HA ANCORA SENSO PUNTARE ALL’UNITA’ SINDACALE?
Data: Sabato, 15 novembre 2008 ore 18:06:46 CET
Argomento: Rassegna stampa


Articolo pubblicato su l’Unità il 25 ottobre 2008, nel primo numero della sua nuova serie

              Ha senso, oggi, auspicare l’“unità sindacale” come la si auspicava negli anni ’70?
              Potrebbe, forse, avere qualche senso se al tempo stesso indicassimo da che parte avrebbe dovuto stare l’ipotetico sindacato unitario nel 1984, quando il Governo Craxi pose le basi per il superamento della scala mobile; o nel 2001, quando Cisl e Uil firmarono da sole il contratto dei metalmeccanici e la Cgil lo rifiutò; o nel 2002, quando la stessa divisione si manifestò sul “Patto per l’Italia”, premessa per il varo della legge Biagi.

              Ma ipotizziamo pure che i dirigenti del nuovo sindacato unitario si accordino sulla posizione che esso avrebbe dovuto assumere in quei passati frangenti. Alla luce delle vicende più recenti sarebbe comunque agevole prevedere che la nuova organizzazione tornerebbe a dividersi, alla prima occasione, tra fautori di un sindacalismo più cooperativo, o addirittura partecipativo, e fautori di un sindacalismo più conflittuale; fra chi ritiene che il compito prioritario del sindacato oggi consista nel guidare i lavoratori nella valutazione dei piani industriali, nella scommessa sull’innovazione più promettente, per ottenere condizioni di lavoro migliori, e chi al contrario ritiene che il sindacato debba perseguire il massimo di sicurezza per i propri rappresentati, anche a costo di livelli retributivi più bassi.

              In un mio libretto di tre anni fa ho chiamato “alfa” il polo estremo del sindacalismo che concepisce il contratto di lavoro soltanto come una polizza assicurativa, “omega” il polo opposto del sindacalismo che lo concepisce essenzialmente come strumento di partecipazione del lavoratore nell’impresa (due prototipi astratti contrapposti, non esistenti nella realtà allo stato puro: ci sono alcuni sindacati più vicini all’uno e ce ne sono di più vicini all’altro). Il problema è che non si può stabilire a priori quale di questi due modelli, né quale mix fra di essi, costituisca il sindacalismo “migliore”. A seconda del contesto, e anche delle qualità dell’imprenditore-controparte, può essere più vantaggiosa per i lavoratori la linea d’azione cooperativa o quella conflittuale; la scelta della “scommessa comune” con l’imprenditore, con i maggiori rischi e i maggiori guadagni che può portare con sé, oppure la “polizza assicurativa”, con la certezza della copertura dal rischio, ma anche il “premio assicurativo” che i lavoratori pagano in termini di minor retribuzione. È sbagliato qualsiasi fondamentalismo, sia esso in senso “alfa” o in senso “omega”. E sarebbe sbagliato anche predicare a priori la scelta di una determinata posizione intermedia tra i due poli.

              Nell’economia attuale il sindacato è chiamato ancora al compito tradizionale di correggere le distorsioni del mercato del lavoro e a creare condizioni di sicurezza per tutti; ma, al tempo stesso, è chiamato anche al nuovo e difficile compito di guidare i lavoratori a sfruttare a proprio vantaggio un’evoluzione tecnologica sempre più rapida e una sempre più estesa concorrenza tra imprenditori sul fronte della domanda di lavoro. Quale dei due compiti debba assumere peso maggiore non si può stabilire una volta per tutte.

              Una cosa, però, è certa: il sistema di relazioni industriali migliore non può essere il nostro attuale, che favorisce la frammentazione dei sindacati, ma non consente il vero pluralismo, perché impone l’accordo tra tutti i sindacati per le scelte veramente innovative, così attribuendo a quelli minoritari un potere di veto. I lavoratori – e l’intera economia nazionale – possono trarre invece, probabilmente, il massimo vantaggio da un sistema nel quale visioni strategiche diverse e diversi modelli di sindacalismo, nell’intera gamma tra “alfa” e “omega”, possano confrontarsi e competere tra loro. Nel quale, dunque, a seconda delle circostanze congiunturali, della qualità delle controparti imprenditoriali, delle opportunità di innovazione disponibili, il sindacato sorretto dalla maggioranza dei consensi in un settore o in un’azienda possa compiere scelte più di tipo “alfa” o più di tipo “omega”; e di queste scelte diverse, compiute in diversi settori o aziende, si possano di volta in volta confrontare i risultati, in modo che le scelte future, emancipandosi dalle vecchie motivazioni ideologiche, possano diventare più pragmatiche e concretamente efficaci.              In questo ordine di idee, l’unità del movimento sindacale alla quale oggi dobbiamo puntare non consiste né nell’unificazione organica dei sindacati maggiori in un’unica grande confederazione, né in un patto di unità d’azione destinato a rompersi alla prima occasione di contrasto. Essa consiste invece nel riconoscimento reciproco tra i sindacati, nella rinuncia al potere di veto e, viceversa, nell’accettazione di una cornice di regole di democrazia sindacale che consentano un vero confronto e una utile competizione tra modelli e opzioni diverse.

              Se il negoziato in corso con le associazioni imprenditoriali portasse anche soltanto a questo, con la firma di tutte le confederazioni sindacali maggiori, sarebbe un passo avanti di enorme importanza.

 

 







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