I MISTERI DELLA "THEOTHOKOS GLYKOPHILOUSA"
Data: Marted́, 23 dicembre 2008 ore 23:29:02 CET
Argomento: Istituzioni Scolastiche


 

Il vento e la pioggia battente non hanno impedito all'Accademia degli Zelanti di tenere, nella sede della Biblioteca di Via Marchese di Sangiuliano, un interessantissimo

Convegno di studi, organizzato insieme con l'Associazione "pro Sacro Fonte" di Vena (Piedimonte Etneo), che ha portato non poche novità sui "misteri" della nota icona lignea della Vergine col Bambino,

venerata nel Santuario mariano del paesino etneo, la "Theothòkos Glykophilousa". Sono intervenuti il prof. Carmelo Crimi e il prof. Giuseppe Maugeri dell’Università d Catania, ildott. Antonio Lo Presti, direttore

del L.A.P.I.S. di San Giovanni la Punta, l’arch. Walter Maugeri e don Carmelo La Rosa, rispettivamente  consulente tecnico artistico e rettore del  Santuario. Gl’interrogativi più pressanti riguardano l’epoca

dell’icona e l’opportunità di restaurarla, ma prima di dare una risposta, occorre sgombrare il terreno da ogni incongruenza storica. Tale versante è stato esplorato dal presidente dell'Accademia dott. Giuseppe

Contarino, che nella sua relazione introduttiva, ha chiarito quattro punti:1) "la storia", riportata in una lapide scritta in latino, assegna a S. Gregorio l’intenzione di fondare un santuario "sopra Mascali", dedicato a S.

Andrea. S. Gregorio Magno venne elevato al soglio pontificio nel settembre del 590 e morì nel 604. Di qui lì opinione che l’icona risalga al VI secolo. È da notare, tuttavia, che la lapide non è coeva al santuario,  ma è stata scritta in tempi recenti. 2) A seguito delle persecuzioni musulmane, i monaci della Grecia si rifugiarono in massa i Sicilia. Nel 732, per decreto di Leone Isaurico, i conventi furono sottoposti al patriarcato di

Costantinopoli, in conseguenza, il monachesimo siculo, da benedettino e di lingua latina, divenne basiliano e di lingua greca. Domanda: è possibile che siano stati i monaci greci a portare la sacra icona o a realizzarla a Vena? Se si risponde positivamente, la sua datazione va spostata convenzionalmente al sec. VIII, periodo al quale approda, per altra via, il compianto prof. Enzo Maganuco e che viene confermato da un altro dato. Sotto il profilo stilistico, l’immagine di Vena appartiene al genere della Theothòkos Glykophilousa, cioè della "Madre di Dio del dolce abbraccio", che, a sua volta fa parte del ciclo della Theothòkos Eleousa, cioè della "Madre di Dio della tenerezza".Nel sec. IX, i monaci greci codificarono 12 tipologie iconiche per evitare pose, gesti e messaggi non ortodossi. La nostra icona rientra tra le ultime, tra quelle che avevano perso la rigidezza bizantina e si erano aperte alla spazialità e all’umanizzazione. Anche per questa via, andrebbe abbandonata la leggenda di S. Gregorio. 3) Allo stesso secolo risale la vicenda di Teofane Cerameo, che, nel sec. IX, avrebbe studiato teologia, filosofia e matematica nel monastero di Vena per diventare poi l’ultimo arcivescovo di Taormina. Del Cerameo – ha precisato Contarino –non si hanno notizie certe. Si sconosce, a esempio, dove sia nato e se sia veramente vissuto nel sec. IX o nel sec. XII. La difformità di date è suggerita dal fatto che il Cerameo avrebbe pronunciato un’omelia nella Cappella  Palatina di Palermo, fatta costruire da Ruggero II nel 1132. Al di là del bisticcio anagrafico e del fatto che l’ultimo arcivescovo di Taormina fu S. Procopio, decapitato la notte di Natale del 906 dai saraceni, viene fatto osservare che il Cerameo scrive di aver studiato nella "Casa di S. Andrea", ma non precisa dove essa si trovasse:"Casa" che pure doveva essere molto importante se vi si insegnava teologia, filosofia e matematica, ma della quale non esistono testimonianze. 4) Sotto la dominazione araba e sotto  quella normanna, l’icona svanisce nel nulla. Don Paolo Cannavò, nel suo ampio volume su Vena, spiega il buco nero ricordando una copia dell’icona della Madonna di Guadalupe, donata da Gregorio Magno al vescovo di Siviglia, S. Leonardo. Anche tale copia scomparve per riapparire 600 anni dopo. Tale accostamento è privo di fondamento, perché Nostra Signora di Guadalupe apparve per la prima volta in Messico nel 531,vale a dire 25 anni dopo la morte di S. Gregorio. Il relatore ha ricordato, infine, che quella che vediamo non è l’originale, ma il frutto di un pesante restauro ultimato, nell’agosto del 1897, dal pittore ripostese Salvatore Matteo 8rectius: Di Matteo). La disputa sulla datazione non avrebbe senso se la prova di misurazione del radiocarbonio effettuata a Firenze dal prof. Pier Andrea Mandò potesse ritenersi attendibile. Così non è.  L’esame, tra l’altro, è stato effettuato su quattro frammenti della tavola. Ebbene, tutte e quattro riportano date  diverse che ondeggiano tra il 1118 e il 1253. Trattandosi di un pezzo unico, la differenza di datazione - fino a 135 anni – suscita molte perplessità. Dopo il dott. Contarino ha preso la parola il prof.  armelo Crimi, ordinario di Civiltà bizantina, che ha illustrato il dibattito sulle immagini sacre e il movimento iconoclasta sviluppatisi nell'impero bizantino nei secoli VIII-IX. E' stata poi la volta del prof. Giuseppe  augeri, ordinariodi Botanica ambientale e applicata, il quale ha riferito e commentato l'esito delle indagini dendrologiche eseguite dal suo Istituto sulla grande tavola che fa da supporto all'icona: è una tavola di  castagno (e non di cedro del Libano, come è stato sostenuto), ma mancano elementi per poterne individuare la provenienza, dato che il castagno è un albero diffuso in Sicilia come anche in oriente. Da parte sua,  l'arch. Walter Maugeri, Consulente Tecnico Artistico del Santuario di Vena, ha evidenziato che le eccezionali, grandi dimensioni della tavola, priva di giunzioni e probabilmente originariamente più lunga di quanto non appaia oggi, rinviano non solo ad un albero dal fusto di diametro molto ampio, ma anche ad una tecnica di taglio che nel XII  secolo si era perduta: tanto a suo avviso deporrebbe a favore dell'ipotesi  radizionale che l'icona abbia una origine più antica di quanto non risulti dall'indagine al radiocarbonio. Molto suggestiva l'esposizione del dott. Antonio Lo Presti, direttore del L.A.P.I.S. , che ha illustrato

con proiezioni i risultati di una serie di verifiche  non invasive eseguite sull'icona con varie tecniche (a luce radente, a fluorescenza, a infrarosso, a radiografia  digitale), dalle quali è venuta fuori, tra l'altro, la conferma della tesi che in origine la tavola era più ampia e, soprattutto, che l'attuale icona ne copre una precedente, molto più bella, in cui lo sguardo della Vergine - oggi rivolto verso di noi - si incrocia teneramente con quello di Gesù. Il Soprintendente ai Beni Culturali e Ambientali di Catania, arch. Gesualdo Campo, non ha avuto esitazioni: il grande castagno da cui è stata ricavata la tavola può ben essere stato uno di quelli che crescevano nel bosco vicino a Vena, sottoposto a misure protettive dal governo borbonico proprio in ragione dei suoi numerosi alberi di grande diametro. La datazione emersa dall'esame al radiocarbonio si concilia con la storia. Ne discenderebbe che la realizzazione dell'icona è immediatamente successiva alla liberazione dell'isola da parte dei Normanni (inizi del secolo

XI). In questo caso, essa sarebbe coeva agli affreschi dell'Abbazia di Maniace (Bronte) e della Chiesa della Nunziatella di Mascali. Campo ha suggerito di sottoporre alla misurazione del radiocarbonio anche i chiodi della tavola e di avviare uno studio comparato dell'icona con le altre analoghe opere dell' XI-XII secolo, dando infine comunicazione che la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Catania intende procedere al restauro dell’Icona. Giova qui sottolineare che la tecnica del radiocarbonio si applica solo ai resti organici ed è esposta di per sé a margini di errori tanto maggiori, quanto più recente è l’età dell’oggetto. Anche quando il reperto viene trattato con la massima cura e lo si isola da fattori contaminanti, sono stati riscontrati risultati  inattendibili, specialmente quando la sua datazione presunta è posteriore ai primi millenni della storia; per quelli più recenti, ovviamente, l’incertezza aumenta. Il dott. Contarino alla fine ha tirato le fila dell'appassionante confronto, e, dopo aver precisato che la datazione dei chiodi potrebbe risultare fuorviante essendo essi infissi su quattro traversine di epoca molto posteriore al supporto, perché servivano a evitare che esso si incurvasse, ha citato una lettera del 26 settembre 1971, con la quale il vescovo del tempo, Mons.

Pasquale Bacile, scrivendo al Soprintendente alle Gallerie e alle opere d’arte di Palermo, diceva tra l’altro : "Si vorrebbe essere assicurati che il restauro lascerà intatte le fattezze dell’immagine in modo che questa

possa continuare a rimanere esposta al culto dei fedeli: Non bisogna dimenticare che essa è custodita non in un museo per il diletto dei visitatori, ma in un Santuario che da essa prende l nome e dove da secoli è oggetto di particolare venerazione da parte dei fedeli del luogo e dei pellegrini che vi affluiscono dai dintorni. Si può facilmente immaginare quanto vivo sarebbe il dolore dei fedeli e quanto grande la loro reazione qualora si vedessero chiamati a venerare un’immagine che sarà più vicina all’originale, ma non più la Madonna ch’essi e i loro padri hanno avuto sott’occhio per generazioni e generazioni". Ben continuino studi e indagini, ma un eventuale restauro dell'icona, diretto a recuperarne le linee originarie, anche se fosse ritenuto rispondente alle ragioni dell'arte, potrà ignorare le ragioni della fede?

Salvatore Leonardi







Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-13488.html