''Io non ho che te cuore della mia razza''
Data: Mercoledì, 28 gennaio 2009 ore 18:20:24 CET
Argomento: Rassegna stampa


Raffinato cantore di un bene perduto, di quel paradiso mitologico rappresentato dalla Sicilia e dall’infanzia, è il Quasimodo dell’esordio in Acque e Terre (’30): A te ignota è la terra / dove ogni giorno affondo / e segrete sillabe nutro, sospirano i versi di “Vento a Tindari”. Un Quasimodo assertore del valore magico della parola poetica, tutto teso verso una vibratile armonia di ritmi e suoni, secondo un sentire che sempre più, in Oboe sommerso (’32) e esemplarmente in Erato e Apollion (’36), venne risolvendosi nella più alta lezione dell’ermetismo: con un rigorismo e un preziosismo che, ben lontani dal cliché della “torre d’avorio”, definirono una presa di distanza dallo sbando e dal chiasso del periodo storico, affidandone l’elaborazione al filtro di una parola sapientemente scarnificata. Una parola che il Quasimodo avvertirà prima di tutto come dono eccezionale e tremendo, una sorta di missione laica per le forti implicazioni di responsabilità nel disvelare alla coscienza degli altri uomini ogni bagliore di verità captata o anche solo messa a fuoco. Non mancarono, tuttavia, le discordanti reazioni di chi vedeva nella parola riecheggiata e flautata del poeta siciliano un realismo che rimaneva sostanzialmente “anemico”; più dialettici altri critici, che individuarono in quella poetica un dualismo tra “dato e mito”, come Barberi Squarotti.
La visibilità della svolta quasimodiana verso un “notevole anche se non esclusivo impegno di poesia civile” (G. Contini) si ebbe nel ’46 con l’uscita de Con il piede straniero sopra il cuore, la raccolta poetica ispirata ai valori della Resistenza, cui nello stesso decennio seguirono Giorno dopo giorno (’47) e La vita non è un sogno (’49). Il cordone con la poesia dell’Arcadia era oramai decisamente reciso: i versi di Quasimodo avevano assimilato tutto il respiro corto della morte, la palpitazione della desolazione, sormontandosi a colpi di lucido sconforto: Non ho più ricordi, non voglio ricordare; / la memoria risale dalla morte, / la vita è senza fine. Ogni giorno / è nostro.. (“Quasi un madrigale”), e la visione della carneficina non dava tregua alla sua coscienza, convinta più che mai di dover tramandare fino in fondo la memoria del dolore, prima che gli uomini, fosse solo per pietà, si disponessero a dimenticare e perdonare (Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.) Sottile e lapidaria, la parola di Quasimodo va così sempre più disponendosi in orditi cronachistici per narrare il dramma delle esperienze umane del suo tempo. Come l’esperienza di Auschwitz in Il falso e vero verde (’56), e come quella dei nuovi orrori del tecnicismo, delle bombe atomiche, della moderna “Arca della distruzione”, in La terra impareggiabile (’58). Ed è proprio in quest’ultima raccolta che Quasimodo tornerà, forte d’un rinnovato vitalismo, a riallacciarsi alle memorie e alle suggestioni della propria isola, con un accento lirico giudicato fra i più convincenti del suo itinerario poetico, specie nelle rivisitazioni di sapore più intimistico come quella dedicata “Al Padre”: Dove sull’acque viola / era Messina, tra fili spezzati / e macerie tu vai lungo binari / e scambi col tuo berretto di gallo isolano. Il terremoto ribolle / da tre giorni, è dicembre d’uragani / e mare avvelenato. (..) (..) Oscuramente forte è la vita. Su tanto macerante contrasto (rigetto del bellicismo tecnologico/passione struggente per la propria terra) tuttavia, ecco sopraggiungere il passo di una presenza pacificatrice: la fiducia nell’intelligenza laica.
Una presenza che aprirà sempre più il varco a una nuova forma di saggezza, quella che nel ’66, nel viaggio poetico-biografico di Dare e avere, mostrerà il timbro misurato d’una coscienza ormai approdata a una serena semplificazione: Scrivo parole e analogie, tento / di tracciare un rapporto possibile / tra vita e morte. (“Il silenzio non m’inganna”); Forse muoio sempre. / Ma ascolto volentieri le parole della vita / che non ho mai inteso, mi fermo / su lunghe ipotesi. (“Ho fiori e di notte invito i pioppi”). È lo sguardo di un uomo che sfiora tranquillo il frutto di una volontà che non ha mai risparmiato le sue forze ma, ormai, anche cosciente di aver detto tutto quello che di essenziale c’era da dire, forse già nel presentimento della morte che, col colpo letale di un secondo infarto, lo sorprenderà ad Amalfi solo due anni dopo.
La parola secondo Quasimodo: quale attualità?
“Un grande poeta, come un grande scrittore, si deve interessare di tutta la società del proprio periodo: le sue opere devono essere valutate per quello che dicono della società e alla società in cui vivono” (4), affermò in diverse occasioni Salvatore Quasimodo, ribadendo l’indicazione d’una funzione attiva e responsabile della parola. È, oggi, ancora valida quella indicazione? Si può parlare di “attualità” in Quasimodo? La questione si pone da sé se consideriamo per un attimo lo stato della poesia contemporanea, ridotta spesso a gioco elitario, a puro artifizio fonico-verbale, per la quale non pochi degli osservatori più attenti parlano ormai di “fine di un’epoca”. “Chi può ancora meravigliarsi che la poesia non riesca ad interessare il grande pubblico, se essa si ostina ad offrirgli il vuoto, anziché degnarsi di trattare i veri, brucianti, paurosi problemi esistenziali dell’uomo d’oggi? Sembra anzi che vi sia un tacito accordo fra i poeti per evitare accuratamente tutti i problemi..”
Come riecheggia, oggi, la provocazione di Quasimodo quando dichiarava che piuttosto di usare certe frasi banali o retoriche “si sarebbe fatto fucilare all’una di notte senza aspettare l’alba”! (6): una tagliente polemica con i neoformalismi di allora e con quelli che (intuito di poeta?) si sarebbero prevedibilmente affacciati nei
decenni immediatamente successivi.






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