Et in Arcadia ego. Ho a lungo esitato,
in presenza di clamori crescenti,
di aspre contrapposizioni, a pensare
a voce alta su un tema tanto delicato e
complesso. Già «barone universitario»
per mezzo secolo, che ha scelto di dedicare
il suo ultimo tempo ad un progetto
di storia delle scuole italiane, avrei preferito
seguire gli avvenimenti. Ma vedo
che incompetenza e arroganza ideologica
minacciano di rompere tutto, in una
cieca e stupida rivincita su un Sessantotto
- che viene (ri)assunto a formula di
propaganda, e caricato di colpe che non
ha.
La maggior riforma scolastica dell’Italia
nuovissima fu la creazione della Media
Unificata del dicembre ’62 (che ebbe
dal gennaio ’63 l’avvio), cui seguirono la
riforma della Primaria, e i recenti accorpamenti
funzionali degli asili, Primaria e
Media nell’Istituto polivalente. Mentre
si disputava su opportunità e costi di
un’elevazione dell’obbligo scolastico. Un
quadro in complesso positivo, che meritava
di esser consolidato e che comunque
appariva luminoso di fronte al grigiore
della mai riformata Secondaria superiore,
e al buio dell’Università. Ed è accaduto
che, mentre si procedeva per la prima
sezione ad accorpare su base funzionale
e laddove occorreva territoriale, Università
e Secondaria Superiore seguivano la
contraria deriva di spalmarsi e diffondersi
nel territorio - con offerte vieppiù
deboli, senza laboratori e biblioteche, accrescendo
un precariato già fin troppo
folto, e sprecando risorse pubbliche attinte
per lo più alla finanza locale, in attesa
di trasferirle sulla finanza statale per virtù
del boss politico della regione o della
provincia.
Attendo correzioni, e sono preparato
ad accoglierle se fondate. Frattanto lo
stato della finanza pubblica, gravata da
un debito monstre, e da sprechi di apparato
(a morte la burocrazia!), imponeva
una razionalizzazione e forse una riduzione
della spesa - che doveva fare i conti
con le sofferenze portate dalla globalizzazione
e dalla speculazione nel drammatico
travaglio dell’occupazione e del
lavoro. Se dagli anni ’80 soprattutto il
Meridione del paese conosce 2-3 fasce
generazionali lasciate ai margini, e mai
veramente entrate «di diritto» nel mondo
del lavoro (vuol dire, sopra la banda del
lavoro nero, e degli sfruttati dell’immigrazione),
la scuola è stata chiamata a
fornire competenze che non sarebbero
state impiegate, e che per i pochi assunti
(anche nel settore della docenza) importavano
continui aggiornamenti che
eran in verità conversioni in vista di altri
impieghi possibili: docenti e alunni cooperavano
in una formazione che gli uni e
gli altri sapevano improduttiva o perché
anacronistica o perché offerta in carenza
di domanda. Sindacalismo e associazionismo
han seguito la deriva, che un sistema
politico confuso e malato aveva reso ancor
più ingovernabile - una deriva, che
conosceva invasi asciutti e piene tumultuose.
L’attuale governo, dopo gli insuccessi
della «finanza creativa», e la rassegnata
impotenza a governare i tumulti della globalizzazione, prese l’unica strada percorribile:
drastica riduzione della spesa, e
fiducia mistica nell’imprenditoria privata
che avrebbe sottratto il paese alla minacciata
stagflation. Non è il caso di fermarsi
sui trucchi del bilancio, costruito
alla maniera dei Borboni, spostando dalla
finanza centrale alla locale (in nome di
una trasparenza «federale» della spesa)
funzioni senza le risorse. Il discorso è generale,
ma teniamoci alla scuola. La prima
ad essere colpita fu l’Università con
l’ormai nota L. 133 dei primi dell’agosto:
una mera scure nel settore dei trasferimenti
dal centro nel momento stesso in
cui, soprattutto nel Sud, seccavano i rivoli
della finanza locale, complementare.
Nessuna indicazione di riforme, che non
fosse con la denuncia di scandali e sprechi
la volontà di abbandonare quell’isola
«dei famosi» ai suoi avidi e goderecci abitatori,
e mantenendo la confusione tra
l’Università che insegna e l’Università che
ricerca, anticipare la decisione di limitare
il turnover di docenti, consigliando il
percorso «virtuoso» della privatizzazione
delle Università attraverso Fondazioni;
al margine si consigliava di fare ricorso ad
un sostanzioso incremento delle tasse
universitarie.
Quel che è accaduto nei mesi scorsi è
sotto gli occhi di tutti: blande proteste,
apologie disordinate dei «baroni» e denuncia
delle parentopoli ad opera di politici
che, accademici e no, praticavano
per proprio conto come routine quello
stile già definito del «familismo amorale»
negli anni ’50 del secolo scorso, banale
traduzione in inglese dell’italiano tengo
famiglia. E frattanto l’Università può
«aspettare e sperare»: vedrete che soccorrerà
l’Europa!
Era legna accatastata a seccare, quando
- impreparata e malcerta - la povera Gelmini
si trovò il fiammifero in mano, e in
un misto di paura e dolore, lo lanciò sulla
catasta con una serie di ridicole misure,
cavate dal robbivecchi della pedagogia
ministeriale: grembiulino, voto in condotta,
maestro preminente, blocco dell’assorbimento
dei precari, riduzione delle
attività e però del numero dei docenti
(in fascia protetta il turpe favore dei docenti
di religione!). E tutto questo in un
confuso raccatto di statistiche improponibili,
che tendevano a sovrapporre il noto
(noto ai burocrati chiamati in soccorso)
all’ignoto (la scuola dei «grandi Stati» dell’Ue).
Nulla sull’urgenza di riformare la
Secondaria Superiore, e sconquasso irresponsabile
nella scuola dell’obbligo - che
è quella che meglio registra il mutamento
sociale e gli squilibri territoriali.
Stupore e allarme. Che c’entra l’Università
«a secco» con i lavavetri della Gelmini?
E qui stiamo fermi, con un’opposizione
che ricanta il ritornello della «questione
sociale trattata da questione di ordine
pubblico», ed una maggioranza che
si prepara all’ennesimo voto di fiducia il
giorno dopo dell’offerta di «dialogo sul
merito». Alla base di tutto, non c’è però la
questione di merito (che è difficile, complessa
e delicata), ma lo stupido decisionismo
che esalta la governabilità aldisopra
del buon governo: il paese Italia non
avrebbe bisogno di buon governo, ma di
pronta decisione - disponga o meno il
governo degli strumenti e delle risorse.
Ve li immaginate i poveri carabinieri e
poliziotti lasciar del tutto ai soldati la sicurezza
delle discariche campane, e correre
a liberar le scuole dai presìdi e dalle
autogestioni dei Movimenti? La Russa
dovrebbe richiamare le truppe dall’Afghanistan,
dal Kossovo, dal Libano e forse
gli osservatori dalla Georgia...
Come finirà? Male e «all’italiana». Passeranno
misure severe, che nessuno farà
rispettare - come accadrà per le meditate
provvidenze di Brunetta, che ha sconfitto
l’assenteismo nel pubblico impiego,
ed è perciò persuaso (o meglio vuol persuadere
noi) che ciò porterà ad un’impressionante
crescita nella qualità e
quantità dei servizi. Francamente, l’unica
speranza possibile è quella che la protesta
in corso «protegga» il buono della nostra
scuola, e chiami a consulto attorno
all’Università e alla Secondaria Superiore.
Ma ad evitare che la speranza si riveli
una bolla (di sapone), è necessario un
interlocutore competente ed autorevole,
in grado di rappresentare conoscendoli i
veri problemi della comunità che è chiamata
a intendere per «governarli». Oggi il
maggior pericolo non è il decreto Gelmini.
È’ l’irrilevanza, posticciamente arrogante,
del ministro.
GIUSEPPE GIARRIZZO (da www.lasicilia.it)