Omaggio a Ignazio Buttitta
Data: Venerd́, 19 dicembre 2008 ore 21:35:03 CET
Argomento: Redazione


“ Vivu sugnu, mi viditi? Parru! ”
Il 5 Aprile 1997 si spegneva, alla veneranda età di novantotto anni, Ignazio Buttitta, significativo rappresentante del realismo poetico dialettale del ‘900.
La sua produzione, improntata ad un vigoroso impegno umano e sociale, ha per protagonista la Sicilia delle classi subalterne, degli oppressi, degli emarginati, dei contadini, dei muti della storia, ferita da secolari povertà, ma anche tesa da fiere volontà di riscatto sociale e politico.
Una Sicilia-madre che, pur nelle sue evidenti contraddizioni, dinanzi al dolore patito dai propri figli si china a raccoglierne il lamento: «La matri d’un briganti, sempre matri resta.»
Nato a Bagheria, in provincia di Palermo, il 21 Settembre 1899, Buttitta, terminate le scuole elementari, comincia a lavorare nella bottega di alimentari (pizzicagnolo) del padre dove, evidenziando subito forte personalità, grande estro creativo e capacità comunicativa, intrattiene i clienti con versi spontanei.
Ama la lettura e, da autodidatta, cura la propria formazione culturale alla quale dedica notti insonni.
Sostiene, a proprie spese, la pubblicazione delle prime opere, una quarantina di componimenti lirici dialettali, a tema amoroso e sociale (Sintimintali, con prefazione del critico G. Pipitone Federico, Sabio, Palermo 1923), ed un poemetto di 300 versi (Marabedda), delle quali effettua personalmente la distribuzione ad amici e conoscenti.
Già da allora si delinea chiaramente la sua vocazione di “poeta popolare” capace di insinuare la propria coscienza civile, la propria ideologia, nel sentimento comune del quale coglie, con assoluta naturalezza, le caratteristiche storiche e quotidiane: «Ogni cori di Sicilia, / è vulcanu quannu adduma, / e lu sangu di li vini / un marusu senza scuma! »
La continua denuncia delle ingiustizie e miserie della società siciliana e le personali convinzioni politiche, ispirate ai principi del socialismo, che lo avevano portato ad esporre nella bottega del padre un ritratto di Matteotti, gli causarono non pochi problemi con il regime fascista che, anche a causa del cognome di origine ebrea della moglie, Angela Isaya, lo costrinse ad una fuga a Godogno, vicino Milano, dove rimase per alcuni anni, collaborando con le forze della resistenza partigiana.
Durante lo sbarco alleato in Sicilia, il suo magazzino venne completamente saccheggiato dalla gente affamata, tra cui lo stesso padre del regista Giuseppe Tornatore, e Buttitta, terminata la guerra e tornato nella sua terra, si ritrovò sommerso dai debiti.
Caratterialmente forte ed intraprendente, cominciò una nuova attività di rappresentanza alimentare tra aziende di Mazara del Vallo e Milano e, nel 1954, la pubblicazione dei suoi lavori con Lu pani si chiama pani (con traduzione in versi di Salvatore Quasimodo, illustrazioni di Renato Guttuso, Edizioni di cultura sociale, Roma) attraverso il quale, rivelando una nuova immagine di se e della sua poesia, adesso distinta da nuova padronanza espressiva ed arguto umorismo, segna una “svolta” destinata ad aprirgli nuovi traguardi artistici: «La storia di st’anni fucusi / ha zappatu cu l’ugna / dintra di mia, / restu scantatu a taliari / l’omini tutti / mpinnuliati a un filu, / a un distinu sulu, / dintra na varca di pagghia c’affunna».
Nel 1956 scrive Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali (traduzione di Franco Grasso, Edizioni Arti grafiche, Palermo) che, con variazioni, ritroveremo ne La vera storia di Salvatore Giuliano, composta per il cantastorie Ciccio Busacca (1963) e pubblicata da ed. Sellerio nel giugno 1997, nel 1961 il dramma Il Patriarca, e nel 1963 Lu Trenu di lu suli e La peddi nova, (prefazione di Carlo Levi, ed. Feltrinelli, Milano).
D’ora innanzi le opere di Buttitta, tradotte in una decina di lingue, faranno il giro del mondo (Parigi, Mosca, Pechino, Città del Messico) regalandogli notorietà e consenso.
Nella sua villa, su un’altura di Aspra, contornata da agrumeti ed uliveti, proiettata, quasi fosse barca, verso l’immensità del mare che la costa, da Capo Zafferano a Monte Pellegrino, sembra invano voler contenere, si ritrovano grandi intellettuali italiani e stranieri, come Leonardo Sciascia, Renato Guttuso e Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini e Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Eugenij EvtuschenKo, A. Surkov, Jannis Ritsos ed Eugenij Solonovic, Buttitta è però particolarmente attratto dal sentire popolare e la sua voce ha come elemento naturale la piazza dei paesi siciliani dove amava soffermarsi con recitals nei quali, alternando la forza dirompente dei propri versi poetici a racconti estemporanei di straordinario colore ed efficacia, riusciva a coinvolgere grandi folle delle quali diceva di sentire “il battito del cuore”.
Caratterizzato da toni di rivolta e di speranza, inconsueti nella poesia dialettale siciliana, teso ad evidenziare le ragioni della poesia, che sono quelle dell’uomo, il suo grido lo condurrà ad essere iscritto, come ebbe a dire Leonardo Sciascia, “ tra le voci più autentiche del nuovo realismo italiano”.
Nel 1968 esce La paglia bruciata (racconti in versi, con prefazione di Roberto Roversi e nota di Cesare Zavattini, ed. Feltrinelli, Milano) con il quale vinse il premio Viareggio, e nel
1972 Io faccio il poeta (prefazione di Leonardo Sciascia, ed. Feltrinelli, Milano).
Nel 1974 Il poeta in piazza (ed. Feltrinelli, Milano), nel 1982 Prime e nuovissime (editoriale Forma, Torino), nel 1983 Pietre nere ed infine nel 1986 Colapesce. Leggenda siciliana in due tempi (prefazione di Melo Freni, ed. PM, Messina).
Negli ultimi anni, a causa del precario stato di salute del suo cuore, fece tacere la sua voce con un’unica eccezione rappresentata dalla pubblicazione di Ancilina, un poemetto scritto per la moglie ed apparso nella rivista Nueve Effemeridi, diretta dal figlio Nino, illustre professore dell’Università di Palermo e studioso di grande rilievo.
Buttitta, pur scrivendo in lingua siciliana e riferendosi alla propria realtà locale, ha espresso valori universali.
«Ora ca a storia / vutò i spaddi o tempu / e a ragiuni non havi ragiuni, /mi vennu a diri ca fui / un patriarca orbu / che pridicava jorna filici. / Si l’omini nsarvagiscinu, / si cuvanu vinnitta / e casa e famigghia / addivintaru stadda e lucanna / non mi mittiti a cruci. / E si l’amuri, dicu l’amuri! / non è chiù puisia / ma sgridazzari di pazzi / ca cercanu nno diliriu / a gioia di campari, / non ripititi a cruci. / Non ripititi l’accusa / si cridu ancora o futuru, / a l’eternità da vita / e fiduciusu a l’omini / nventu paroli novi / chi aitanu a luttari. / ... / U tirrimotu distruggi, / ammunzedda morti e macerii, / abbatti mura e palazzi; / l’omini, i jsanu, / fannu parrari i petri: / io, i canusciu l’omini. »
Mi ha fatto piacere ricordarlo. Farlo “parlare”, farlo sentire ancora “vivo”. Oggi, a dieci anni  E più dalla sua scomparsa.





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