Filosofia, Agnes Heller a Torino alla scuola di alta formazione
Data: Domenica, 16 novembre 2008 ore 23:23:15 CET
Argomento: Rassegna stampa


La filosofia deve servire alla comprensione del presente: questa certezza, che le è stata trasmessa da Lukács con il quale ha collaborato a lungo, è l'unica alla quale Agnes Heller ha sempre aderito senza riserve. Per il resto, la sua è una riflessione segnata dalla profonda diffidenza verso ogni forma di assunto dogmatico. Una diffidenza che l'ha portata a criticare aspramente qualunque monopolio ideologico, costandole cara. Quando in Ungheria invocava un socialismo democratico pluralista contro «la dittatura sui bisogni» del socialismo realizzato si trovò a subire l'ostracismo del Partito comunista ungherese, che vedeva in lei e negli altri membri della Scuola di Budapest dei pericolosi sabotatori dell'integrità marxista-leninista. Quando poi scelse l'esilio in Australia e negli Stati Uniti, e abbandonò progressivamente le lenti del marxismo, le ricaddero addosso le critiche o il disinteresse dei suoi vecchi estimatori. Erano gli stessi che negli anni '70 riconoscevano l'importanza della sua teoria sulla necessità di trasformare le forme della vita quotidiana, prima ancora delle istituzioni politiche; e che poi hanno mal digerito la sua apertura alle procedure liberal-democratiche, finendo con l'accusarla in sostanza dello stesso «reato» che le venne imputato nel 1973 dal Comitato Centrale del Partito comunista: «indirizzo ideologico eclettico e piccolo-borghese». A dispetto dell'eclettismo che alcuni vorrebbero attribuirle, Agnes Heller è stata, invece, profondamente coerente, difendendo con costanza il ruolo «demitizzante» della filosofia, che deve contrapporre «all'ambiguità immaginosa della mitologia l'univocità dell'argomentazione razionale», e mettere in questione l'ovvio, proprio perché tale. È seguendo questa idea della filosofia come interrogazione del dato e come disposizione a trasformarlo, che Agnes Heller ha abbandonato la rivendicazione di un accesso privilegiato alla verità; e con questo a ogni aspettativa messianica. Non per accettare il presente ma per aprirsi al futuro, perché - sostiene - «ogni messia è un falso messia, che chiude l'orizzonte delle possibilità future». L'abbiamo incontrata a Budapest, nel suo appartamento pieno di libri e di storie, e con lei abbiamo discusso del suo lungo itinerario filosofico.

Nell'introduzione alla «Filosofia radicale» lei sostiene che, affinché possa dirsi «autentica», ogni filosofia deve presentare qualche elemento autobiografico. Anche il suo percorso filosofico, del resto, è segnato da un continuo andirivieni fra la dimensione biografica e quella teoretica.

Il libro che lei ricorda rappresenta una vera e propria dichiarazione d'amore nei confronti della filosofia, una filosofia che oggi chiameremmo metafisica, e che tuttavia ritengo di potere amare ancora, sebbene sia consapevole che non possano più presentarsi le condizioni che l'hanno resa possibile. Ed è vero, è anche un'opera autobiografica dal momento che tra la mia vita e la mia filosofia è sempre esistito un rapporto molto diretto e profondo. Ma di quel libro mi piace ricordare soprattutto il radicalismo: credo la filosofia radicale sia, in genere, una forma di politica che si ammanta di un abito filosofico; del resto, per principio, ogni filosofia è radicale. Lo è perché opponendosi al pensiero ordinario, ci indica che quanto crediamo vero non lo è affatto, e ciò che riteniamo giusto è solo un'opinione.

Il suo primo incontro con la filosofia è coinciso con il suo primo incontro con György Lukács, al quale è rimasta legata fino alla sua morte nel 1971. È vero che si è trattato di un incontro accidentale, perché all'epoca, nel 1947, lei desiderava diventare piuttosto una scienziata?

È vero. Ho incontrato la filosofia grazie al mio fidanzato di allora, che mi portò nell'aula dove Lukács insegnava: mi trovai a seguire una delle sue lezioni, mi sembra si trattasse di una lezione sulla filosofia della storia, da Kant a Hegel. Ammetto di non avere capito neanche una parola di quel che disse in quell'occasione Lukács; capii però che era estremamente importante, per me, riuscire a capire proprio quel che non capivo. Fu così che abbandonai le mie lezioni di fisica e cominciai a seguire quelle di filosofia di Lukács. Fu una vera e propria rivelazione.

Il 15 febbraio 1971 il «Times Literary Suplement» pubblicò una lettera in cui Lukács faceva riferimento alla scuola di Budapest, sostenendo che i suoi rappresentanti erano «i precursori della letteratura filosofica del futuro». Ci racconta qualcosa di come è nata la scuola di Budapest?

È stata niente altro che l'ultima scuola di Lukács, che essendo convinto di possedere la verità eterna, credeva che quella verità sarebbe potuta sopravvivere solo se una scuola ne avesse garantito la diffusione. Non è un caso che sin dalla sua giovinezza, e per tutto il corso della vita, Lukács abbia sempre voluto creare attorno a sé delle scuole. Mihàly Vajda, Ferenc Fehér, György Màrkus ed io rappresentavamo il cuore filosofico della scuola, ma eravamo prima di tutto un gruppo di amici che a partire dal 1963, e fino all'emigrazione di fine anni '70, rimase molto unito. Abbiamo sempre riconosciuto Lukács come nostro maestro, sebbene non siano mai mancati conflitti anche aspri. Vivevamo come una sorta di «ecclesia pressa» di cui Lukács era il sacerdote, e dunque guardavamo poco all'esterno. Il gruppo ha continuato a lavorare anche dopo la morte di Lukács, nel 1971, ma venuto meno il nostro centro focale i conflitti crebbero, finché decidemmo di «chiudere» la Scuola.

Nel 1973, con una risoluzione speciale il Partito comunista ungherese bandì la vostra scuola, impedendo ai suoi membri qualsiasi possibilità di insegnamento, di ricerca e di pubblicazione. Ci riassume qualche passaggio di quello che è stato definito come il «processo ai filosofi»?

È stato chiamato così ma non c'è mai stato un vero processo. Con quella risoluzione il Partito elencava i nostri peccati per concludere che non potevamo far parte di istituti o accademie scientifiche, perché le nostre posizioni si allontanavano pericolosamente dal marxismo-leninismo. Tutti si aspettavano che avremmo accettato le regole del gioco, partecipando a una discussione sulle nostre idee organizzata dal Partito all'Accademia delle Scienze, il cui risultato era deciso in anticipo. Scrivemmo invece una lettera in cui dichiaravamo che, siccome non si dà discussione privata di questioni filosofiche, avremmo accettato solo un dibattito aperto, mediato dai giornali.

Secondo Lukács uno dei compiti principali della Scuola di Budapest era quello di promuovere la rinascita del marxismo, dimenticando tutto quello che il marxismo era stato dopo Marx. Tuttavia, lei stessa una volta ha sostenuto che quella favorita dalla scuola di Budapest fu una rinascita piuttosto singolare, perché coincise con la «costante e sistematica distruzione del marxismo».

La scuola di Budapest era formata da persone molto diverse tra loro, ognuna con i propri interessi particolari. Màrkus, per esempio, inizialmente era interessato all'interpretazione di Marx, ma poi si dedicò all'epistemologia e alla teoria della cultura; Vajda si occupò di Husserl e di Merleau-Ponty, mentre io lavoravo alla teoria della «vita quotidiana» e ai problemi del Rinascimento. Nonostante questa diversità, in un certo senso vivevamo insieme, discutevamo continuamente gli scritti di ognuno con grande profitto, e l'amicizia molto forte che ci legava riusciva a ovviare alle nostre differenze. Tutti noi riconoscevamo la necessità di tornare alle radici del marxismo, ma le differenze erano legate proprio al significato da attribuire a questo ritorno, che per noi si allontanava molto da ciò che intendeva allora Lukács. Nonostante questo, la scuola sopravvisse, e credo di potere dire che in qualche modo Lukács stesse «dalla nostra parte» anche quando criticammo la sua interpretazione delle radici del marxismo e la sua ontologia delle scienze sociali. Il compito che ci assegnavamo era lo stesso, ma i modi in cui lo interpretammo furono completamente differenti.

Alcuni lamentano il fatto che oggi il marxismo sia stato relegato a poco più di un innocuo esercizio accademico, come fosse un semplice documento storico-archeologico, che non permetterebbe di comprendere meglio il presente e tanto meno di trasformarlo. Il suo parere qual è ?

Penso che non ci sia alcun futuro per gli ismi. Il marxismo è solo uno fra questi e, come lo strutturalismo e il funzionalismo, non avrà futuro, non nei prossimi venti o trent'anni,almeno. Questo non vuol dire che Karl Marx non fosse un genio, o che non si debba continuare a interpretarne i testi. Ma quando riconosciamo l'importanza dell'aspetto pratico della sua teoria al tempo stesso non dobbiamo dimenticare che molti altri filosofi possono rivendicarlo. Tutta la filosofia radicale del XIX secolo è orientata verso la dimensione pratica, e direi perfino che tutti i filosofi - da Platone a Leibniz - hanno desiderato esercitare una influenza anche politica.

Se assumiamo il suo punto di vista, secondo il quale «qualunque politica redentiva è incompatibile con la condizione politica postmoderna», allora dovremmo accettare «il meramente esistente» e la situazione presente come inalterabili? Oppure ritiene che ci sia ancora spazio per creare quella che lei ha chiamato «una utopia razionale»?

Dipende. Naturalmente la modernità va accettata. Non penso affatto che l'esistente sia necessario così com'è, ma riconosco che alcune cose sono impossibili, tanto l'abolizione del mercato quanto la libertà di creare istituzioni politiche o l'eliminazione della scienza e delle tecnologie. Tuttavia, all'interno di questo orizzonte sono ancora possibili rivoluzioni e transizioni: le rivoluzioni politiche sono frutto della stessa modernità, che ha creato sempre nuove forme politiche. Dunque, si può ancora agire, ma l'impossibile rimane impossibile.

Perciò sarebbero possibili delle trasformazioni all'interno delle coordinate già tracciate, ma non la costruzione di una società completamente «libera dal dominio», quella società che secondo lei è pensabile solo se crediamo alla chimera di una rivoluzione antropologica?

Una trasformazione antropologica - che forse non è impossibile ma molto improbabile - così com'è stata sognata da Kant e dallo stesso Marx parte dall'idea che ci sarà un tempo in cui l'uomo empirico e la specie umana verranno finalmente «riuniti», un tempo in cui ogni singola persona diventerà assolutamente buona e, dimenticando ogni elemento individualistico e particolaristico, finirà con l'assomigliare a Cristo. Da parte mia dubito innanzitutto che sia una prospettiva vivibile e desiderabile; se in tutta la storia del genere umano l'essenza umana è rimasta così com'è, perché dovrebbe improvvisamente cambiare durante la nostra particolare contingenza storica? Qual è il nostro privilegio? Chi e come ce lo avrebbe concesso? Sono domande che vanno affrontate.

Non a caso in «Oltre la giustizia» lei sostiene che «una società totalmente giusta è possibile ma non auspicabile». Ce lo spiega meglio?

Perché una società totalmente giusta, al di la della questione della sua realizzazione, non è auspicabile? Perché in una società simile nessuno potrebbe più dire «questo è ingiusto», il che ovviamente non è augurabile. Si tratterebbe di una società non dinamica, senza pluralismo delle opinioni, scontri e politica. È questo il mondo che vogliamo? Un mondo senza conflitti, un paradiso, un giardino dell'Eden? Non penso che vorremmo vivere in un posto simile, dunque non credo che una società totalmente giusta sia auspicabile.





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