Decleva (Crui): su nuova governance degli atenei si può arrivare a una riforma condivisa
Data: Giovedì, 06 novembre 2008 ore 22:11:22 CET
Argomento: Rassegna stampa


UNIVERSITA’/ 1. Decleva (Crui): su nuova governance degli atenei si può arrivare a una riforma condivisa
INT. Enrico Decleva martedì 4 novembre 2008

Dopo l’emanazione del decreto è oltre tutto intervenuta la crisi finanziaria, determinando una situazione che renderà ancora più problematico trovare sostegni di entità adeguata ai fabbisogni. E i problemi che l’articolo di legge lascia aperti non sono d’altra parte pochi o di peso secondario. Evitiamo pure le demonizzazioni, ma evitiamo anche di venire accusati di lasciar cadere chissà quale occasione. L’abbiamo sentito da più parti: l’università subisce tagli perché se li merita, se vuole salvarsi deve autoriformarsi, se non si autoriforma è di nuovo colpa sua, della sua inefficienza e della sua incapacità di innovare, di adottare i provvedimenti legislativi che pure le sono messi a disposizione. E quindi è giusto procedere nella campagna in atto di discredito e, diciamo pure, di intimidazione. Ma questa è una deriva inaccettabile.

Quella delle fondazioni è in realtà oggi solo una fuga in avanti rispetto al nodo reale incombente e, questo sì, non eludibile, di definire un nuovo assetto della governance universitaria.

Cosa fare per riformare la governance degli atenei?

A questo scopo occorrerebbe mettere in atto un lavoro di serio approfondimento per individuare condizioni normative e finanziarie che consentano di procedere. Servono forme di governance delle università innovative rispetto alla normativa vigente, che ne incrementino l’accountability rompendo l’autoreferenzialità del sistema. In concreto si tratterebbe di porre pochi ma sostanziali vincoli lasciando poi alla autonoma autoregolamentazione degli atenei di definirne gli aspetti più specifici. Idee al riguardo cominciano d’altronde a circolare e non sarebbe impossibile arrivare anche abbastanza rapidamente a una piattaforma largamente condivisa.

La legge, inoltre, impone tagli severi all'università: esagera il governo nel tagliare i fondi, o hanno esagerato le università in questi anni a sperperare le risorse a disposizione?

Il governo sta esagerando, senza dubbio. I tagli previsti sul Fondo di finanziamento ordinario per il 2010, se si realizzeranno, non consentiranno neppure di coprire tutte le spese per il personale, che peraltro può essere retribuito solo attingendo a quel fondo. Arriveremmo in ogni caso alla situazione paradossale di avere persone che lavorano in università senza i mezzi per attuare quello che è lo specifico stesso dell’università: la ricerca, l’innovazione, la sperimentazione didattica, la formazione di nuovi ricercatori. Non parliamo di nuovi spazi o semplicemente di interventi di manutenzione, di nuove apparecchiature. Tutto diventerebbe impossibile. Non dimentichiamo che alle sue spalle l’università ha quasi un decennio di finanziamenti ridotti o comunque insufficienti rispetto all’incremento dei costi obbligatori. Molti tagli sono già stati eseguiti e non ci sono più (nel nostro caso specifico almeno) avanzi sui quali contare.

E per quanto riguarda le università che hanno sprecato risorse?

Che le università o alcune fra esse abbiano a loro volta esagerato, magari puntando su incrementi del FFO che non ci sono stati, è altrettanto vero. In singoli casi ci sono state imprudenze e sono mancati i controlli. Ma la spinta alla spesa è stata anche un effetto della normativa in vigore. Il triplo o doppio idoneo alle prove concorsuali è stato deliberato dal Parlamento. Ed è da lì che è venuta indubitabilmente la principale spinta alla crescita dei costi. Bisognava preoccuparsene per tempo, certamente. E in questo le università hanno le loro colpe. Altro fattore di crescita delle spese è stata la moltiplicazione di affidamenti e insegnamenti a contratto necessari (ma non sempre) ai nuovi corsi, a loro volta incrementati in maniera notevole. Ma, di nuovo, ce lo si poteva aspettare, dal momento che, pur di far partire la riforma, non si sono posti vincoli di nessun tipo alla proliferazione dei corsi e ai requisiti di docenza. L’ha fatto Mussi, ed è un merito che gli va riconosciuto. Ma con sei anni di ritardo rispetto all’avvio del “3 + 2”.

La critica principale sulla questione dei tagli è che si tratta di tagli lineari: in che modo e secondo quali criteri (che devono per forza di cose essere rigorosi) si possono distinguere le università più virtuose da quelle che hanno utilizzato male le risorse, per differenziare i tagli?

Il metodo del taglio lineare è il più semplice per chi lo pratica. Gli dà la certezza, perlomeno sulla carta, del risultato e gli evita di riconoscere delle priorità. Se l’università fosse stata considerata una priorità. avrebbe dovuto essere esentata dai tagli. Non è stato evidentemente così. A questo punto, ottenuto lo scopo dal punto di vista del ministero dell’Economia, si tratterà di vedere come i tagli previsti per l’università nella sua generalità verranno applicati. Non credo che abbia molto senso fare ipotesi al riguardo prima di conoscerne l’entità. Non illudiamoci in ogni caso che basti “punire” chi ha sgarrato per salvare o addirittura premiare i più virtuosi. In un modo o nell’altro il blocco del turn over in quei casi ci sarà, ma senza ripercussioni per il resto del sistema. Occorre per contro una riconsiderazione urgente del modello complessivo di finanziamento e delle sue regole. Trovando il modo di bloccare ogni possibilità di sforamenti futuri, ma prendendo anche atto del fatto che senza una riassegnazione al sistema dei tagli, il dissesto sarebbe alle porte per tutti, compresi i cosiddetti “virtuosi”.

Negli ultimi giorni si parla anche di possibili proteste "esemplari" da parte di alcuni rettori, tra cui addirittura l'ipotesi delle dimissioni: qual è il suo giudizio?

È vero, anche in sede di Conferenza dei Rettori si è parlato di dare le dimissioni o di mettere a disposizione il nostro mandato qualora i tagli previsti per il 2010 fossero mantenuti. Non sarebbe una fuga, ma un modo (se non se ne troveranno di più efficaci) di richiamare chi di dovere alle sue responsabilità. L’augurio è di non doverci arrivare, ovviamente, e che la situazione, nonostante tutto evolva positivamente.

Qual è invece il suo giudizio sulle proteste degli studenti?

Non è facile valutare un “movimento” ancora molto aurorale e composito, che, per quel che riguarda l’università, ha per il momento a disposizione come unici argomenti di riferimento quelli contenuti nelle manovre finanziarie: e quindi i tagli e la “privatizzazione”. Basteranno ad allargare i consensi? In funzione di quali obiettivi? Con quali ripercussioni sulla normale attività? Scatteranno altre motivazioni? Non dimentichiamo che ci sono gruppi che accettano le forme di rappresentanza previste e si organizzano in questa prospettiva e quelli che invece le rifiutano. Alcune iniziative tendenzialmente di rottura sono state prese nei giorni scorsi da questi ultimi. Non mi sento di fare previsioni. Il peggio che potrebbe capitarci è che l’università torni ad essere usata come terreno di scontro funzionale ad altre logiche. O che diventi un argomento del contendere fare o non fare lezione. Lascio sullo sfondo la preoccupazione maggiore, legata alle prospettive generali economico-sociali. I dati più recenti sull’occupazione dei nostri laureati a un anno dalla laurea sono decisamente confortanti. Ma sarà lo stesso l’anno prossimo? E con quali ripercussioni? E, d’altra parte, se non si potranno evitare i tagli, che tipo di servizi saremo in grado di offrire? L’augurio è che, proprio nel contesto a vario titolo critico nel quale ci troviamo, si riesca a recuperare all’istituzione universitaria credito, efficienza e credibilità: anche e in primo luogo nei confronti degli studenti.

UNIVERSITA'/ 2. Il circo mediatico fa tappa al Politecnico. Scene di una contestazione che non c’è
Redazione martedì 4 novembre 2008

Didattica sospesa, ieri, al Politecnico di Milano. Nessuna occupazione in corso però, né lezioni trasferite in piazza. I riflettori sono puntati sull’inaugurazione dell’anno accademico. Tema del giorno, neanche a dirlo, la legge 133 e le prospettive dell’università italiana. Al tavolo dei relatori manca però l’ospite più atteso, lo sfuggente ministro Gelmini, che ha dato forfait insieme ai colleghi Renato Schifani e Letizia Moratti, e che in un comunicato rivolto all’ateneo milanese ha parlato della necessità di «attuare riforme non di facciata e offrire segnali chiari di una volontà di rinnovamento», assumendo ad esempio positivo il «modello Politecnico».
Unico a non aver declinato l’invito, il governatore della Lombardia Roberto Formigoni, per il quale «non ci devono essere tagli indistinti ma bisogna distinguere le università inefficienti da quelle virtuose». Una linea condivisa dal rettore Ballio, già da tempo in prima linea sul fronte riformista.

Intanto all’esterno dell’aula magna circa trecento studenti di Lista Aperta (aderente al Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio) espone a chiare lettere su grandi striscioni la sua posizione, in sintonia con quella dello stesso Ballio: «Non serve uscire in piazza, bisogna entrare nel merito», «Finché avremo fondi a pioggia, sull'università non splenderà mai il sole», alcuni degli slogan più riusciti. Fondi in base al merito, differenziazione degli atenei, gestione libera del turn-over nelle università virtuose, diritto allo studio, sono i principali spunti di lavoro proposti dai rappresentanti.
Accanto, qualche decina di ricercatori del Politecnico manifesta il proprio dissenso, mentre nella vicina piazza della stazione Bovisa studenti di sinistra e collettivi si esprimono in forme di “assedio culturale”.

Ma è la sortita di uno studente di Azione Universitaria, rappresentante in Senato Accademico, a catalizzare l’attenzione dei media. Interrompendo l’intervento del rettore riesce a esporre per qualche momento la scritta “Voi baroni preoccupati, noi studenti disoccupati”, prima di essere allontanato dalle forze dell’ordine per finire dritto sotto le luci della ribalta: il suo è un “numero” perfetto per il circo mediatico che oggi fa tappa al Politecnico.

Alla protesta dei quattro studenti di destra vengono infatti assimilate le composte e meditate prese di posizione degli studenti di Lista Aperta, che negli articoli on-line diventano facili vittime di strumentalizzazioni: i loro manifestanti, nelle didascalie di Repubblica.it, passano per militanti di Azione Universitaria; chi sventola in Cattolica i tesserini al coro “Noi studiamo, non scioperiamo” è indicato da molti tg come “contestatore”. Non si capisce, o forse si capisce molto bene, fino a che punto si tratti di approssimazione, e fino a che punto di faziosità.

Una notizia, certa, c’è: con l’Onda della contestazione cresce anche l’onda della disinformazione. Un altro striscione recita bene: «La maggioranza è silenziosa se la si mette a tacere». Se la si travisa, però, si può fare anche peggio.
(Lorenzo Margiotta)

EDUCAZIONE/ Chiosso (Università di Torino): tante manifestazioni nel segno di una debolezza culturale
INT. Giorgio Chiosso lunedì 3 novembre 2008

Mondo della scuola in agitazione, scioperi, manifestazioni, piazze piene di gente. Il tutto, però, senza mai dire una parola sui veri nodi della questione educativa, che, invece, dovrebbero primariamente stare a cuore a chi vive nel mondo della scuola. È questa, secondo Giorgio Chiosso, ordinario di Storia dell’Educazione all’Università di Torino, la grande «debolezza» emersa dalle manifestazioni di questi giorni.

Professor Chiosso, che cosa ha a che fare l’emergenza educazione, da più parti riconosciuta come una delle priorità per il nostro Paese, con quello che è accaduto in questi giorni?

Io noto innanzitutto una carenza principale in tutta questa inquietudine che ha caratterizzato la protesta degli ultimi giorni, e cioè il fatto che sia stato dato un taglio esclusivamente “sindacal-politico”, mentre non sono stati messi a fuoco in alcun modo temi di rilevanza educativa: il ruolo della famiglia, il significato e il valore dell’insegnamento nella scuola, il ruolo della scuola in rapporto al bene comune e ai valori sociali. Tutti questi elementi, che sono poi le trame su cui si regge l’idea educativa, sono state escluse dal dibattito. Si è parlato solo di tagli, di posti di lavoro per i precari, di ipotetiche riduzioni del tempo-scuola: in altre parole, ci si è chiusi nell’immediatezza delle scelte pratiche, senza nessun tipo di riflessione profonda, che invece doveva essere prevista e messa a monte di tutto il dibattito. Una tale separazione tra le motivazioni di fondo e le conseguenze immediate è un segno forte dell’indebolimento dell’idea di educazione, che è poi segno, più ampiamente, di una generale debolezza culturale.

Cosa pensa invece delle motivazioni concrete su cui si sono mosse le proteste del mondo della scuola?
Mi sembra che la gente cammini sul crinale di uno strapiombo e non se ne renda conto. Oltre alla debolezza educativa, infatti, abbiamo anche una debolezza scolastica intrinseca. Mi pare, infatti, che sia evidente l’urgenza di una forte riflessione sul rapporto tra costi e rendimento qualitativo della scuola. Non si può solo sostenere l’aumento del numero degli insegnanti, o combattere contro ogni ridimensionamento del personale. Prendiamo la questione dell’insegnamento elementare: non c’è nessuna ricerca scientifica che possa dimostrare che il team dei maestri abbia dato risultati migliori rispetto al maestro prevalente o al maestro unico. Le tesi di coloro che difendono la pluralità dei maestri, dicendo che la nostra scuola elementare è una fra le migliori d’Europa, non hanno alcun fondamento, perché è dimostrato da un punto di vista scientifico che la situazione era tale già alla metà degli anni Sessanta. Tradizionalmente la nostra scuola elementare ha dato ottimi risultati, quando ancora nelle nostre scuole c’erano maestri davvero unici, con classi mediamente di trenta-trentacinque alunni. Del resto sappiamo anche in Europa nessun Paese ha il team di insegnanti, e che questa è un’eccezione puramente italiana.
Qual è la sua posizione in merito alla reintroduzione del maestro unico o prevalente?

Io sono convinto che fino alla terza classe elementare sia molto più indicato un maestro prevalente, cioè una figura centrale nell’attività e nella giornata dei bambini. Dalla quarta classe potrebbe esserci anche l’alternanza: una certa forma di specializzazione disciplinare che caratterizza le classi avanzate può portare a distinguere tra maestri più adatti all’insegnamento scientifico-matematico e altri più portati all’insegnamento linguistico e storico-geografico. Ma fino alla terza questo mi sembra controindicato. Questa è la mia opinione, basata per lo più sull’esperienza; non ci sono infatti criteri scientifici oggettivi per dire che sia meglio l’uno o l’altra scelta. È l’esperienza a dirci questo. Aggiungo che in parte con la riforma Moratti si era già andati in questa direzione, introducendo la figura del maestro tutor fino alla terza, per poi dare più articolazione in quarta e quinta.
Vediamo invece i punti critici nell’azione del governo sul tema scuola: cosa c’è da rivedere?

La prima cosa di cui deve rendersi conto il governo è che i veri problemi della scuola italiana non sono certo quelli affrontati in queste settimane. Quale che sia l’opinione sul maestro unico, non è certo a livello delle elementari che la nostra situazione è problematica: i problemi sono i 900 tipi di maturità diverse, il rapporto tra formazione professionale e liceale, il numero di soggetti che subiscono ancora la dispersione scolastica, il rapporto tra istruzione secondaria e inizio dell’università, la valutazione degli insegnanti. Questi sono i punti che non siamo ancora riusciti a risolvere nel nostro paese. Io capisco che non si possa far tutto insieme; però bisogna dire che quello che finora si è fatto non è stato inquadrato in una visione complessiva. In particolare, quello che non si capisce è se questo governo intenda o meno riprendere in mano realmente il discorso impostato dalla legge Moratti: lì sì che c’era un grande impianto riformistico che andrebbe rilanciato. Invece ho l’impressione che la Gelmini sia stata un po’ vittima dell’effetto Fioroni: non fare grandi promesse, per non impressionare il mondo degli insegnanti. Invece ha ottenuto l’effetto contrario: non avendo dato l’idea di avere un progetto complessivo, ha fatto sì che emergesse solo l’aspetto dei tagli.

Qual è l’aspetto centrale della riforma Moratti che secondo lei andrebbe rilanciato?

L’elemento centrale della riforma Moratti è il rapporto fra canale professionale e canale liceale. Questo era il cuore della riforma: dare piena dignità a entrambi i canali, creando quello che in Italia non c’è mai stato, cioè una cultura del lavoro che abbia pari dignità rispetto alla cultura del sapere teorico. Questo, da un punto di vista pratico, implica poi il fatto di comprendere e realizzare bene il rapporto tra Stato e Regioni; e da questo punto di vista l’impostazione data dalla Regione Lombardia mi sembra un modello molto interessante. Bisogna dunque reimpostare la scuola secondaria articolandola intorno a due grandi poli: la scuola liceale, che ha un suo valore che va assolutamente salvaguardato; e il canale professionale, a cui va data tutta l’importanza che gli spetta.

Qual è l’ostacolo principale su questa strada?

L’idea vetero-marxista, diffusissima in ampi strati dell’opinione pubblica italiana, secondo cui l’egualitarismo significa che tutti facciano indistintamente le stesse cose, e che solo così si evitano le ingiustizie. Chi sostiene questa idea dovrebbe andare a vedere quello che accade negli altri paesi, come Germania, Inghilterra e Francia, dove il concetto di equità si costruisce proprio intorno al concetto di personalizzazione, basata sull’evidenza che i ragazzi a una certa età hanno diverse intenzioni e interessi. Il problema è superare schemi ideologici: ad esempio, in Italia è quasi tabù parlare di eccellenza. Gli altri paesi invece coltivano le loro eccellenze. E io non credo che le eccellenze nascano solo nelle case degli avvocati e dei medici: il problema è proprio quello di andare a scoprire che nascono anche nelle case degli impiegati e degli operai. In Inghilterra, è stato un governo di centrosinistra come quello di Blair che ha fatto una forte campagna per sostenere le eccellenze.

Un’ultima questione: la libertà di educazione. Che ruolo può avere questo tema all’interno di un progetto generale di rilancio del sistema scolastico?

Anche questo problema in Italia è condizionato da letture ideologiche, da cui non riusciamo ad uscire. C’è ancora un’idea di pubblico che coincide con statale; è un modo di pensare antico e sbagliato, superato dai fatti. Il futuro si incaricherà di dirci che il sistema scolastico per sua natura deve essere pluralistico, e necessariamente collegato alle realtà territoriali e alle famiglie. Anche il federalismo, da questo punto di vista, deve essere bene inteso, e non deve diventare un nuovo centralismo regionalistico. Dobbiamo fare in modo che la scuola tutta, statale e non statale, lavori in un clima di grande libertà, e di rapporto con il mondo che le è circostante. Questa dovrebbe essere la strategia anche del mondo cattolico: la difesa di un vero principio di sussidiarietà, che deve subentrare a alla figura dello Stato che vede e provvede in ogni direzione.
UNIVERSITA'/ Modello inglese: un sistema statale, ma di successo. Qual è il segreto?
Emanuele Bracco mercoledì 5 novembre 2008

L’Università in Inghilterra è per la quasi totalità statale, eppure è tra le migliori al mondo: le migliori università inglesi sono seconde solo alle inarrivabili università americane dell’Ivy League. Qual è il loro segreto? I fattori sono molti e collegati. Proviamo punto per punto a vederne gli aspetti di forza e di debolezza.

Gli studenti. Prima di tutto la selezione degli studenti. In una società tendenzialmente classista come quella inglese, gli studenti non fanno eccezione. Durante l’ultimo anno di liceo ogni studente fa domanda per un certo numero di università (ma o Oxford o Cambridge, per placare un po’ l’antagonismo tra i due atenei), e spera di essere accettato. Gli studenti migliori vanno nelle università migliori, e troveranno lavori migliori. Gli studenti mediocri, andranno a fare lavori mediocri. È impressionante vedere ad esempio quanti dei politici inglesi abbiano studiato PPE (Politics, Philosophy and Economics) a Oxford. Una lista (non esauriente) contiene Tony Blair, Jack Straw (ministro della Giustizia), David Cameron (capo dell’opposizione), George Osborne (ministro ombra dell’economia). Il problema si sposta quindi a come vengono valutati gli studenti: tendenzialmente sul voto degli esami di maturità, tutti scritti, e fatti in modo che a correggere ciascuno scritto siano due professori presi “a caso” su tutto il territorio nazionale. Questo rende un po’ più oggettivi i risultati, anche se ovviamente la casualità rimane, e avere una brutta maturità può veramente comportare conseguenze importanti per il resto della vita. Oxford e Cambridge ovviano a questa “rischiosità” del voto di maturità con colloqui individuali.

Le assunzioni. Come direbbe il nostro amico Brunetta “è il mercato, baby”. I migliori professori sono assunti dalle università migliori, che sono quelle in grado di offrire salari più alti. E all’interno della stessa facoltà professori di pari grado possono avere stipendi molto diversi fra loro (e che magari arrivano fino a 200.000 sterline all’anno). Le università con meno soldi possono ad esempio cercare di intercettare i “giovani talenti”, gli astri nascenti non ancora troppo cari, ma sicuramente promettenti ed in grado di produrre ricerca di alto livello. Certo è che lo studente modello, che andrà alle università migliori, riceverà un insegnamento di livello molto più alto, e sarà circondato da colleghi di pari livello, costruendo così utili relazioni per la propria vita professionale. Per contro, tendenzialmente nessuno viene bocciato. Non si possono rifiutare i voti. Gli esami si fanno una volta sola, a giugno (o a gennaio e giugno, a seconda delle università), e chi prende un’insufficienza può ripetere l’esame a settembre. Questo significa niente fuori corso e bassissima dispersione.

Le rette. L’università inglese, per le famiglie, è piuttosto economica. Fino a qualche anno fa la retta era di 1100 sterline all’anno (1500 euro circa) per tutti. Ora lo Stato ha permesso ad alcune università di alzare le rette, che possono arrivare fino a 3000 sterline (4000 euro). Per contro gli studenti possono avere facilmente accesso agli “students’ loan”, prestiti fatti apposta per finanziare la vita degli studenti, che lasciano la casa dei genitori a 18 anni tendenzialmente per non ritornarvi. Lo Stato per ogni studente ci mette del suo: circa 8000 sterline di finanziamento. La particolarità è che gli studenti extracomunitari, che non hanno quindi teoricamente finanziato con le tasse i finanziamenti dello Stato, pagano rette molto più alte: fino a 12.000 sterline l’anno (circa 16.000 euro). Questo vuol dire che i molti studenti cinesi, indiani, pachistani e quant’altro, hanno un ruolo fondamentale nel far pareggiare i bilanci. Ecco perché Oxford qualche anno fa ha deciso di aumentare la quota di extracomunitari per far quadrare i conti. E spesso (almeno per università come Oxford) questi studenti sono studenti di altissimo livello, provenienti dalle classi dirigenti di paesi ex-coloniali (tra tutti, il figlio di Benazir Bhutto a Oxford, ma anche sempre più figli di “oligarchi” russi).

I finanziamenti statali. Ogni tre anni ogni dipartimento universitario è visitato da una piccola truppa di professori di altre università, assoldata da un’autorità indipendente del Ministero dell’Educazione, che dà una pagella alla qualità della ricerca dell’insegnamento ed emette un voto, da 1 a 5 (con 5* per le università di eccellenza). Questo voto è dato in base a parametri oggettivi della qualità della ricerca. Il 30% dei finanziamenti statali dipenderà da questa valutazione. Tutti i dottorandi sanno che se cercheranno lavoro l’anno in cui questo “esame” sta per arrivare, sarà molto più difficile trovarlo: le università, per tenere alto il proprio punteggio, non vorranno assumere giovani senza pubblicazioni o quasi. Questo sistema si è rivelato molto efficiente, anche se ovviamente può generare qualche distorsione. I dipartimenti, proprio come ogni studente, potrebbero puntare a massimizzare il proprio voto piuttosto che la propria qualità. Ad esempio privilegiando risultati di breve periodo a fronte di investimenti più lungimiranti. Inoltre le ricerche al di fuori del mainstream, che non vengono pubblicate nei principali giornali della scienza “ortodossa” potrebbero essere svantaggiate (e su questo si può discutere se sia un bene o sia un male).

Gli altri finanziamenti. E poi ci sono i privati. La banca svizzera UBS co-finanzia un centro di ricerca della London School of Economics, così come la Toyota, danno finanziamenti ingenti.

E questi sono solo due piccoli esempi. Senza di questi le università inglesi difficilmente riuscirebbero ad essere all’altezza di quelle americane. Un'ulteriore fonte di finanziamento, che rende unico il caso inglese, è l’enorme patrimonio immobiliare e fondiario delle due più antiche università britanniche: Oxford e Cambridge. Secoli di lasciti e donazioni hanno creato un patrimonio immenso, che regge le finanze di queste istituzioni. Da ultimo c’è una fonte di finanziamento indiretta: il senso di appartenenza. Una volta usciti da un'università ci si sentirà sempre legati ad essa, e se il successo arrivasse, non sarebbe strano pensare di “dare indietro” qualcosa all’istituzione. Sotto forma di borse di studio (il fondatore di Easyjet alla London School of Economics, per citarne uno), o magari facendosi intitolare un’aula, uno studentato, un edificio.







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