LINGUA E IDENTITA' CULTURALE
Data: Mercoledì, 05 novembre 2008 ore 09:23:53 CET
Argomento: Rassegna stampa


Lingua e identità culturale

di Massimo Arcangeli

 

Se il futuro parlasse una sola lingua che mondo sarebbe?

Secondo David Crystal "[u]n mondo con una sola lingua superstite – una catastrofe di ecologia intellettuale senza precedenti – è uno scenario che in teoria potrebbe affermarsi di qui a cinquecento anni"(La rivoluzione delle lingue, Bologna, il Mulino, 2005, p. 48). Mi riesce francamente molto difficile pensare a uno scenario del genere. Preferisco guardare alla diversità linguistica come a un patrimonio inestimabile al quale una parte almeno del genere umano non sarebbe disposta a nessun costo a rinunciare. Ricordando una riflessione di Leopardi contenuta nello Zibaldone:

 

"Ciascuna lingua […] ha certe forme, certi modi particolari e propri che per l’una parte sono difficilissimi a trovare perfetta corrispondenza in altra lingua; per l’altra parte costituiscono il principal gusto di quell’idioma, sono le sue più native proprietà, i distintivi più caratteristici del suo genio, le grazie più intime, recondite, e più sostanziali di quella favella. Nessuna lingua dunque è uno strumento così perfetto che possa servire bastantemente per concepire con perfezione le proprietà tutte e ciascuna di ciascun’altra lingua".

“L’italiano è la lingua della memoria, il còrso è la lingua del cuore, il francese la lingua del pane”; lo ha ricordato Marco Ferrari nel cappello a una intervista fatta diversi anni fa per «L’Unità» (5 luglio 1999) a Jacques Thiers, noto scrittore e saggista. è come dire che ogni lingua, proprio come ciascuno dei suoi parlanti, ha una sua identità, una sua personalità, una sua anima; insegnare o apprendere una lingua non è insegnare o apprendere semplicemente il modo di parlarla e di scriverla ma tentare invece di trasmettere o assimilare proprio quell’identità, quella personalità, quell’anima. Caso peraltro emblematico ed esemplare, la Corsica, dell’ideale connubio tra diverse realtà linguistiche che ha portato alla elaborazione della nozione di polinomia. “Una lingua polinomica”, ha osservato Thiers nel corso dell’intervista ricordata, “è quella in cui l’unità non procede dal consolidamento di una norma unica, ma dalla volontà dei parlanti di proclamarla unica tollerando le variazioni d[e]lla diversità dialettale e sociale”. Affermare l’unicità e l’irripetibilità di una lingua, se abbracciamo questa causa, non significa perciò discriminare le sue varietà interne, che possono discostarsi in misura più o meno rilevante dallo standard rappresentato dall’arbitraria selezione, storicamente determinatasi, di un certo numero di suoi tratti. L’anima si rivela composta di tante anime, tutte egualmente bisognose di riconoscimento, e l’insegnamento della varietà, subentrato alle vecchie prestazioni didattiche che impartivano una monoscopica sequenza di rigidissime regole, diventa occasione di apprendimento di una elementare grammatica della cooperazione: se chi insegna una lingua restituisce dignità alle sue tante anime interne, dando voce a ciascuna di esse, chi apprende ricambia con una maggiore disponibilità al dialogo; a confortarlo la ben riposta speranza che il trattamento riservato alle varietà interne alla lingua che sta imparando non sarà diverso da quello riservato a lui, che si convertirà facilmente nel rispetto per la sua identità di parlante. Quasi una prova preliminare d’integrazione, se caliamo tutto ciò nel plurilingue contesto europeo, per rendere meno problematico (o traumatico) il contatto tra culture e mentalità diverse.

 

La lingua come ponte fra culture e identità

Per alcuni l’unica via da intraprendersi da parte della vecchia Europa per il reciproco, pacifico riconoscimento delle rispettive diversità è costituita dal dialogo tra le lingue e le culture incaricate di rappresentarle. Laddove il multiculturalismo esporrebbe al concreto pericolo di una balcanizzazione (G. Sartori, Pluralismo, Multiculturalismo e estranei,Milano, Rizzoli, 2000, p. 112), l’interculturalismo garantirebbe il positivo riconoscimento delle reciproche identità, evitando di concedere il destro sia all’intolleranza xenofoba sia al differenzialismo integralista. Il mutuo, preliminare riconoscimento delle identità linguistiche dei partecipanti, nel contesto di insegnamento/apprendimento di una lingua straniera, favorisce l’aspirazione a sentirsi realmente parte della vita, della cultura, dei costumi di un paese nel quale non si è nati, che si conosce appena, a cui non si è in grado di comunicare le speranze che si nutrono, i sentimenti che si provano, la visione che si possiede del mondo. Esso può portare così un contributo decisivo alla costruzione di quella strada a doppio senso di cui ha parlato Kofi Annan in un discorso tenuto (29 gennaio 2004) davanti ai membri del Parlamento europeo:

L’integrazione è una strada a doppio senso. Gli immigrati devono adattarsi alle nuove società – e le società devono saper adattarsi a loro volta. La parola «integrare» letteralmente significa «fare un tutto»: questo è l’imperativo per l’Europa d’oggi.

Integrare anche per sentirsi integrati. Perché la paura del diverso può creare una nuova, pericolosa forma di esclusione; l’autoemarginazione di chi, quasi straniero in casa propria, si sente circondato da masse di parlanti in lingue sconosciute che istintivamente rifiuta; masse destinate a farsi sempre più numerose: secondo il rapporto del 2003 dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni i 175 milioni di migranti registrati nel 2000 diventeranno 230 milioni nel 2050.

Il nostro futuro di cittadini italiani ed europei, e il futuro stesso del mondo, dipenderanno anche da ciò che saremo in grado di fare nei prossimi anni per integrare il “diverso”, innanzitutto linguisticamente. Chissà che un giorno gli intrecci e le intersezioni dell’interculturalismo possano evolvere verso la realizzazione dell’utopia della fusione accarezzata dalla filosofia transculturale. Quel giorno, tra gli elementi componenti le tante forme linguistiche ibride diffuse oggi per il mondo, saranno allora diventati del tutto invisibili i punti di sutura. Quel giorno avremo realmente capito l’importanza dei valori sociali, culturali, antropologici, prima ancora che grammaticali, di una qualunque realtà linguistica.

 

Lasciare l’isola alla volta della penisola

Lo scrittore gerosolimitano Amos Oz, affrontando i temi scottanti del fanatismo religioso e del sanguinoso conflitto tra israeliani e palestinesi, ci ha restituito indirettamente, in una assai bella immagine, una delle migliori definizioni di identità:

«nessun uomo e nessuna donna è un’isola, siamo invece tutti penisole, per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla tradizione e al paese e alla nazione e al sesso e alla lingua e a molte altre cose. Mentre l’altra metà chiede di essere lasciata sola, di fronte all’oceano. Ciò vale per gruppi sociali e culture e civiltà e nazioni […]. Nessuno […] è un’isola e nessuno […] potrà mai amalgamarsi completamente con l’altro. […] [L]’immaginare l’altro, il riconoscere la nostra comune natura di penisole possono rappresentare una parziale difesa dal gene fanatico, che tutti abbiamo insito in noi» (Contro il fanatismo, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 54 sg.).

Se rileggiamo la metafora di Oz in chiave di riflessione linguistica possiamo grosso modo ricavarne l’identikit di ogni lingua individuale calata in un determinato contesto: una lingua che deve tanto alla “terraferma” dei valori di riferimento esterni all’individuo, che può riconoscerli ma può anche contrapporvisi – i legami con la comunità politica, sociale e linguistica in cui nasce e si sviluppa, i richiami della tradizione, le norme impostegli dall’idioma nazionale ecc. –, quanto all’“oceano” dei tratti irriducibili che costituiscono il suo peculiare modo di esprimersi e di comunicare, diverso da quello di qualunque altro individuo. Una lingua individuale intesa in questo modo riunisce insieme, in una unità indissolubile, due istanze solo apparentemente inconciliabili; accomunate l’una e l’altra, per il ruolo fondamentale riconosciuto da entrambe al contesto sociale, dal rigetto delle vecchie e nuove teorie universaliste dell’essere umano. Una lingua del genere, realisticamente, non si può forse né insegnare né apprendere; attribuirle il valore di un limite, nel senso matematico del termine, ci aiuterebbe però a prendere il mare aperto senza sentirci sopraffatti dalla paura di esserci imbarcati, allontanandoci troppo dalla costa, in un viaggio senza ritorno. Con un po’ di fortuna, una volta tornati sulla nostra isola, saremo almeno riusciti a carpire qualche segreto alle vite che abitano una penisola.

 

*Linguista, sociologo della comunicazione, critico letterario e scrittore, è professore ordinario di Linguistica italiana presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Cagliari, che attualmente presiede. 

 

 







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