma del pensiero e trova la sua prima espressione in Grecia. Quando questa nuova forma del pensiero prende corpo deve legittimarsi contro i più convalidati discorsi del tempo, e la tragedia rappresenta proprio il culmine di ciò che è già stato convalidato. Così il teatro delle idee sfida il teatro della tragedia – lo si vede soprattutto in Platone – e sempre da allora ciò che sembra essere stato perduto, o esiliato, dall’orbita di quel che la filosofia può “vedere” è precisamente quel che si trova o si vede nella tragedia greca. Direi che questa “espulsione” della tragedia getta i semi del suo necessario – o “destinale” – ritorno.

Dovrebbe allora la tragedia servire come modello privilegiato per comprendere la logica della storia e la situazione storica del nostro presente? Confesso che non sono ancora sicuro di come rispondere. Forse sarei propenso a dire che l’idea del “tragico” – un’idea, non una forma d’arte – servirebbe nel modo migliore questo proposito di esporre la logica della storia. Questa idea di irreconciliabili, di ciò che è necessario e tuttavia impossibile, mi sembra avere un merito reale come via per pensare il movimento della storia, specialmente nella nostra epoca. Ma resta anche il fatto che la capacità dell’arte di dischiudere la verità della storia e di illuminare l’epoca presente non dovrebbe essere misconosciuta.

Lei mostra che sin dalle origini la filosofia – in particolare con Aristotele e Platone – ha evidenziato la valenza etica e politica dell’esperienza poetica. Che tipo di prassi può essere dischiusa dall’arte tragica?

In questo mi tengo vicino a Platone e ad Aristotele sostenendo che la tragedia ha un privilegio particolare nelle questioni della vita etica e politica. Aristotele lo spiega nel modo migliore nella Poetica, quando propone che la trama (mythos) è la chiave d’accesso al movimento della tragedia. Più precisamente, è il legame inevitabile che unisce la praxis e la hamartia ad esporre la vulnerabilità e il rischio di ogni prassi. Questo legame mostra anche che siamo aperti ed esposti agli altri, al caso, a ciò che non controlliamo.

La tragedia, anzi l’esperienza poetica in generale, ci costringe a ripensare proprio ciò che noi intendiamo quando parliamo o ci interroghiamo sull’“etico” e sul “politico”. Si assiste all’esibizione di un’esperienza e di una “conoscenza” nate da qualcosa che viene sentito. Questo “sentimento” è stato descritto in molti modi che vanno dal dire che è “patito” (Aristotele) al dire che è il “sentimento di vita” (Kant). È però sempre l’esibizione di qualcosa che mostra due tratti distintivi: non può essere dischiuso – almeno originariamente – nel linguaggio del concetto, ed emerge dal nostro modo di essere nel mondo, cioè in quanto vulnerabili e aperti a ciò che non definiamo e non controlliamo. Cominciando allora dall’esperienza poetica siamo costretti a ripensare e ridefinire il regno e le questioni di vita etica in modo diverso da come siamo stati abituati a fare in quanto filosofi.

La tragedia greca, presentando mimeticamente una forma di «conoscenza patita», cioè una conoscenza performata e non riducibile allo sguardo sinottico della ragione socratica, mette in questione lo stile della filosofia. Come può il linguaggio filosofico, governato dalla logica del concetto, dire questa conoscenza senza tradirla?

Questa è una questione decisiva. Mentre i limiti del linguaggio filosofico, che è il linguaggio del concetto, potrebbero impedire di dire pienamente una conoscenza che viene guadagnata attraverso la sofferenza, è anche interessante notare come è possibile che la filosofia sia capace di diventare consapevole dei propri limiti rispetto a questo e di nominarli. Per lo più la tendenza dei filosofi è di scartare quel che non può essere afferrato dal concetto, chiamandolo irragionevole o irrazionale. Ma, mentre c’è una tendenza nella filosofia ad essere d’accordo con l’osservazione di Hegel per cui «ciò che è inesprimibile non è vero», vi è una crescente consapevolezza delle differenti forme d’espressione. È Kant, nella Terza Critica, con la sua discussione della hypotyposis simbolica, la presentazione simbolica, a dischiudere questa consapevolezza. Dopo Kant la questione della peculiarità del linguaggio filosofico assume un ruolo centrale. Lo si vede nel romanticismo tedesco, in Goethe, Hölderlin, Schlegel, Nietzsche, fino a Heidegger che comincia la sua carriera sforzandosi di definire ciò che egli chiama «formale Anzeige», volgendosi infine ad un intenso confronto con il linguaggio poetico.

La teologia, che ha a lungo tentato di parlare di ciò che è al di là delle parole, e la letteratura, che non si è mai sottomessa al metro della concettualità, si sono scontrate entrambe con tale questione molto prima che i filosofi la riconoscessero. Io credo che lo sforzo compiuto da alcuni filosofi per rispondere a questo problema marchi un genuino avanzamento nelle prospettive della filosofia. Ciò significa che, alla fin fine, la filosofia avrà bisogno di diventare differente se vorrà corrispondere meglio al compito di pensare l’intero ambito di ciò che possiamo imparare dall’esperienza – patita o meno. Per molti versi questa è la questione più importante da far emergere nelle riflessioni sulla tragedia greca. Non è un caso che il libro che ho scritto dopo On Germans and Other Greeks, cioè Lyrical and Ethical Subjects, fosse indirizzato proprio a questo problema.

I filosofi di cui Lei si occupa (da Schelling a Hölderlin, da Nietzsche a Heidegger) sono accomunati dallo sforzo di trovare una nuova voce per la filosofia, richiamandosi alle possibilità stereoscopiche della metafora e del linguaggio poetico. Quale rapporto dovrebbe instaurarsi a Suo parere tra filosofia e letteratura?

Questa domanda è molto vicina alle questioni espresse dalla domanda precedente circa i limiti della concettualità. È la scoperta delle possibilità arricchite del linguaggio poetico a stimolare la ricerca di una nuova voce per la filosofia. È una questione chiave che ha frustrato i filosofi sin dall’inizio. Ma non è un problema completamente nuovo: gli sforzi di Platone per trovare una nuova voce lo avrebbero condotto a scrivere dialoghi e ad esprimere i suoi dubbi, nella Settima Lettera, circa la capacità di dire ciò che è più importante. Oggi questo sforzo assume nuove dimensioni. Lei menziona le «possibilità stereoscopiche della metafora e del linguaggio poetico» e questo va al cuore di quel che è in gioco in questa domanda. La filosofia ha a lungo avuto un’allergia per la contraddizione. Le ragioni sono molte e per nulla insignificanti. Ma è questo constringersi a dire una sola cosa alla volta, questa resistenza alla possibilità che ciò che deve essere detto possa essere conflittuale o doppio, che pone un problema. Il linguaggio poetico, specialmente la metafora (che Aristotele descriveva come la cifra del genio, ovvero la capacità di vedere “somiglianze”), deve essere compreso come uno sforzo di parlare senza sottomettersi al principio di non-contraddizione. È lo sforzo di parlare di quanto potrebbe essere conflittuale. Dire semplicemente che le cose stanno così – come fa, per esempio, Heidegger quando parla di “cooriginarietà” – non è sufficiente. Questo sforzo deve essere non solo detto, ma anche performato. Questo è quel che Nietzsche intendeva quando diceva, con tristezza: «avrebbe dovuto essere cantata, questa nuova voce, non detta!».

Cosa significa allora tutto questo rispetto alla relazione tra filosofia e letteratura? Io sospetto che abbia molte conseguenze, ma una in particolare andrebbe evidenziata: la filosofia dovrebbe cominciare a comprendersi come una forma di letteratura – non la sua critica, non il suo arbitro, non il giudice del suo valore.

Lei sottolinea più volte che il recupero dell’esperienza della tragedia greca avviene in congiunzione con la consumazione delle possibilità offerte dalla tradizione ontoteologica. Il percorso tracciato dal Suo libro si chiude con il tentativo di Heidegger di oltrepassare la metafisica. Quanto è riuscita secondo Lei la filosofia dopo Heidegger a trovare un linguaggio capace di tradurre quest’esperienza tragica che sembra per definizione intraducibile?

Tendo a credere che Heidegger abbia colto nel modo più profondo quanto è in gioco in questa “traduzione”. Tuttavia, non direi che la compia, né sosterrei che abbia l’ultima parola su questo punto. È curioso che anche Heidegger eviti le questioni poste dalla nozione del tragico, anche se lui stesso fu preso nella cecità che giace al cuore di questa nozione e di ciò che essa tenta di dire. Stranamente la nozione del tragico, pur ossessionando molte delle opere di Heidegger, appare raramente come parola nei suoi testi. E neppure si trova un’ampia discussione di una tragedia come dramma.

Ma Heidegger ha ampliato l’ambito di questioni coperte dall’idea del tragico e ha anche mostrato che cosa sia a rischio nei nostri tempi in tale concezione del tragico. Le sue analisi degli imperativi tecnologici, cui egli si riferisce con la parola Gestell, che incornicia il mondo di oggi, hanno chiarito che ci troviamo di fronte a nuove forme di potere e a nuovi modi in cui il potere si consolida, tanto che occorre dire che i rischi della cecità umana, persino del semplice caso, sono mostruosi. La tragedia greca ha sempre insegnato che gli esseri umani sono capaci di portare distruzione a se stessi – involontariamente, inconsapevolmente - ma oggi le possibilità di distruzione eccedono qualsiasi cosa sia stato possibile pensare finora.

Lei chiede se per caso la filosofia dopo Heidegger abbia avuto successo nel rivolgersi a questi problemi e nell’imparare a parlare di tali questioni in modo differente. Qui devo ammettere una profonda incertezza: oscillo tra un reale ottimismo e un genuino pessimismo circa il presente e il futuro della filosofia. La situazione che oggi dobbiamo affrontare ci sfida in modo radicale, ma non sono sicuro che le condizioni del presente contribuiscano a metterci all’altezza della nostra ora. Non sono sicuro che noi cogliamo il tempo e manteniamo alta l’attenzione su ciò che deve essere detto e che è richiesto in questo tempo. Eppure tali momenti di sfida, se trattati con cura, ci conducono a nuove promesse e aprono nuove strade per pensare e comprendere il mondo. Credo che dopo Heidegger si sia cominciato a fare questo? Sì, in molti piccoli modi. I grandi passi in avanti tuttavia – quelli che sospetto lasceranno tracce reali in un futuro differente – si possono trovare in Derrida e in Gadamer. Entrambi hanno radicalizzato le domande che Heidegger ha aperto per noi.

Vorrei porLe una domanda che Lei stesso solleva, e che però rimane senza risposta. Se la tradizione metafisica occidentale sembra aver esaurito tutte le sue possibilità, perché rivolgersi ancora alla Grecia, culla della nostra civiltà? Perché non indirizzarsi piuttosto all’Asia o all’Africa, o comunque a forme di pensiero che siano veramente altre rispetto alle nostre?

Lo sforzo di capire in che modo andare avanti verso una differente comprensione del nostro mondo e del nostro posto nel mondo non deve necessariamente seguire un solo cammino. Credo che valga la pena intraprendere un dialogo con altre culture e tradizioni e che questo possa avere conseguenze produttive altrimenti impossibili. Tuttavia si presentano delle difficoltà molto significative per chi voglia farlo. Prima di tutto, la questione delle lingue. Per confrontarsi seriamente con altre culture bisogna innanzitutto parlare la loro lingua. Poi certamente sarebbe necessario muoversi entro quella cultura e nelle sue tradizioni, dal momento che una comprensione solo esteriore non significa addentrarsi veramente nelle forme di pensiero che vi si trovano. A meno che uno non abbia una profonda relazione con una cultura straniera si corre il grande rischio di rappresentare solamente – o peggio, di fabbricare – il proprio essere come fosse quello dell’altro. Ma occorre acquisire una vera comprensione dello scopo cui mirano questi tentativi di confrontarsi con altre culture. Per chi possiede tali abilità, questo è un modo per cominciare a cercare nuove forme di comprensione. Tuttavia, anche quando riesce, questo processo di traduzione e di importazione che investe ogni movimento rivolto ad altre culture presenta dei limiti. Più di ogni altra cosa occorre trattare i problemi specifici a una cultura e a una tradizione al di là di ciò che ciascuno originariamente pensa. Ma il dialogo di tradizioni e culture offre così tanti benefici che deve essere portato avanti. Non con l’idea che una di esse sia “giusta” o persino “migliore”, secondo una moda spicciola, ma con la convinzione che una sorta di ibridazione delle esperienze e delle prospettive possa essere salutare (sebbene io ritenga che tale ibridazione sia molto diversa dalla omogeneizzazione del processo di globalizzazione). Credo che lo sforzo di comprendere quel che sembra estraneo o “altro” rispetto a se stessi sia di importanza decisiva nel mondo di oggi.

C’è però una buona ragione per scrutare la propria cultura e le radici del proprio presente e per cui questa ripresa della Grecia antica sembra avere qualche privilegio. Rivolgersi alla Grecia antica ha diverse funzioni, ma bisognerebbe dire dal principio che nessuna di queste funzioni, propriamente intesa, è “redentiva”, cioè nessuna di esse dovrebbe essere compresa come il tentativo di restaurare o riabilitare una tradizione che ora sembra essersi esaurita. Una funzione è proprio quella di mostrare quanto le radici del nostro presente non siano semplicemente ciò che noi chiamiamo “Occidente”. Hölderlin si riferiva alla “vitalità orientale” dell’antica Grecia. Egli, come Nietzsche, Heidegger e altri ancora, ha mostrato che il mondo greco – specialmente la tragedia greca – è più oscuro, più ricco, più strano e meno “occidentale” di quanto fossimo propensi a credere. Prendere consapevolezza di ciò significa comprendere che la propria cultura conserva qualcosa di strano e persino di estraneo che non abbiamo ancora compreso e che anzi costituisce la storia effettiva delle nostre radici. Un’altra funzione della svolta verso la Grecia è di carattere autocritico. Non si può «saltare oltre la propria ombra»; noi traiamo il nostro pensiero dalle storie, dai linguaggi e dai presupposti che abbiamo ereditato. Volgersi criticamente alle radici di quelle eredità, non per rispolverarle ma per comprenderle meglio, significa – credo – aprire una relazione più progressista con la propria cultura e il proprio tempo.

Il Suo libro si apre con queste parole “Permettetemi di parlare personalmente…”. Mi permetta allora, in conclusione di questa intervista, di farLe una domanda personale. Lei ha avuto la possibilità di conoscere Hans-Georg Gadamer. Quanto ha inciso questo legame nel Suo percorso biografico e intellettuale?

Ho il sospetto che trascorrerò molta della mia vita cercando di rispondere a questa domanda. Le sono grato per avermela fatta, ma dovrei dire che già da molti anni la pongo a me stesso forse quotidianamente. Dovrei anche dire che il libro che sto terminando quest’anno, Socrates with a cane, riguarda precisamente questa domanda. Gadamer è stato a lungo uno dei grandi enigmi della mia vita. Ma ho il sospetto che questo enigma nella forma di un maestro che è ben più di un mero maestro sia costitutiva della natura stessa della filosofia. Platone ha speso la maggior parte della propria vita tentando di comprendere il segreto del suo maestro Socrate, che è stato la vera e propria incarnazione del modo in cui egli comprendeva la filosofia. E Platone fu solo il primo di una lunga serie di persone che avrebbero avuto la fortuna di fare una simile esperienza. Gadamer la ebbe con Heidegger di cui disse: «Nessuno nella mia vita, nemmeno mio padre, ha significato così tanto per me come Heidegger».

Perciò io sento questa domanda come profondamente personale, una domanda che tocca molto da vicino ciò che sono diventato e che vorrei diventare. Ma, nello stesso tempo, la ritengo una domanda che non è solo mia e che va ben al di là delle mie questioni private. Anzi, credo che l’unico modo in cui potrei fare reali passi in avanti nel comprendere ciò che dovrei dire come risposta sia collegare la mia esperienza, molto personale, al modo in cui Platone trasformò creativamente l’enigma di Socrate in qualcosa che eccedeva di gran lunga quanto vi fosse di personale in ciascuno di loro. Non dico questo per gonfiare l’importanza della mia situazione. Al contrario, c’è qualcosa di profondamente umile nell’avere la fortuna di essere così intensamente toccati dal modo in cui un’altra persona pensa e vede il mondo. Platone, più di ogni altro che io abbia mai letto, ha ripreso questo modo di essere toccati da un altro come un problema filosofico – anzi come un problema filosofico originario.

Gadamer era un uomo fuori del comune. Era divertente e possedeva uno straordinario senso dell’umorismo. Certamente era un filosofo famoso, ma questa fama e importanza sembrava in certo modo secondaria rispetto a ciò che lo rendeva così notevole. Quel che mi colpiva di più aveva poco o nulla a che fare con la sua fama. Anzi, la cosa più importante nel modo in cui lui incarnava la vita del filosofo non aveva nulla a che spartire con la fama. Intendo la sua apertura agli altri, la sua capacità di ascoltare, la sua generosità nella conversazione, la sua umiltà e la sua innata curiosità per il mondo. Era un maestro abile nel mostrare a noi altri come imparare, senza presumere di dirci cosa avremmo dovuto pensare. Un forte senso di integrità e rispetto caratterizzavano le sue relazioni con gli altri. Io l’ho conosciuto negli ultimi ventisette anni della sua vita, quindi era già quello che si suol dire un “anziano” quando l’ho incontrato (aveva 75 anni). Eppure fino al suo ultimo anno di vita ho sempre pensato a Gadamer come a una persona giovane. Sembrava sempre appartenere al futuro, perciò gravitava con naturalezza intorno a gente giovane. Questo filosofo che ci insegnava così tanto sull’importanza di interpretare il passato era tuttavia potentemente spinto verso il futuro. Sebbene difendesse la tradizione umanistica, Gadamer era pienamente consapevole dei limiti dell’umano. Questo era evidente nel suo amore appassionato per gli animali e per il mondo naturale. Anzi, una volta mi disse che Verità e metodo sarebbe stata terminata almeno sei mesi prima se non fosse stato così facilmente distratto dal giocare con i suoi gatti. Sapeva che la vita umana non è la misura di ogni vita e questa conoscenza lo rendeva aperto e lo manteneva curioso.

Ci sono così tanti ricordi, forti e intensi, del tempo trascorso con lui! Ma uno in particolare mi viene in mente in questo momento. Nel suo centesimo compleanno una reporter televisiva gli chiese il segreto di una vita così lunga e sana. Lui rispose dicendo: «E’ semplice. Non prendere mai ascensori e imparare a memoria una poesia al giorno». Essere vivi nel corpo e nello spirito: fece entrambe le cose al meglio.

Perciò penso che avrò bisogno della vita intera per rispondere alla Sua domanda. Ora posso dire questo: per me la sua vita si stagliava a monito della gioia e dell’onore che possono appartenere alla vita di un filosofo. Gadamer non mancava mai di ricordarci attraverso l’esempio del suo carattere la dignità di tale vita. Ci sono altre persone che hanno condiviso questo legame e che come me hanno fatto esperienza di lui, dell’uomo che era. La professoressa Donatella Di Cesare, che insieme al Prof. Francesco Saverio Trincia, ha gentilmente organizzato la mia visita a “La Sapienza”, è tra coloro che hanno trovato in Gadamer lo stesso Socrate che ci ho trovato io. Il legame che emerge da questo sentimento condiviso è altrettanto importante, un legame che porta avanti il meglio di quel che Gadamer ha dato a entrambi.







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