La Francia «scopre» che l'eutanasia non le piace
Data: Giovedě, 11 dicembre 2008 ore 21:08:20 CET
Argomento: Redazione



«Mi sono impegnato in questo dibattito perché mi pare che una questione tanto grave meriti di essere trattata senza semplicismo polemico. In senso proprio, essa appartiene all’ordine della tragedia, cioè a un insieme di situazioni che non offrono soluzioni felici». La questione è quella dei malati in fase terminale, e a esprimersi così è il professor Axel Kahn, oggi rettore dell’Università Descartes (ovvero «Parigi 5», che comprende il più importante polo universitario francese di medicina)

Professore, lei ricorda all’inizio del suo saggio che alleviare le sofferenze è un dovere della medicina. Eppure, le cure palliative paiono oggi il punto debole dei sistemi sanitari europei.
«Ci sono stati progressi e un’evoluzione globale che rappresentano un’autentica rivoluzione concettuale. Ma in Francia, come anche in Italia, siamo indietro rispetto alla coscienza ben anteriore del problema in Paesi come Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti. C’è ancora molto da fare. La somministrazione di cure palliative resta riservata a centri insufficienti per numero in modo clamoroso. Eppure, ritengo che alleviare il dolore faccia parte della continuità delle terapie a tal punto che lo si dovrebbe integrare praticamente in tutti gli ospedali. Purtroppo, a causa delle restrizioni economiche, il futuro delle cure palliative resta contrastato e incerto».

In questo quadro, c’è chi chiede l’eutanasia invocando una presunta "libertà". Non si maschera così il problema dei malati terminali, spesso soli o abbandonati?
«La libertà non vuol dire l’assenza totale di vincoli. Essa coincide con l’esistenza di una scelta: intendo dire che, di fronte ai vincoli della vita, ai suoi limiti intrinseci, si ha ancora la possibilità di fare una scelta. Quando resta solo la scelta di cedere a questi vincoli, in realtà non si è più liberi. Nell’immensa maggioranza dei casi – più del 99%, quando una persona, malata o meno, dice di voler morire – in realtà si considera di non aver più altra scelta se non di morire. A spingere queste persone verso la morte è una serie di fattori esterni, come l’isolamento, oppure il rifiuto degli altri, i loro sguardi, i discorsi. Non si può dunque invocare la "libertà di scelta"».

Lei si dice anche scioccato dall’espressione "morire con dignità" impiegata in Francia dal fronte pro-eutanasia. Perché?
«Ho partecipato recentemente a una Commissione nominata dal presidente della Repubblica volta a proporre una modifica del preambolo della Costituzione. Ho proposto di riconsiderare il testo della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino del 1789 per arricchirlo con l’elemento della dignità. In sostanza, chiedevo di pervenire alla formulazione "tutti gli uomini nascono e rimangono liberi e eguali in dignità e diritti". Agli occhi della società, la dignità deve restare piena e integra. Mi chiedo dunque: la formula "diritto a morire con dignità", impiegata da certe associazioni, non implica forse che rinunciare a questo preteso diritto significa essere indegni? E a chi si sta pensando quando si allude a questa "indegnità"? Ai malati di Alzheimer, a quelli terminali, alle persone molto anziane? Questo programma risulta in realtà assai ambiguo, dato che sottomette la dignità a determinate condizioni. Ma io sono convinto che la dignità non abbia alcuna condizione!».

Come giudica la legge Leonetti del 2005 sulla fine della vita, che ora si vuole aggiornare?
«Questa legge mi pare equilibrata perché segna un passo avanti nel nome di un intervento da parte dello Stato come garante contro la sofferenza dei malati. È qualcosa d’importante. Si deve contare sul fatto che lo Stato offra aiuto alle persone in situazione di estremo sconforto. Va fatto tutto il possibile affinché la sofferenza possa essere evitata. La legge oggi in vigore consente di farlo, affrontando anche direttamente il caso in cui questa lotta contro la sofferenza dovesse compiersi "a scapito della vita", e on certo perché la soluzione adottata sia quella di uccidere affinché le persone non soffrano più ma perché si predisporrà tutto il necessario per evitare questa sofferenza, anche se si ha coscienza che ciò potrebbe abbreviare la vita. Questa legge mi pare molto forte in quanto continua ad affermare che il medico ha tre doveri: garantire la vita, curare per guarire e curare per alleviare il dolore. Non può esistere un quarto e nuovo dovere, quello di dare la morte».

Fra emozioni collettive e manipolazioni di certe associazioni, il recente caso di Chantal Sébire (la donna che aveva chiesto di poter morire) è parso in qualche modo esemplare. Che ne pensa?
«È una donna che ha cercato di offrire il proprio dolore in nome di una lotta che giudicava essenziale: l’introduzione dell’eutanasia attiva. Ma l’opinione pubblica è stata manipolata: le si è fatto credere che l’eutanasia attiva fosse l’unico strumento perché questa donna cessasse di soffrire. Il che non era vero. Chantal Sébire ha rifiutato la morfina che poteva alleviare le sue sofferenze. La società le offriva mezzi per non soffrire, ma lei ha rifiutato di accettarli in nome di una battaglia. Non si è certo trattato di un abbandono».

Il fronte pro-eutanasia evoca la filosofia stoica, ma poi pare sensibile all’argomento della riduzione dei costi sanitari. Non c’è un’ambiguità in questo?
«In Francia tra i difensori dell’eutanasia attiva vi sono due correnti. La prima, ispirata al libero pensiero, fa capo perlopiù alla sinistra laica, atea e anticlericale. Il suo argomento principe è che l’uomo deve restare libero fino alla morte. Ma una seconda corrente, con una posizione ultraliberale sul fronte economico, avanza invece un preteso argomento realista: tenuto conto del peso economico di certe situazioni terminali, occorre interromperle quando si prolungano. Questi due estremi si ritrovano dunque in una posizione comune».





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