Perchè il mito greco continua a dominare ininterrottamente nell'immaginario occidentale?
Data: Giovedì, 15 gennaio 2009 ore 12:16:23 CET
Argomento: Rassegna stampa


Antigone è una figura verso cui i filosofi hanno rivolto un’attenzione del tutto singolare, di cui forse nessun altro personaggio letterario sembra essere altrettanto degno. Essa offre in generale numerosi spunti per una riflessione che va oltre il semplice interesse per la Grecia classica, e in in particolare nei confronti della tragedia, interlocutore privilegiato dal pensiero filosofico segnatamente a partire dal romanticismo. Proprio in questo periodo si potrebbe collocare l’inizio della fortuna filosofica di Antigone, la cui lettura fu un momento decisivo del legame istituitosi tra Hölderlin, Hegel e Schelling a partire dalla loro esperienza comune a Tubinga. Per accennare brevemente alla lunga serie che ha costituito l’eco della tragedia di Sofocle fino ai nostri giorni basta citare le letture proposte da Kierkegaard, Heidegger o quelle più recenti di Maria Zambrano, Luce Irigaray o Jacques Derrida. In quanto la vicenda racconta del suo gesto oltraggioso che viola l’editto di Creonte, tiranno della città di Tebe, essa è spesso citata come termine di confronto per la riflessione politica sulla possibilità d’azione del singolo in opposizione al potere, sulla definizione della giustizia, sulla questione femminile.Si tratta di una Antigone molto incarnata, e come tale più viva che morta, nonostante già dentro la tomba. Una donna che, distinguendosi dal mito sofocleo e dalla scelta della madre Giocasta, appare fin da principio molto lontana dall’intenzione di suicidarsi: “come poteva”, scriveva Zambrano, “Antigone darsi la morte, lei che non aveva mai disposto della sua vita? Non ebbe nemmeno il tempo di accorgersi di se stessa”.
Sepolta viva, né nella vita né nella morte, Antigone compie un atto di rinascita, attraverso una profonda operazione di autocoscienza, che la filosofa spagnola aveva descritto attraverso dialoghi tra la protagonista e i vari personaggi del mito di Edipo, e che invece nel canovaccio teatrale di Inversi diventa un unico monologo, in cui i personaggi non appaiono, ma vengono evocati. Come spiegare quindi il destino contradditorio di Antigone che conduce inevitabilmente alla morte? Questa domanda coincide secondo Butler con un interrogarsi sulla possibilità di nuove forme di vivibilità all’interno del simbolico, il che non consiste semplicemente nell’affermare che la perversione è necessaria alla legge, dal momento che tale constatazione non scalfisce il limite imposto a separare natura e cultura e non lascia lo spiraglio aperto alla domanda sulla possibilità di nuove forme di organizzazione sociale e culturale. Per Butler la conclusione fatale che aspetta Antigone non è una necessità, la prova schiacciante dell’inesorabilità della legge, per il semplice fatto che niente di questo personaggio permette di inferire a tale legge. Il prezzo che Antigone deve pagare per aver pronunciato un simile discorso è la morte, «il limite che esige di essere letto come quell’operazione del potere politico che preclude l’intelligibilità di alcune forme di parentela, che nega ad alcuni generi di vita di essere approvati come tali» (Butler, p. 46); tuttavia, come è già stato accennato e come si metterà ora in maggior evidenza, lo stesso discorso di Antigone è essenzialmente impuro, una forma di catacresi di chi per esprimersi deve necessariamente usare il linguaggio dell’altro e rinunciare così alla propria affermazione.
La maledizione esercita una forza performativa che mette in atto l’azione stessa che nomina, tuttavia, nel momento in cui le parole vengono trasmesse assumono l’aspetto del desiderio di coloro che esse nominano, desiderio che necessariamento che le fraintende. In virtù della maledizione, in Antigone passato, presente e futuro, desiderio e identificazione, si confondono inscindibilmente generando quello che Butler definisce un legame malinconico, «una malinconia che si occupa del vivere e dell’amare al di fuori del vivibile e al di fuori del campo dell’amore, dove la mancanza di sanzioni istituzionali obbliga il linguaggio a una catacresi perpetua» (Butler, p. 107). Una volta constatato che l’aberrazione nasce proprio dal cuore della norma non è possibile limitarsi ad accettarla come prezzo necessario perché le leggi possano applicarsi universalmente, come la perversione necessaria perché la legge funzioni come tale. Ciò non porterebbe alla concezione di legami sociali alternativi, che tentano invece di esporre la loro rivendicazione. La teoria strutturalista trasforma la distinzione hegeliana in una struttura vuota fatta di posizioni ma ne conserva comunque la validità effettiva che tenta di porre un limite sociale al sovversivo, alla possibilità di azione e di cambiamento, in nome di una legge necessaria da opporre all’estremo volontarismo o all’anarchia. Butler conclude così che «la parentela strutturalista è forse la maledizione che piomba sulla teori critica contemporanea quando questa cerca di affrontare la questione della normatività sessuale, della socialità e dello statuto della legge» (Butler, pp. 89-90). Al contrario il lavoro di Butler mira a mostrare che non solo «in natura non esiste una base definitiva per la struttura della famiglia monogama, eterosessuale e normativa […] essa non ha neppure una base di questo genere nel linguaggio» (Butler, pp. 99-100) la sovversione che si insinua dall’interno della norma, apre delle possibilità future che non possono essere rappresentabili, così come Antigone, presa nell’incoerenza più totale delle posizioni simboliche della parentela, non è rappresentabile dal linguaggio della legge.

Il sottotitolo dell’opera di Butler reca l’espressione La parentela tra la vita e la morte, suggerendo ancora la centralità di questo luogo di una transizione estremamente pericolosa. Tra la vita e la morte è là dove si trovano coloro la cui vita sociale non si conforma alla norma prestabilita: essi rappresentano il non umano, il quale per potersi dichiarare umano deve impossessarsi del linguaggio dell’altro. In questo modo coloro che stanno tra la vita e la morte possono scegliere di vivere nella necessaria malinconia di chi è escluso dal riconoscimento pubblico o, come Antigone, andare incontro alla tragica fatalità di chi si oppone alla legge. Di fronte al problema della convergenza della proibizione sociale e della malinconia, il finale tragico potrebbe forse essere evitato lasciando ad Antigone la possibilità di istituire un linguaggio proprio con cui esprimere la propria rivendicazione.

La libertà di questa Antigone non sta per niente in una questione di libertà di scelta tra l’una o l’altra cosa (né tra la vita e la morte né tra lo stare dentro o fuori dal potere) ma nel creare un sogno altro, un sogno di rinascita: “la vita è illuminata soltanto da questi sogni simili a lampade che rischiarano dal di dentro, guidando i passi dell’uomo nel suo errare sulla Terra.”
Alla fine della rappresentazione, in un lento e graduale riaffiorare delle luci, l’Antigone rappresentata in scena da Maria Inversi  che della riduzione teatrale (recentemente proposta al “Cometa off” di Roma) è sia autrice che regista e interprete, inizia a camminare dando le spalle al pubblico e molto molto lentamente, come seguendo il tempo del proprio respiro interiore.
Verso cosa si dirige?
Va verso il suo sogno, verso “il luogo nel quale il cuore possa insediarsi intero… quando l’oscurità lo avvolge, seguirlo ed entrare con lui laddove la luce si accende. Adesso sì, dev’essere il momento. Adesso che la mia stella, la stella del Mattino, è qui”.
Ecco, forse questa è la risposta alla domanda che mi sono posta: Perchè il mito greco continua a dominare ininterrottamente nell'immaginario occidentale?







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