Un Novecento senza guerra e senza lager
Data: Marted́, 11 novembre 2008 ore 15:10:10 CET
Argomento: Redazione


Elena Loewenthal è nata a Torino nel 1960. Lavora da anni sui testi della tradizione ebraica e traduce letteratura d'Israele, attività che le sono valse nel 1999 un premio speciale da parte del Ministero dei Beni Culturali. Collabora regolarmente con "La Stampa". Ha pubblicato insieme a Giulio Busi Mistica ebraica. Tutti testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo. Da anni sta inoltre lavorando per Adelphi all'edizione italiana dell'opera di Louis Ginzberg Le leggende degli ebrei, in sette volumi, di cui sono già usciti i primi quattro. Con I bottoni del signor Montefiore e altre storie ebraiche ha vinto il Premio Andersen nel 1997. Nel 2003 ha pubblicato le Fiabe Ebraiche e il suo primo romanzo Lo strappo dell'anima. Una storia vera con il quale ha vinto il premio Grinzane Cavour "giovane autore esordiente. Ha anche scritto L'Ebraismo spiegato ai miei figli, e Lettere agli amici non ebrei.Nel suo nuovo romanzo (Conta le stelle, se puoi, ed. Einaudi, pp. 264, € 17,50), Elena Loewenthal racconta con pietas affettuosa i centotrent’anni della grande famiglia patriarcale di Moise, albero fronzuto i cui rami si sporgeranno anche verso il Medio Oriente e le Americhe, o più semplicemente verso le campagne d’origine. Il tono è quello avvolgente della favola, con le sue iterazioni rassicuranti, le sottintese moralità. Con una frase ricorrente: «A dire più o meno il vero». Perché ogni memoria, anche la più fedele, consiste in una continua riscrittura, e anzi esige una elaborazione incessante, in cui la parte di reinvenzione non è meno essenziale, specie nel creare i miti fondativi di una famiglia.

Patriarca esuberante che a 70 anni vorrà partire volontario per la guerra, «Moisín» avrà vita lunghissima, due mogli, sei figli, innumerevoli nipoti e pronipoti, a prevalenza femminile. Sono proprio queste le figure che l’autrice ritrae con maggiore empatia: l’anello forte della catena, pazienti, costruttive, eppure capaci di scegliere e perseguire con fermezza la propria strada a dispetto dell’autorità paterna. Come l’avo, rivelano una notevole predisposizione al nomadismo e all’avventura, chi in Palestina a lanciarsi nelle sfide dei kibbutz nascenti, chi a tentare fortuna oltre Oceano, chi a curare l’anemia mediterranea in Sardegna.

Come in ogni saga famigliare, incontri fatali, amori imprevedibili, matrimoni, figli e tragedie improvvise si intrecciano e si compongono nel ritmo profondo che governa il respiro delle generazioni, nell’accettazione corale dei doni della vita. Dove gli accadimenti memorabili (Toscanini che dirige Wagner al Regio, i primi tram elettrici, il voto alle donne, l’arrivo del telefono) si mescolano al lessico famigliare (il gustoso impasto di ebraico e piemontese che Primo Levi ha fissato in Argon, il memorabile racconto del Sistema periodico) e alle abitudini che fanno l’identità di un clan: i nomignoli (Gambalesta, «i nonni del piroscafo»), i riti festivi, le gravidanze e gli svezzamenti, i bambini che giocano con i campioni di stoffa, le fedeli domestiche, l’albero di Natale che entra di straforo in casa Levi, le prime automobili che la primogenita di Moise guida con una passione quasi rabbiosa.

Ma fin qui resteremmo nelle convenzioni di un genere assai gradito ai lettori. Quello che dà al romanzo uno scatto speciale è l’invenzione di una Storia diversa, in cui quel brutto muso di «Mussolino», come lo chiama Moise, muore di uno «s-ciupún» nel 1924, poco dopo il delitto Matteotti, e addirittura nel 1938 (l’anno delle leggi razziali!) il re abdica e nasce la Repubblica. Niente guerra, niente deportazioni, niente lager. Nessuna camera a gas o fossa comune.

Nella nota finale, Elena Loewenthal dichiara di non aver voluto arrendersi alla verità della Storia, al silenzio dei morti innocenti. Ne ha immaginato un’altra, parzialmente inventata ma verosimile, come se non fosse successo quel che è successo, per non darla vinta alla morte, per restituire alle vittime la vita normale che non hanno potuto avere, per farle vivere ancora, tra di loro e insieme a noi. Espungere la Shoah dal racconto non significa rimuoverla, ma semmai sottolineare l’enormità dell’offesa, renderla ancora più intollerabile, obbligarci a non distogliere lo sguardo da altre famiglie Levi che con diverso nome le cronache dell’orrore globalizzato ci consegnano ogni giorno. Tra l’indicibile alterità della Shoah e la tranquilla dicibilità del quotidiano, scocca una scintilla che dà un senso nuovo e inatteso alla conta delle stelle nel cielo delle generazioni.







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