Don Ciotti: prima della legalità viene la responsabilità
Data: Domenica, 05 ottobre 2008 ore 00:00:00 CEST
Argomento: Comunicati


Il giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 mentre si recava in Tribunale, aveva scritto su un quaderno queste parole: «alla fine non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma se siamo stati credibili».
Sono parole stupende per profondità e provocazione. Parole che mi aiutano a sottolineare due aspetti fondamentali della responsabilità educativa: la verità e la coerenza.

Nei rapporti educativi le parole devono saldarsi ai fatti
Se vogliamo davvero crescere e aiutare a crescere attraverso il rapporto educativo, non ci è consentito bluffare. Non solo non è permessa la presunzione, il sentirsi superiori agli altri, l’obbligarli a camminare al nostro passo, ma una volta che si entra in relazione bisogna essere veri, leali, sinceri.
Né sono ammessi impegni a metà: le parole devono saldarsi ai fatti, le intenzioni non possono restare sulla carta.

Il dialogo educativo: protendersi verso l’altro anche col cuore
Come scriveva Rosario Livatino: bisogna essere credibili, perché solo la credibilità suscita nell’altro la disponibilità al dialogo e al rapporto. Ricordiamoci che dialogo non significa solo razionalità. La stessa parola lo sottolinea: dia-logon, “attraverso la ragione”. Ogni dialogo, ma in particolare quello educativo, richiama una dimensione di sensibilità, empatia, intuizione, che non può essere ridotta all’enunciazione distaccata di regole e principi, per quanto legittimi e fondati.
Bisogna protendersi verso l’altro con l’intelligenza ma anche col cuore, perché solo così chi ci sta di fronte sente la nostra verità (la verità del nostro esserci) e si apre a quella fiducia che sta alla base di un rapporto educativo.

“Noi”, nell’educazione e nella legalità
Educazione e legalità sono due modi di pronunciare la parola “noi”.
Nell’educazione il “noi” ha il volto della reciprocità: io e te siamo diversi, ma è proprio sul terreno di questa comune diversità che possiamo incontrarci, riconoscerci, amarci.
Nella legalità il “noi” ha invece il volto della legge, un volto forse arcigno ma necessario. Un volto che non ci è chiesto infatti di amare ma di rispettare. Una società ha bisogno di leggi perché il volto della legge simboleggia quello degli “altri”, delle persone che non conosciamo direttamente ma che vivono insieme a noi e come noi hanno il diritto di essere riconosciute nella loro unicità e dignità.

Quale linguaggio per le leggi
È per questo che il linguaggio delle leggi può risultare estraneo se prima non abbiamo imparato quello dei rapporti umani. Solo aprendo la nostra vita agli altri possiamo davvero capire quel linguaggio e coglierne il valore. Sappiamo distinguere tra una legge che promuove giustizia e una che difende interessi particolari (pensiamo alle leggi “ad personam”); tra una che sancisce l’uguale dignità di tutte le persone e un’altra che crea discriminazioni nel corpo sociale.
La storia racconta di leggi che hanno giustificato la forza invece di rafforzare la giustizia, sancendo forme di razzismo, di classismo, di sfruttamento. O che, più spesso, non hanno saputo trovare il giusto equilibrio tra la sanzione e l’inclusione, tra l’aspetto penale e la dimensione sociale.
Leggi che non hanno tenuto conto delle fragilità umane fino a porre “fuori legge” non un comportamento ma una condizione (la legge 189/2002 sull’immigrazione, con il suo porsi al di sopra della vita delle persone, è un esempio di questa forzatura).

Legalità: dove la responsabilità individuale si salda alla giustizia sociale
«Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che dovranno tenere in tale onore le leggi da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate». Sono parole di don Lorenzo Milani.
Parole che a distanza di tanti anni non cessano di scavare nella nostra coscienza, richiamandoci al senso di una legalità che non può limitarsi al rispetto passivo delle norme, ma deve cercare di saldare l’io e il noi, la responsabilità individuale alla giustizia sociale.

Forme minori ma diffuse di illegalità: un deficit di responsabilità
Proprio perché la legalità inizia da noi stessi, dalla nostra coerenza e responsabilità, bisogna diffidare di quei discorsi che, parlando di legalità, focalizzano l’attenzione solo sui fenomeni di criminalità o di violazione palese delle leggi. Sono fenomeni certo preoccupanti, ma che non devono farci dimenticare quelle forme minori ma molto diffuse d’illegalità che tutte le indagini sociali denunciano come un male cronico del nostro paese. Un male che trova la complicità di molti, l’opposizione di pochi, la rassegnazione di tanti.
È importante cominciare da qui perché, alla base di quest’illegalità diffusa, più che un’intenzione criminale c’è un deficit di responsabilità: l’illecito è diffuso anche perché non è ritenuto grave e non è ritenuto grave anche perché è molto diffuso.

L’impegno educativo per sanare la frattura tra individuo e società
Per spezzare questo circolo vizioso non bastano allora i soli strumenti legislativi. Le leggi possono certo limitare il reato, ma se il reato è stato “depenalizzato” nella coscienza delle persone è necessario anche un impegno educativo. Un impegno che aiuti le persone a vedere nella società un bene comune che non può essere sfruttato indiscriminatamente senza conseguenze per tutti, anche per chi crede di avvantaggiarsene.

Il “conflitto d’interessi” che inquina ormai interi settori della politica e dell’economia, ha origine soprattutto in questa frattura tra individuo e società, in modelli culturali che enfatizzano il successo, l’arricchimento, l’affermazione individuale al punto da lasciar intendere che ogni mezzo sia lecito per ottenerli.
Che futuro può avere una realtà che concepisce la vita come una competizione dove a vincere sono solo i più scaltri, i più cinici, i più ricchi?

Il filosofo Norberto Bobbio ce l’ha ricordato con poche e illuminanti parole: «la democrazia vive di buone leggi e di buoni costumi». Se mancano buoni costumi – cioè un’etica della corresponsabilità – una legge potrà anche essere buona ma sarà sempre percepita come un elemento estraneo del corpo sociale: sistema di regole a cui opporre gli anticorpi della furbizia e del sotterfugio, o da rispettare solo per il timore delle sanzioni che ne accompagnano la trasgressione.

I giovani e la legalità: tre reazioni possibili
Personalmente sono molto preoccupato dalle ricadute che un simile modello culturale può avere sui giovani.
Mi capita di dialogare con molti di loro ogni giorno – nelle scuole, nelle associazioni, nei centri sociali – e quando il discorso tocca la questione della legalità e del rispetto delle regole, li vedo reagire sostanzialmente in tre modi:
- l’imitazione («se la maggior parte non le rispettano, perché proprio io devo iniziare a farlo?»);
- la sfiducia nelle istituzioni, ritenute lontane e incapaci d’incidere davvero nella vita delle persone;
- ma anche, per fortuna, la ribellione, la voglia d’impegnarsi per costruire una società più giusta e solidale.

La legalità non va predicata ma praticata
Credo che le prime due reazioni – il conformismo e la sfiducia – possano essere contrastate, a patto però di non limitarsi alle parole. Come l’educazione, anche la legalità non va predicata ma praticata. Presentare la legalità solo in un’ottica formale, come un sistema di prescrizioni e di divieti, significa mancare l’incontro con i giovani.

Un giovane vuole sapere perché le cose esistono, non limitarsi a sapere che esistono. Ha bisogno d’interlocutori che prendano in seria considerazione le sue domande, il suo bisogno d’interrogare e interrogarsi. Adulti che sappiano essere presenti senza essere soffocanti, tolleranti senza essere indifferenti. Che lo mettano in condizione di essere autonomo, di costruire percorsi in cui l’energia possa scorrere alla giusta tensione, in argini né troppo stretti né troppo larghi.

Educarci – dice una bella massima orientale – è come far volare un aquilone: se si tira troppo la corda o la si tira troppo poco, l’aquilone cade.

Come la scuola e la famiglia, anche il contesto sociale svolge qui un ruolo decisivo. La legalità comincia quando ci si sente parte attiva di un contesto, quando da anonimo spazio di transito e di consumo la città diventa “immagine riflessa” di una mappa interiore di affetti, relazioni, stupori. Quando è città che fa posto ai giovani e non si limita a dare loro un posto. E mettendoli in condizione di “vedere” e non solo di guardare, di “ascoltare” e non solo di sentire, di “capire” e non solo di sapere, permette loro di sentirsi a pieno titolo cittadini.

 

Luigi Ciotti

  Da fuoriclasserai,it







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