UNIVERSITA’/ 1. Decleva (Crui): su nuova governance degli
atenei si può arrivare a una riforma condivisa
INT. Enrico Decleva martedì 4 novembre 2008
Dopo l’emanazione del decreto è oltre tutto intervenuta la crisi finanziaria,
determinando una situazione che renderà ancora più problematico trovare sostegni
di entità adeguata ai fabbisogni. E i problemi che l’articolo di legge lascia
aperti non sono d’altra parte pochi o di peso secondario. Evitiamo pure le
demonizzazioni, ma evitiamo anche di venire accusati di lasciar cadere chissà
quale occasione. L’abbiamo sentito da più parti: l’università subisce tagli
perché se li merita, se vuole salvarsi deve autoriformarsi, se non si
autoriforma è di nuovo colpa sua, della sua inefficienza e della sua incapacità
di innovare, di adottare i provvedimenti legislativi che pure le sono messi a
disposizione. E quindi è giusto procedere nella campagna in atto di discredito
e, diciamo pure, di intimidazione. Ma questa è una deriva inaccettabile.
Quella delle fondazioni è in realtà oggi solo una fuga in avanti rispetto al
nodo reale incombente e, questo sì, non eludibile, di definire un nuovo assetto
della governance universitaria.
Cosa fare per riformare la governance degli atenei?
A questo scopo occorrerebbe mettere in atto un lavoro di serio approfondimento
per individuare condizioni normative e finanziarie che consentano di procedere.
Servono forme di governance delle università innovative rispetto alla normativa
vigente, che ne incrementino l’accountability rompendo l’autoreferenzialità del
sistema. In concreto si tratterebbe di porre pochi ma sostanziali vincoli
lasciando poi alla autonoma autoregolamentazione degli atenei di definirne gli
aspetti più specifici. Idee al riguardo cominciano d’altronde a circolare e non
sarebbe impossibile arrivare anche abbastanza rapidamente a una piattaforma
largamente condivisa.
La legge, inoltre, impone tagli severi all'università: esagera il governo nel
tagliare i fondi, o hanno esagerato le università in questi anni a sperperare le
risorse a disposizione?
Il governo sta esagerando, senza dubbio. I tagli previsti sul Fondo di
finanziamento ordinario per il 2010, se si realizzeranno, non consentiranno
neppure di coprire tutte le spese per il personale, che peraltro può essere
retribuito solo attingendo a quel fondo. Arriveremmo in ogni caso alla
situazione paradossale di avere persone che lavorano in università senza i mezzi
per attuare quello che è lo specifico stesso dell’università: la ricerca,
l’innovazione, la sperimentazione didattica, la formazione di nuovi ricercatori.
Non parliamo di nuovi spazi o semplicemente di interventi di manutenzione, di
nuove apparecchiature. Tutto diventerebbe impossibile. Non dimentichiamo che
alle sue spalle l’università ha quasi un decennio di finanziamenti ridotti o
comunque insufficienti rispetto all’incremento dei costi obbligatori. Molti
tagli sono già stati eseguiti e non ci sono più (nel nostro caso specifico
almeno) avanzi sui quali contare.
E per quanto riguarda le università che hanno sprecato risorse?
Che le università o alcune fra esse abbiano a loro volta esagerato, magari
puntando su incrementi del FFO che non ci sono stati, è altrettanto vero. In
singoli casi ci sono state imprudenze e sono mancati i controlli. Ma la spinta
alla spesa è stata anche un effetto della normativa in vigore. Il triplo o
doppio idoneo alle prove concorsuali è stato deliberato dal Parlamento. Ed è da
lì che è venuta indubitabilmente la principale spinta alla crescita dei costi.
Bisognava preoccuparsene per tempo, certamente. E in questo le università hanno
le loro colpe. Altro fattore di crescita delle spese è stata la moltiplicazione
di affidamenti e insegnamenti a contratto necessari (ma non sempre) ai nuovi
corsi, a loro volta incrementati in maniera notevole. Ma, di nuovo, ce lo si
poteva aspettare, dal momento che, pur di far partire la riforma, non si sono
posti vincoli di nessun tipo alla proliferazione dei corsi e ai requisiti di
docenza. L’ha fatto Mussi, ed è un merito che gli va riconosciuto. Ma con sei
anni di ritardo rispetto all’avvio del “3 + 2”.
La critica principale sulla questione dei tagli è che si tratta di tagli
lineari: in che modo e secondo quali criteri (che devono per forza di cose
essere rigorosi) si possono distinguere le università più virtuose da quelle che
hanno utilizzato male le risorse, per differenziare i tagli?
Il metodo del taglio lineare è il più semplice per chi lo pratica. Gli dà la
certezza, perlomeno sulla carta, del risultato e gli evita di riconoscere delle
priorità. Se l’università fosse stata considerata una priorità. avrebbe dovuto
essere esentata dai tagli. Non è stato evidentemente così. A questo punto,
ottenuto lo scopo dal punto di vista del ministero dell’Economia, si tratterà di
vedere come i tagli previsti per l’università nella sua generalità verranno
applicati. Non credo che abbia molto senso fare ipotesi al riguardo prima di
conoscerne l’entità. Non illudiamoci in ogni caso che basti “punire” chi ha
sgarrato per salvare o addirittura premiare i più virtuosi. In un modo o
nell’altro il blocco del turn over in quei casi ci sarà, ma senza ripercussioni
per il resto del sistema. Occorre per contro una riconsiderazione urgente del
modello complessivo di finanziamento e delle sue regole. Trovando il modo di
bloccare ogni possibilità di sforamenti futuri, ma prendendo anche atto del
fatto che senza una riassegnazione al sistema dei tagli, il dissesto sarebbe
alle porte per tutti, compresi i cosiddetti “virtuosi”.
Negli ultimi giorni si parla anche di possibili proteste "esemplari" da parte di
alcuni rettori, tra cui addirittura l'ipotesi delle dimissioni: qual è il suo
giudizio?
È vero, anche in sede di Conferenza dei Rettori si è parlato di dare le
dimissioni o di mettere a disposizione il nostro mandato qualora i tagli
previsti per il 2010 fossero mantenuti. Non sarebbe una fuga, ma un modo (se non
se ne troveranno di più efficaci) di richiamare chi di dovere alle sue
responsabilità. L’augurio è di non doverci arrivare, ovviamente, e che la
situazione, nonostante tutto evolva positivamente.
Qual è invece il suo giudizio sulle proteste degli studenti?
Non è facile valutare un “movimento” ancora molto aurorale e composito, che, per
quel che riguarda l’università, ha per il momento a disposizione come unici
argomenti di riferimento quelli contenuti nelle manovre finanziarie: e quindi i
tagli e la “privatizzazione”. Basteranno ad allargare i consensi? In funzione di
quali obiettivi? Con quali ripercussioni sulla normale attività? Scatteranno
altre motivazioni? Non dimentichiamo che ci sono gruppi che accettano le forme
di rappresentanza previste e si organizzano in questa prospettiva e quelli che
invece le rifiutano. Alcune iniziative tendenzialmente di rottura sono state
prese nei giorni scorsi da questi ultimi. Non mi sento di fare previsioni. Il
peggio che potrebbe capitarci è che l’università torni ad essere usata come
terreno di scontro funzionale ad altre logiche. O che diventi un argomento del
contendere fare o non fare lezione. Lascio sullo sfondo la preoccupazione
maggiore, legata alle prospettive generali economico-sociali. I dati più recenti
sull’occupazione dei nostri laureati a un anno dalla laurea sono decisamente
confortanti. Ma sarà lo stesso l’anno prossimo? E con quali ripercussioni? E,
d’altra parte, se non si potranno evitare i tagli, che tipo di servizi saremo in
grado di offrire? L’augurio è che, proprio nel contesto a vario titolo critico
nel quale ci troviamo, si riesca a recuperare all’istituzione universitaria
credito, efficienza e credibilità: anche e in primo luogo nei confronti degli
studenti.
UNIVERSITA'/ 2. Il circo mediatico fa tappa al Politecnico. Scene di una
contestazione che non c’è
Redazione martedì 4 novembre 2008
Didattica sospesa, ieri, al Politecnico di Milano. Nessuna occupazione in corso
però, né lezioni trasferite in piazza. I riflettori sono puntati
sull’inaugurazione dell’anno accademico. Tema del giorno, neanche a dirlo, la
legge 133 e le prospettive dell’università italiana. Al tavolo dei relatori
manca però l’ospite più atteso, lo sfuggente ministro Gelmini, che ha dato
forfait insieme ai colleghi Renato Schifani e Letizia Moratti, e che in un
comunicato rivolto all’ateneo milanese ha parlato della necessità di «attuare
riforme non di facciata e offrire segnali chiari di una volontà di
rinnovamento», assumendo ad esempio positivo il «modello Politecnico».
Unico a non aver declinato l’invito, il governatore della Lombardia Roberto
Formigoni, per il quale «non ci devono essere tagli indistinti ma bisogna
distinguere le università inefficienti da quelle virtuose». Una linea condivisa
dal rettore Ballio, già da tempo in prima linea sul fronte riformista.
Intanto all’esterno dell’aula magna circa trecento studenti di Lista Aperta
(aderente al Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio) espone a chiare
lettere su grandi striscioni la sua posizione, in sintonia con quella dello
stesso Ballio: «Non serve uscire in piazza, bisogna entrare nel merito», «Finché
avremo fondi a pioggia, sull'università non splenderà mai il sole», alcuni degli
slogan più riusciti. Fondi in base al merito, differenziazione degli atenei,
gestione libera del turn-over nelle università virtuose, diritto allo studio,
sono i principali spunti di lavoro proposti dai rappresentanti.
Accanto, qualche decina di ricercatori del Politecnico manifesta il proprio
dissenso, mentre nella vicina piazza della stazione Bovisa studenti di sinistra
e collettivi si esprimono in forme di “assedio culturale”.
Ma è la sortita di uno studente di Azione Universitaria, rappresentante in
Senato Accademico, a catalizzare l’attenzione dei media. Interrompendo
l’intervento del rettore riesce a esporre per qualche momento la scritta “Voi
baroni preoccupati, noi studenti disoccupati”, prima di essere allontanato dalle
forze dell’ordine per finire dritto sotto le luci della ribalta: il suo è un
“numero” perfetto per il circo mediatico che oggi fa tappa al Politecnico.
Alla protesta dei quattro studenti di destra vengono infatti assimilate le
composte e meditate prese di posizione degli studenti di Lista Aperta, che negli
articoli on-line diventano facili vittime di strumentalizzazioni: i loro
manifestanti, nelle didascalie di Repubblica.it, passano per militanti di Azione
Universitaria; chi sventola in Cattolica i tesserini al coro “Noi studiamo, non
scioperiamo” è indicato da molti tg come “contestatore”. Non si capisce, o forse
si capisce molto bene, fino a che punto si tratti di approssimazione, e fino a
che punto di faziosità.
Una notizia, certa, c’è: con l’Onda della contestazione cresce anche l’onda
della disinformazione. Un altro striscione recita bene: «La maggioranza è
silenziosa se la si mette a tacere». Se la si travisa, però, si può fare anche
peggio.
(Lorenzo Margiotta)
EDUCAZIONE/ Chiosso (Università di Torino): tante manifestazioni nel segno di
una debolezza culturale
INT. Giorgio Chiosso lunedì 3 novembre 2008
Mondo della scuola in agitazione, scioperi, manifestazioni, piazze piene di
gente. Il tutto, però, senza mai dire una parola sui veri nodi della questione
educativa, che, invece, dovrebbero primariamente stare a cuore a chi vive nel
mondo della scuola. È questa, secondo Giorgio Chiosso, ordinario di Storia
dell’Educazione all’Università di Torino, la grande «debolezza» emersa dalle
manifestazioni di questi giorni.
Professor Chiosso, che cosa ha a che fare l’emergenza educazione, da più parti
riconosciuta come una delle priorità per il nostro Paese, con quello che è
accaduto in questi giorni?
Io noto innanzitutto una carenza principale in tutta questa inquietudine che ha
caratterizzato la protesta degli ultimi giorni, e cioè il fatto che sia stato
dato un taglio esclusivamente “sindacal-politico”, mentre non sono stati messi a
fuoco in alcun modo temi di rilevanza educativa: il ruolo della famiglia, il
significato e il valore dell’insegnamento nella scuola, il ruolo della scuola in
rapporto al bene comune e ai valori sociali. Tutti questi elementi, che sono poi
le trame su cui si regge l’idea educativa, sono state escluse dal dibattito. Si
è parlato solo di tagli, di posti di lavoro per i precari, di ipotetiche
riduzioni del tempo-scuola: in altre parole, ci si è chiusi nell’immediatezza
delle scelte pratiche, senza nessun tipo di riflessione profonda, che invece
doveva essere prevista e messa a monte di tutto il dibattito. Una tale
separazione tra le motivazioni di fondo e le conseguenze immediate è un segno
forte dell’indebolimento dell’idea di educazione, che è poi segno, più
ampiamente, di una generale debolezza culturale.
Cosa pensa invece delle motivazioni concrete su cui si sono mosse le proteste
del mondo della scuola?
Mi sembra che la gente cammini sul crinale di uno strapiombo e non se ne renda
conto. Oltre alla debolezza educativa, infatti, abbiamo anche una debolezza
scolastica intrinseca. Mi pare, infatti, che sia evidente l’urgenza di una forte
riflessione sul rapporto tra costi e rendimento qualitativo della scuola. Non si
può solo sostenere l’aumento del numero degli insegnanti, o combattere contro
ogni ridimensionamento del personale. Prendiamo la questione dell’insegnamento
elementare: non c’è nessuna ricerca scientifica che possa dimostrare che il team
dei maestri abbia dato risultati migliori rispetto al maestro prevalente o al
maestro unico. Le tesi di coloro che difendono la pluralità dei maestri, dicendo
che la nostra scuola elementare è una fra le migliori d’Europa, non hanno alcun
fondamento, perché è dimostrato da un punto di vista scientifico che la
situazione era tale già alla metà degli anni Sessanta. Tradizionalmente la
nostra scuola elementare ha dato ottimi risultati, quando ancora nelle nostre
scuole c’erano maestri davvero unici, con classi mediamente di
trenta-trentacinque alunni. Del resto sappiamo anche in Europa nessun Paese ha
il team di insegnanti, e che questa è un’eccezione puramente italiana.
Qual è la sua posizione in merito alla reintroduzione del maestro unico o
prevalente?
Io sono convinto che fino alla terza classe elementare sia molto più indicato un
maestro prevalente, cioè una figura centrale nell’attività e nella giornata dei
bambini. Dalla quarta classe potrebbe esserci anche l’alternanza: una certa
forma di specializzazione disciplinare che caratterizza le classi avanzate può
portare a distinguere tra maestri più adatti all’insegnamento
scientifico-matematico e altri più portati all’insegnamento linguistico e
storico-geografico. Ma fino alla terza questo mi sembra controindicato. Questa è
la mia opinione, basata per lo più sull’esperienza; non ci sono infatti criteri
scientifici oggettivi per dire che sia meglio l’uno o l’altra scelta. È
l’esperienza a dirci questo. Aggiungo che in parte con la riforma Moratti si era
già andati in questa direzione, introducendo la figura del maestro tutor fino
alla terza, per poi dare più articolazione in quarta e quinta.
Vediamo invece i punti critici nell’azione del governo sul tema scuola: cosa c’è
da rivedere?
La prima cosa di cui deve rendersi conto il governo è che i veri problemi della
scuola italiana non sono certo quelli affrontati in queste settimane. Quale che
sia l’opinione sul maestro unico, non è certo a livello delle elementari che la
nostra situazione è problematica: i problemi sono i 900 tipi di maturità
diverse, il rapporto tra formazione professionale e liceale, il numero di
soggetti che subiscono ancora la dispersione scolastica, il rapporto tra
istruzione secondaria e inizio dell’università, la valutazione degli insegnanti.
Questi sono i punti che non siamo ancora riusciti a risolvere nel nostro paese.
Io capisco che non si possa far tutto insieme; però bisogna dire che quello che
finora si è fatto non è stato inquadrato in una visione complessiva. In
particolare, quello che non si capisce è se questo governo intenda o meno
riprendere in mano realmente il discorso impostato dalla legge Moratti: lì sì
che c’era un grande impianto riformistico che andrebbe rilanciato. Invece ho
l’impressione che la Gelmini sia stata un po’ vittima dell’effetto Fioroni: non
fare grandi promesse, per non impressionare il mondo degli insegnanti. Invece ha
ottenuto l’effetto contrario: non avendo dato l’idea di avere un progetto
complessivo, ha fatto sì che emergesse solo l’aspetto dei tagli.
Qual è l’aspetto centrale della riforma Moratti che secondo lei andrebbe
rilanciato?
L’elemento centrale della riforma Moratti è il rapporto fra canale professionale
e canale liceale. Questo era il cuore della riforma: dare piena dignità a
entrambi i canali, creando quello che in Italia non c’è mai stato, cioè una
cultura del lavoro che abbia pari dignità rispetto alla cultura del sapere
teorico. Questo, da un punto di vista pratico, implica poi il fatto di
comprendere e realizzare bene il rapporto tra Stato e Regioni; e da questo punto
di vista l’impostazione data dalla Regione Lombardia mi sembra un modello molto
interessante. Bisogna dunque reimpostare la scuola secondaria articolandola
intorno a due grandi poli: la scuola liceale, che ha un suo valore che va
assolutamente salvaguardato; e il canale professionale, a cui va data tutta
l’importanza che gli spetta.
Qual è l’ostacolo principale su questa strada?
L’idea vetero-marxista, diffusissima in ampi strati dell’opinione pubblica
italiana, secondo cui l’egualitarismo significa che tutti facciano
indistintamente le stesse cose, e che solo così si evitano le ingiustizie. Chi
sostiene questa idea dovrebbe andare a vedere quello che accade negli altri
paesi, come Germania, Inghilterra e Francia, dove il concetto di equità si
costruisce proprio intorno al concetto di personalizzazione, basata
sull’evidenza che i ragazzi a una certa età hanno diverse intenzioni e
interessi. Il problema è superare schemi ideologici: ad esempio, in Italia è
quasi tabù parlare di eccellenza. Gli altri paesi invece coltivano le loro
eccellenze. E io non credo che le eccellenze nascano solo nelle case degli
avvocati e dei medici: il problema è proprio quello di andare a scoprire che
nascono anche nelle case degli impiegati e degli operai. In Inghilterra, è stato
un governo di centrosinistra come quello di Blair che ha fatto una forte
campagna per sostenere le eccellenze.
Un’ultima questione: la libertà di educazione. Che ruolo può avere questo tema
all’interno di un progetto generale di rilancio del sistema scolastico?
Anche questo problema in Italia è condizionato da letture ideologiche, da cui
non riusciamo ad uscire. C’è ancora un’idea di pubblico che coincide con
statale; è un modo di pensare antico e sbagliato, superato dai fatti. Il futuro
si incaricherà di dirci che il sistema scolastico per sua natura deve essere
pluralistico, e necessariamente collegato alle realtà territoriali e alle
famiglie. Anche il federalismo, da questo punto di vista, deve essere bene
inteso, e non deve diventare un nuovo centralismo regionalistico. Dobbiamo fare
in modo che la scuola tutta, statale e non statale, lavori in un clima di grande
libertà, e di rapporto con il mondo che le è circostante. Questa dovrebbe essere
la strategia anche del mondo cattolico: la difesa di un vero principio di
sussidiarietà, che deve subentrare a alla figura dello Stato che vede e provvede
in ogni direzione.
UNIVERSITA'/ Modello inglese: un sistema statale, ma di successo. Qual è il
segreto?
Emanuele Bracco mercoledì 5 novembre 2008
L’Università in Inghilterra è per la quasi totalità statale, eppure è tra le
migliori al mondo: le migliori università inglesi sono seconde solo alle
inarrivabili università americane dell’Ivy League. Qual è il loro segreto? I
fattori sono molti e collegati. Proviamo punto per punto a vederne gli aspetti
di forza e di debolezza.
Gli studenti. Prima di tutto la selezione degli studenti. In una società
tendenzialmente classista come quella inglese, gli studenti non fanno eccezione.
Durante l’ultimo anno di liceo ogni studente fa domanda per un certo numero di
università (ma o Oxford o Cambridge, per placare un po’ l’antagonismo tra i due
atenei), e spera di essere accettato. Gli studenti migliori vanno nelle
università migliori, e troveranno lavori migliori. Gli studenti mediocri,
andranno a fare lavori mediocri. È impressionante vedere ad esempio quanti dei
politici inglesi abbiano studiato PPE (Politics, Philosophy and Economics) a
Oxford. Una lista (non esauriente) contiene Tony Blair, Jack Straw (ministro
della Giustizia), David Cameron (capo dell’opposizione), George Osborne
(ministro ombra dell’economia). Il problema si sposta quindi a come vengono
valutati gli studenti: tendenzialmente sul voto degli esami di maturità, tutti
scritti, e fatti in modo che a correggere ciascuno scritto siano due professori
presi “a caso” su tutto il territorio nazionale. Questo rende un po’ più
oggettivi i risultati, anche se ovviamente la casualità rimane, e avere una
brutta maturità può veramente comportare conseguenze importanti per il resto
della vita. Oxford e Cambridge ovviano a questa “rischiosità” del voto di
maturità con colloqui individuali.
Le assunzioni. Come direbbe il nostro amico Brunetta “è il mercato, baby”. I
migliori professori sono assunti dalle università migliori, che sono quelle in
grado di offrire salari più alti. E all’interno della stessa facoltà professori
di pari grado possono avere stipendi molto diversi fra loro (e che magari
arrivano fino a 200.000 sterline all’anno). Le università con meno soldi possono
ad esempio cercare di intercettare i “giovani talenti”, gli astri nascenti non
ancora troppo cari, ma sicuramente promettenti ed in grado di produrre ricerca
di alto livello. Certo è che lo studente modello, che andrà alle università
migliori, riceverà un insegnamento di livello molto più alto, e sarà circondato
da colleghi di pari livello, costruendo così utili relazioni per la propria vita
professionale. Per contro, tendenzialmente nessuno viene bocciato. Non si
possono rifiutare i voti. Gli esami si fanno una volta sola, a giugno (o a
gennaio e giugno, a seconda delle università), e chi prende un’insufficienza può
ripetere l’esame a settembre. Questo significa niente fuori corso e bassissima
dispersione.
Le rette. L’università inglese, per le famiglie, è piuttosto economica. Fino a
qualche anno fa la retta era di 1100 sterline all’anno (1500 euro circa) per
tutti. Ora lo Stato ha permesso ad alcune università di alzare le rette, che
possono arrivare fino a 3000 sterline (4000 euro). Per contro gli studenti
possono avere facilmente accesso agli “students’ loan”, prestiti fatti apposta
per finanziare la vita degli studenti, che lasciano la casa dei genitori a 18
anni tendenzialmente per non ritornarvi. Lo Stato per ogni studente ci mette del
suo: circa 8000 sterline di finanziamento. La particolarità è che gli studenti
extracomunitari, che non hanno quindi teoricamente finanziato con le tasse i
finanziamenti dello Stato, pagano rette molto più alte: fino a 12.000 sterline
l’anno (circa 16.000 euro). Questo vuol dire che i molti studenti cinesi,
indiani, pachistani e quant’altro, hanno un ruolo fondamentale nel far
pareggiare i bilanci. Ecco perché Oxford qualche anno fa ha deciso di aumentare
la quota di extracomunitari per far quadrare i conti. E spesso (almeno per
università come Oxford) questi studenti sono studenti di altissimo livello,
provenienti dalle classi dirigenti di paesi ex-coloniali (tra tutti, il figlio
di Benazir Bhutto a Oxford, ma anche sempre più figli di “oligarchi” russi).
I finanziamenti statali. Ogni tre anni ogni dipartimento universitario è
visitato da una piccola truppa di professori di altre università, assoldata da
un’autorità indipendente del Ministero dell’Educazione, che dà una pagella alla
qualità della ricerca dell’insegnamento ed emette un voto, da 1 a 5 (con 5* per
le università di eccellenza). Questo voto è dato in base a parametri oggettivi
della qualità della ricerca. Il 30% dei finanziamenti statali dipenderà da
questa valutazione. Tutti i dottorandi sanno che se cercheranno lavoro l’anno in
cui questo “esame” sta per arrivare, sarà molto più difficile trovarlo: le
università, per tenere alto il proprio punteggio, non vorranno assumere giovani
senza pubblicazioni o quasi. Questo sistema si è rivelato molto efficiente,
anche se ovviamente può generare qualche distorsione. I dipartimenti, proprio
come ogni studente, potrebbero puntare a massimizzare il proprio voto piuttosto
che la propria qualità. Ad esempio privilegiando risultati di breve periodo a
fronte di investimenti più lungimiranti. Inoltre le ricerche al di fuori del
mainstream, che non vengono pubblicate nei principali giornali della scienza
“ortodossa” potrebbero essere svantaggiate (e su questo si può discutere se sia
un bene o sia un male).
Gli altri finanziamenti. E poi ci sono i privati. La banca svizzera UBS
co-finanzia un centro di ricerca della London School of Economics, così come la
Toyota, danno finanziamenti ingenti.
E questi sono solo due piccoli esempi. Senza di questi le università inglesi
difficilmente riuscirebbero ad essere all’altezza di quelle americane.
Un'ulteriore fonte di finanziamento, che rende unico il caso inglese, è l’enorme
patrimonio immobiliare e fondiario delle due più antiche università britanniche:
Oxford e Cambridge. Secoli di lasciti e donazioni hanno creato un patrimonio
immenso, che regge le finanze di queste istituzioni. Da ultimo c’è una fonte di
finanziamento indiretta: il senso di appartenenza. Una volta usciti da
un'università ci si sentirà sempre legati ad essa, e se il successo arrivasse,
non sarebbe strano pensare di “dare indietro” qualcosa all’istituzione. Sotto
forma di borse di studio (il fondatore di Easyjet alla London School of
Economics, per citarne uno), o magari facendosi intitolare un’aula, uno
studentato, un edificio.