Sprechi e inefficienze nell'edilizia scolastica. Meno plessi e pių investimenti in sicurezza
Data: Venerdė, 05 dicembre 2008 ore 19:16:06 CET
Argomento: Rassegna stampa


A SCUOLA D'INVESTIMENTI
di Massimo Bordignon e Alessandro Fontana 05.12.2008

Ridurre la spesa pubblica e migliorarne la qualità non si può fare con interventi di taglio indiscriminato. Lasciano il tempo che trovano, e spesso conducono solo a maggiori inefficienze e a maggior spesa in futuro. Invece, bisogna agire di cesello, cercando di modificare gli incentivi degli agenti coinvolti perché si muovano nella direzione desiderata. Questo era il compito della Commissione tecnica sulla finanza pubblica, incaricata dal governo Prodi di condurre a termine la revisione della spesa dei principali ministeri, e poi soppressa dall’attuale esecutivo. Eppure, alcuni dei risultati raggiunti dalla Commissione sono ancora validi, e il metodo è tanto più utile in un momento di crisi come questo, dove i necessari interventi congiunturali di sostegno all’economia devono essere accompagnati da riduzioni strutturali di spesa, per evitare disastri finanziari futuri.

I PROBLEMI DELLA RETE SCOLASTICA

Prendiamo, ad esempio, l'istruzione (altri ne seguiranno nelle prossime settimane). Non spendiamo poco in questo settore, al contrario la spesa per studente in Italia è del tutto in linea con quella degli altri paesi sviluppati: 2.971 dollari contro una media Ocse di 3.072, ma i risultati sono peggiori. La conclusione è che spendiamo male e che dobbiamo imparare a spendere meglio.
Un buon esempio è la condizione della rete scolastica, drammaticamente riportate alla ribalta dalla tragedia di Rivoli. Sulla rete incidono le competenze di più livelli di governo. Allo Stato compete la determinazione dei livelli fondamentali dei servizi, le Regioni hanno le competenze sulla rete delle scuole, comuni e province quelle sulla manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici scolastici. Una legge del 1996 attribuiva allo Stato anche un ruolo di finanziatore ad adiuvandum, attraverso l’assegnazione alle Regioni di appositi finanziamenti per l’edilizia scolastica, che queste, a loro volta, dovevano ripartire tra i propri enti locali. Per rendere più efficace la distribuzione delle risorse, la stessa legge prevedeva la predisposizione di un’Anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica, articolata per Regioni e continuamente aggiornata, diretta ad accertare le condizioni del relativo patrimonio.
Ma a dodici anni di distanza, l'Anagrafe non è ancora disponibile. Di più, lo Stato, pressato da problemi di bilancio, ha con il tempo ridotto i finanziamenti, dai 270 milioni di euro in media l’anno nel triennio 1996-98, ai 75 del periodo 2007-09. Regioni e altri enti locali hanno dunque dovuto far leva in misura crescente sulle proprie risorse, con la conseguenza, ovvia, che chi poteva contare su più denari propri ha speso di più, e gli altri di meno. Così, nel 2006, la spesa per l’edilizia scolastica degli enti locali del Centro-Nord per studente è all’incirca doppia di quella del Mezzogiorno: 350 euro al Nord e 182 al Sud.
Dunque, una classica storia di finanza pubblica italiana. Risorse scarse, rese ancora più scarse dal fatto che quando deve tagliare, lo Stato italiano è miope, sacrificando la spesa per il futuro, quella in conto capitale, per salvaguardare quella corrente. Risorse infine mal distribuite, per mancanza di strumenti di programmazione appropriati. Il sottosegretario Bertolaso, non si sa bene su quali basi, visto che l'Anagrafe non c'è, stima ora in 13 miliardi le risorse necessarie per mettere in sicurezza le scuole, 4 solo per quelle a più alto rischio. Ma quali che siano le esigenze vere, non c’è dubbio che sulla edilizia scolastica bisognerà investire. Dove trovare i soldi?

RISORSE DALLA RAZIONALIZZAZIONE

Intanto, si potrebbe cominciare con il chiudere i plessi inefficienti. Una ragione per cui le scuole italiane sono in cattivo stato è che sono troppe, circa 42mila, di cui quasi 6mila con meno di 100 studenti. Di più, la frammentazione della rete, conducendo a classi con pochi studenti, è responsabile, secondo le nostre stime, di circa un terzo dell’eccesso di personale per studente che caratterizza il nostro paese: circa il 40 per cento in più rispetto alla media dei paesi Ocse. Eliminare i plessi inefficienti consentirebbe dunque di liberare risorse importanti, che potrebbero essere reinvestite nel settore scolastico, a cominciare dall’edilizia. Ma come riuscirci?
Non certo imponendo, come originariamente previsto nella bozza del decreto Gelmini, di eliminare tutti i plessi con meno di 50 studenti. Intanto, perché non sappiamo se tutte quelle scuole siano veramente inefficienti. Inoltre, perché un’imposizione di questo tipo contrasta con le competenze che la nostra Costituzione assegna alle Regioni, che difatti si erano affrettate a ricorrere alla Corte costituzionale. Ma se solo si riuscisse a uniformare tra Regioni il numero di studenti per classe e di insegnanti per classe, portandolo al livello medio delle cinque Regioni migliori, si eliminerebbero 34.700 cattedre, con un risparmio superiore a 1 miliardo di euro. Spostando la decisione in merito all'iscrizione dal singolo istituto scolastico al distretto, cioè spostando tra scuole limitrofe gli studenti al margine, si potrebbero eliminare fino a 40mila cattedre tra medie e elementari, con un ulteriore risparmio di circa 1,2 miliardi di euro. E così via.
Come proposto dalla Commissione, la chiave di volta è in una più corretta gestione dei rapporti finanziari tra governi. Oggi, se un comune chiude una scuola, paga solo dei costi, soprattutto in termini di conflitti con le famiglie, i sindacati e altre forze locali. I benefici vanno invece interamente allo Stato centrale, sotto forma di minori spese per il personale. Non è dunque un caso che ogni ipotesi di razionalizzazione della rete incontri la più fiera resistenza da parte degli enti locali. Se si vuole davvero incentivare comportamenti più coerenti tra i diversi livelli di governo, è opportuno che parte dei benefici resti a disposizione dell’ente locale stesso, per poter essere reinvestiti nel settore scolastico.
In secondo luogo, lo Stato è obbligato solo a garantire il finanziamento del livello essenziale dei servizi, non di quelli in eccesso, che sono invece responsabilità delle Regioni. Nel caso della rete scolastica non sarebbe difficile, sfruttando le informazioni a disposizione del ministero dell’Istruzione, disegnare, sulla base di criteri di accessibilità da parte degli utenti, una mappa efficiente della organizzazione del servizio scolastico sul territorio, individuando quali plessi mantenere e quali invece sopprimere. Se la Regione, a cui spetta la competenza sulla rete, vuole mantenere invece plessi inefficienti, se ne assume la responsabilità, finanziando il relativo servizio con le proprie risorse. Costruire una simile mappa in modo accurato richiede sicuramente del tempo, circa un anno sulla base delle nostre stime, ma costituisce senz’altro una strada più razionale e politicamente più sostenibile di interventi indifferenziati, che poi, come si è visto, comunque non funzionano.







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