Lettere a Ludovica
Data: Domenica, 28 dicembre 2008 ore 19:50:16 CET
Argomento: Redazione




Tutto qui, eppure apprendiamo dalle lettere che i tre nutrivano grande stima e affetto nei suoi confronti. Ben al di là dello scherzoso tono madrigalesco adottato da Pavese: «Inutile dirLe che Roma senza di Lei non è più nulla, non è più stella né del mattino né della sera. Oh lunghi tè in pens. California, oh digiuni in pizzeria, oh lost forever lost». È un Pavese generalmente allegro che qui si manifesta. Una volta gli accade di lamentare i cronici ritardi di Einaudi nel pagamento degli stipendi: «Noi qui siamo a razione. Io faccio sciopero una settimana sì e una no per avere quattro soldi e comprarmi le castagne. Da mesi non tocco alcol». Altrove annuncia che è tutto preso dalle cure di una edizione dell’Iliade: scritta da «Omero, poeta turco morto tremila anni fa». E stende un velo giocoso anche sulla sua disaffezione per l’America, un tempo idolatrata, e sulla passione ormai dominante per l’etnologia: «Mi domando che cosa c’è ancora da vedere e da capire a New York - è il paese più vecchio della terra (da cinquant’anni è moderno; noi in Italia lo siamo da dieci; quindi noi siamo più giovani). A proposito di vecchiumi, io non faccio più altro che studiare i cannibali e i moretti...». Ma un anno dopo, 10 giugno 1950, è portato a ricredersi, adottando altri accenti: «Se sapesse come la invidio che sta a New York. Pensi che in 55ª strada vive e respira un mio formidabile amore che probabilmente mi costerà la vita». Un sinistro presagio, dopo l’abbandono di Connie.

Nella stessa lettera tocca uno dei temi più risentiti di questo epistolario. Parla della rivista Cultura e realtà promossa da Mario Motta, dei malumori del Partito per quel gruppo di cattolici comunisti che gli sono amici e tra i quali spicca Felice Balbo: «Ci sono dentro anch’io, e coi nostri primi saggi abbiamo già fatto ammattire le autorità...». Il 10 aprile dell’anno dopo, Balbo comunica a Ludovica di avere lasciato il Pci, esprimendo un giudizio ugualmente «catastrofico» sul capitalismo e sul comunismo. Più avanti tratterà di rivoluzione cibernetica, ma ora appare sedotto dall’impervio, religioso profetismo di Simone Weil, «una testimone della verità e una denuncia dei mali del secolo». Dopo di lei, dice, non si possono più leggere i libri contemporanei: bisogna tornare indietro a Dostoevskij, a Tolstoi, a Shakespeare, a Dante. E ancora: «C’è da fare una autocritica millenaria se non vogliamo che il mondo moderno schiacci e distrugga anche il seme dell’umanità. Weil, Matthiessen, Pavese. Sono segni, in modo diverso, di una stessa cosa, di uno stesso bisogno, di una stessa tragedia». Matthiessen, l’autore di Rinascimento americano, è morto suicida come Pavese, che Balbo, con singolare preveggenza, assume a figura emblematica di un universale disagio.

Altro stile in Natalia Ginzburg, che immette nelle lettere a Ludovica, insieme a un tocco di femminilità, la voce pacata e dimessa, talora rassegnata, che è soltanto sua. Ci sono i libri che scrive e quelli che legge («Il dottor Zivago è un libro bellissimo, e dà respiro per molto tempo»), la rinuncia alla militanza politica, la dolorosa scomparsa di Cesare («Il nostro caro Pavese è morto l’altro ieri, domenica, a Torino. Si è avvelenato con del sonnifero... Negli ultimi tempi era molto abbattuto, era “a pezzi”, così diceva»). Ma prendono molto spazio gli affetti familiari, i figli già svezzati e quelli a venire, il nuovo marito Gabriele Baldini. Natalia, che confessa le sue difficoltà economiche, è grata a Ludovica che le manda regali dall’America, vestiario, cioccolatini e perfino rossetto: «Senza averlo visto so che è un bellissimo rossetto e che migliorerà la mia faccia».

Queste lettere offrono interessanti spunti e conferme sui personaggi-autori, ma consentono anche una lettura autonoma, quasi di un libriccino in sé compiuto. Capita infatti a ciascuno degli interlocutori di ragguagliare la destinataria sui comportamenti degli altri due, contribuendo così al racconto dell’amicizia che li cementa. Una amicizia che si potenzia misurandosi nello specchio, velato, della inaccessibile Ludovica.





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