GLI INSEGNANTI E LE DISCIPLINE: ECCO CHE COSA BISOGNA CAMBIARE
Data: Mercoledì, 28 gennaio 2009 ore 00:05:00 CET
Argomento: Comunicati


SCUOLA

Una buona riforma per gli insegnanti:
 abbandonare le vecchie discipline

Roberto Vicini,   il Sussidiario 21.1.2009

L’insegnamento – è bene ricordarlo – richiede una specifica professionalità. Così come ad un idraulico non chiedo tanto di essere una brava persona, moralmente corretta, quanto di aggiustarmi il rubinetto, così ad un insegnante chiedo innanzitutto di fare bene il suo mestiere, ovvero di permettere agli alunni di apprendere determinate cose a determinati livelli; possibilmente in modo efficace e senza gravare troppo sulla collettività. Il nesso con l’educazione è evidente. Tra i due, tuttavia, non c’è identità. E rimane comunque il fatto che non si educa astrattamente, ma “facendo quello che si fa”, in una azione o lavoro sempre determinati; ovvero che ogni azione e lavoro (compreso l’insegnamento) hanno una propria struttura, forma, modalità esecutiva ed organizzativa storicamente determinate. Le forme infatti si modificano, sia nel mestiere del fare le scarpe, come in quello di forgiare cervelli. Non tenere conto di tutto ciò, dichiararlo come ultimamente irrilevante in rapporto all’educazione e non chiedersi quale è la forma oggi più consona è pura astrazione.
Il mestiere dell’insegnamento oggi è ancora strutturalmente legato alla modalità di organizzazione dei saperi per “discipline”, in fondo abbastanza recente, definitasi nell’Università tedesca dei primi dell’800 ed all’idea romantico-idealistica di “enciclopedia”: il ciclo formativo si attua facendo ripercorre nella testa della singola persona ciò che l’umanità ha fin qui traguardato e, quindi, nell’appropriarsi del punto di vista panoramico che spiega e ricomprende tutti i passaggi ed i particolari dello sviluppo stesso. In questa visione, formazione dell’individuo, educazione e insegnamento formano un evidente blocco; l’insegnamento diviene comunicazione del sapere e ad un tempo elevazione al suo senso, ovvero trasmissione del “giudizio culturale”.
Ebbene, tale forma è oggi ampiamente inadeguata rispetto alle sfide che i ragazzi si trovano sempre più ad affrontare. La scuola segna una distanza dalla realtà di dimensioni troppo macroscopiche. Buona parte delle cause dei risultati negativi, in termini di efficacia del nostro sistema, è dovuta proprio a questa inadeguatezza strutturale e non a una mancanza di “serietà”.
Ma è possibile un’altra forma dell’insegnamento? Anche se ciò può apparire paradossale, proviamo a volgere lo sguardo indietro, ad una fase di ri-definizione della civiltà come è stata quella medioevale. Pensiamo alla forma originaria della lectio, come laboratorio di apprendimento della corporazione di studenti e professori, laboratorio dove il maestro indica i termini del problema ed interviene solo in caso di difficoltà e nel definire la sintesi di tutti gli apporti del processo collettivo di analisi, discussione, confutazione/falsificazione, processo che ha per protagonisti direttamente gli studenti ed i bacellieri. Come in una sorta di torneo cavalleresco, attraverso un autentico lavoro di équipe. Processo che è “disciplina”, non nel senso di organizzazione/classificazione di saperi, ma di esercizio, rigore logico applicato (logica formale e dialettica insieme), in una dimensione collettiva e “produttiva”. E, soprattutto, approccio per problemi; esercizio a stare di fronte ai problemi (“lectio” come “quaestio”). Questi laboratori hanno prodotto una Summa Theologiae come quella di Tommaso, un elaborato frutto del maestro, tanto quanto del lavoro collettivo dei suoi allievi, attraverso la strada del dubbio problematico (“Utrum Deus sit” e non “Deus est”) e proprio per questo apertura al vero ed al senso: un luogo, come uno dei più grandi teologi contemporanei ha affermato, in cui lo spirito può riposare nella certezza della verità.
A tale forma dell’apprendimento corrispondeva una determinata organizzazione dei saperi, consolidatasi proprio nella fase di passaggio dall’epoca del tardo impero romano - epoca che per certi aspetti offre parecchie analogie con l’oggi, per i contatti con culture ed esperienze differenti e la fluidità del contesto socio-politico-economico, che promuovono sempre più incertezza esistenziale e instabilità sociale. Ebbene, la formazione che ha condotto l’Europa a superare in modo vincente quell’esperienza non era caratterizzata da altrettanta complessità; al contrario, era assai semplice, si concentrava sull’essenziale. Nelle scuole europee s’insegnava innanzitutto a pensare, parlare e dialogare, formalizzando quest’insieme di esperienze nella formula del Trivio (Logica, Grammatica e Retorica). Le arti liberali fungevano da strumentazione per la produzione stessa del nuovo sapere “scolastico”, dove il termine indica non tanto il contenuto, quanto il metodo stesso della sua produzione.
C’è qui una interessante indicazione: oggi, come allora, occorre una rifondazione non superficiale sia dell’organizzazione dei saperi, che della forma dell’insegnamento, ovvero del sistema scuola nel suo complesso; occorre superare l’idiotismo disciplinairstico, puntare ad una essenzializzazione dei saperi ed allo sviluppo di competenze funzionali; rimettendo al centro l’apprendimento, procedendo per problemi, imparando a muoversi tra i confini e tra i linguaggi.
Queste cose si fanno già? Sicuramente nel mondo della scuola ci sono esperienze estremamente significative; il problema però è che tutto ciò diventi nuova forma strutturale; altrimenti le pur nobili esperienze non rimangono altro che isole o tentativi di nuotare contro corrente. Quanto al processo di riforma: la strada, diciamo così, è ancora per buona parte da fare. L’assetto strutturale scolastico rimane tenacemente ancorato al vecchio modello, come una cozza allo scoglio, grazie alla formidabile flessibilità (in questo caso sì, ma trasformista) di chiamare con nomi nuovi le solite, vecchie cose.


 
 
da Il Sussidiario.net

 SCUOLA/ Gli insegnanti e le "discipline": ecco cosa bisogna cambiare
 Giovanni Cominelli

 Un recente articolo di Roberto Vicini, pubblicato su questo giornale, ha generato diverse reazioni (molto contrastanti tra loro) da parte dei lettori, e mi pare quindi utile tornare sull’argomento. Tale articolo non mette in discussione – se non capisco male – la disciplina quale modalità fondamentale di insegnamento/apprendimento, ma le discipline così come si sono storicamente configurate. La realtà da cui partire è il rigetto diffuso e crescente da parte dei ragazzi degli attuali curricula. Gli insegnanti/le scuole propongono un curriculum, i ragazzi non lo (ap-)prendono. Con ciò addio all’introduzione alla realtà! Questo è l’epicentro della crisi del sistema educativo, che obbliga ad una riflessione radicale.

 In primo luogo: è astratto parlare di “disciplina”. Occorre tenere presente l’intera catena logico-organizzativa, all’interno della quale si situa la trasmissione del sapere umano: il sapere viene partito in “discipline”; le discipline vengono organizzate in un curriculum; il curriculum è posto dentro un ordinamento; l’ordinamento si snoda dentro un assetto istituzionale e organizzativo; il tutto cammina sulle gambe di insegnanti formati, reclutati, retribuiti in un certo modo. Per di più: l’insegnante offre una disciplina, ma ai destinatari ne arrivano mediamente dalle 10 alle 15! La disciplina, concretamente intesa, è il punto di intersezione di tutte queste dimensioni. Una struttura a cipolla. L’insegnante che offre il proprio spicchio di sapere – la “disciplina” – offre anche tutto il resto, e da tutto il resto è fortemente condizionato, se ne renda conto o no culturalmente. In secondo luogo: nel corso degli ultimi duemila anni di civiltà europea il sapere è stato partito in modi storicamente diversi, riducibili sostanzialmente a due. “Secondo l’oggetto”: il modello aristotelico dell’Organon; “secondo il soggetto”: il modello baconiano dell’albero del sapere (memoria, ragione, immaginazione).

 Sullo sfondo della struttura del sapere umano dato, agli educatori si è sempre posto il problema del canone delle materie-base per l’educazione. Lo schema più diffuso, a partire dal IV secolo d. C., è stato quello del Trivio e Quadrivio, sullo sfondo di una separazione originaria tra arti liberali e arti meccaniche, che allude all’otium/negotium. Il Trivio: grammatica, retorica, dialettica (artes sermocinales), fondate sullo studio degli “auctores”, cioè di quegli scrittori che fanno crescere (augere, ma è la stessa radice di auctoritas!) il sapere; il Quadrivio: aritmetica, geometria, musica, astronomia (artes reales). L’Umanesimo/Rinascimento, ma soprattutto i secoli delle rivoluzioni scientifiche e industriali hanno dilatato incommensurabilmente il patrimonio del sapere umano, così che il vecchio Quadrivio non è stato più in grado contenerlo, mentre al Trivio è stata assicurata una vita più lunga. E’ solo con Comenius (Iohan Amos Komensky) nel ’600 che si incomincia a porre concretamente il problema della correlazione tra i processi psico-logici degli alunni e l’organizzazione logica del sapere, allorché si tratti di trasmetterlo ai ragazzi. La centralità della struttura delle facoltà umane e degli stadi dello sviluppo psicologico e mentale dei ragazzi diviene un criterio di organizzazione delle discipline. Rousseau tenta una sintesi tra il criterio oggettivo e quello soggettivo, stabilendo una sequenza pedagogica ascensionale: la natura, le cose, l’uomo. Nel 1800-1900 la classificazione del sapere e la sua trasmissione si strutturano definitivamente secondo “il criterio dell’oggetto”, sotto la spinta culturale di Hegel e Von Humboldt e di quella militare napoleonica. Roberto Vicini fa un preciso riferimento a Hegel, per il quale l’ontogenesi individuale del sapere ricapitola la filogenesi dell’intero sapere umano. Va da sé che è lo Stato il somministratore supremo di tale sapere, anche perchè lo Stato è il terreno più proprio di incarnazione di Dio nel mondo e terreno di realizzazione dell’uomo. Donde la dilatazione umanistica e enciclopedistica, cui il pensiero progressista del ‘900 ha conferito un’inesorabile aureola egualitaristica.

 Le nostre attuali discipline sono figlie di questo modello. E perciò subiscono la crisi di rigetto. Sì, perché il nuovo ruolo del sapere umano come principale forza produttiva omnipervasiva – nella seconda rivoluzione industriale le forze produttive erano solo le materie prime, le macchine e il corpo umano – ha diffuso il sapere per lungo e per largo nella vita (Longlife/Widelife Learning) e, soprattutto, ha fatto saltare la millenaria separazione tra artes liberales e artes mechanicae, tra otium e negotium (Knowledge integration). L’imparare non è più confinato nella prima parte della biografia, è permanente. È mischiato con l’informazione, la comunicazione, la praxis e la poiesis. Ne consegue che l’appello al ritorno alle discipline, così come le abbiamo ereditate da Gentile, via-Hegel, ha il suono di una campana fessa. Offrire come alternativa alla brodaglia mediatica del sapere il ritorno alle istituzioni scolastiche e alle discipline di Gentile e di Hegel è una scorciatoria fondamentalistica inefficace. L’essenza di ogni fondamentalismo è appunto l’illusione di tornare alle origini per affrontare il presente/futuro. Competenze-chiave culturali, alfabeti fondamentali (literacy linguistica, matematica, scientifica), essenzializzazione del curriculum – core curriculum - non sono i prodromi di una dissoluzione tuttologica e funzionalistica del sapere trasmesso, ma campi di elaborazione necessaria, ancorché molto problematica. In parole più povere: si tratta di elaborare un nuovo curriculum, che si basa certo sulle discipline. Ma su quali e quante e dentro quale assetto ordinamentale, organizzativo, amministrativo, istituzionale e professionale, questo è esattamente il problema.

 Il primo e decisivo cambiamento riguarda il rapporto tra artes liberales e artes mechanicae: queste ultime vanno inserite a pieno titolo nel Quadrivium, superando la divisione millenaria tra otium e negotium, tra istruzione classico-retorica e istruzione scientifico-tecnico-professionale. Il che comporta anche modifiche radicali del Trivium, vulgo dell’insegnamento/apprendimento degli alfabeti: non solo la logica formale e la retorica, ma anche il linguaggio scientifico e quello matematico. Il che comporta modalità e contenuti diversi nella formazione e reclutamento e gestione del personale. E una posizione personale del docente testimone, educatore e “istruttore” rispetto alla propria disciplina che non può essere solipsistico: è implicato con la realtà totale del sistema educativo insieme a tutta la comunità tecnico-professionale degli insegnanti.






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