Capita
oramai sempre più di sovente che qualche illustre intellettuale prende a
discettare, in fatto e in diritto, sui peccati e sulle pene della Sicilia e dei
suoi intellettuali: è accaduto anche da recente per l’abile penna di Ernesto
Galli della Loggia con un fondo d’apertura sul Corriere della Sera. Non credo
che sia sensato e utile a nessuno aprire una polemica e forse neppure un
dibattito sulla "condanna" pronunciata da Galli della Loggia nei confronti della
cultura ufficiale siciliana e dei suoi sacerdoti: penso, piuttosto, che sia
utile e, forse anche, necessario affermare il diritto al dissenso di chi, in una
terra difficile e talora impossibile, con pazienza e continuità quotidianamente
conduce la sua attività riformatrice e, spesso, innovatrice, senza clamori, ma
anche senza esitazioni o paure.
Abbiamo sperimentato sulla pelle della Sicilia e dei siciliani la
stagione del riformismo gridato, coniugato spesso ad un professionismo
antimafia, tanto retorico quanto vacuamente autopromozionale, abbiamo assistito
a cortei e abbiamo ascoltato banditori da salotto di riformismo prêt-à-porter,
nascosto dietro la penna o il laticlavio di professionisti d’assalto del
giornalismo o della politica. Abbiamo anche assistito alla clamorosa
delegittimazione di istituzioni e personalità, fortemente impegnate nella vera
lotta alla criminalità organizzata (si chiami mafia, camorra o ’ndrangheta poco
importa), per il piacere del protagonismo da vetrina ad ogni costo.
Non credo che l’intervento di Ernesto Galli della Loggia sia
catalogabile in nessuno di questi casi: eppure riesce a fare male a molti e
danno a tutti. Se lo storico milanese avesse un po’ più di conoscenza diretta
della Sicilia, delle sue azioni e dei suoi uomini migliori - giacché anche di
questi essa possiede un eccellente parterre - avrebbe forse scritto cose
diverse. Non nego che alcune considerazioni critiche su un certo snobismo, misto
ad una certa ignavia, che ha caratterizzato, soprattutto negli ultimi tempi, una
parte dell’intellettualità isolana; nego però con forza che esso sia stata la
cifra dell’Isola e della sua classe dirigente e intellettuale, oltre ogni
divisione politica, ideologica o culturale. Sarebbe imbarazzante sciorinare
elenchi di personalità e istituzioni in questi anni impegnate, sia in Sicilia,
che anche lontano da essa, ma in piena sintonia con la sua classe dirigente, a
imprimere una svolta alla sua azione economica, sociale e culturale: ciò che,
spesso, ha remato contro azioni, anche esemplari, avviate e portate a termine in
Sicilia è stata da un lato la mancanza di un’eco adeguata di tutto ciò
nell’informazione nazionale e internazionale, spesso troppo attenta a riportare
stereotipi comodi ad una letteratura consumistica più che ad una vera notizia di
rottura, dall’altro lato la mancanza di serietà professionale a tutti i livelli
- anche politici e talora governativi - per contribuire al sostegno solidale di
una cultura del cambiamento, fortemente presente soprattutto nella generazioni
più giovani, convinte più di ogni altro che il loro futuro sta nell’impegno
civile e nella qualità professionale. E vengo al tema dello scandalo: la scuola.
La scuola, in Sicilia come in Lombardia, è lo specchio della
società. In Sicilia ovviamente le condizioni generali e particolari nella quali
si muove il sistema scolastico e formativo sono meno efficaci che in altre parti
del Paese, perché in Sicilia è meno efficace tanto il sistema politico, quanto
quello economico. Le condizioni dell’apprendimento sono quelle di una regione
nella quale spesso la scuola e l’università sono la via di fuga per
l’insoddisfazione occupazionale e non la palestra della vita professionale, gli
insegnanti sono anche essi espressione del loro humus culturale ed economico, il
quale, già insoddisfacente e carente nel mitico nord-est, è ancora di più tale
nel profondo sud. Non invoco, per carità, né assistenza politica, né interventi
straordinari, credo che sia giunto il momento di cominciare a trattare i temi
del sud, e della Sicilia in particolare, in modo "ordinario". Occorre cioè
prendere in carico questa realtà non con il piglio del maestro dotato di matita
rossa e blu, pronto a segnare gli errori per abbassare il voto, ma con
l’attenzione costituzionale con la quale i padri costituenti sessanta anni fa si
posero davanti alle questioni della Sicilia, un’attenzione speciale per dare
all’estremo lembo d’Italia la possibilità di competere negli anni a venire in
modo appunto "ordinario".
Competizione, dunque, e non assistenzialismo, in una terra come
la Sicilia, vuol dire per un verso garanzia di condizioni strutturali per una
sfida vera e per altro verso management politico e industriale adeguati e
decisamente rinnovati rispetto al passato recente e non solo. È vero, per questi
obiettivi forse la scuola e le università siciliane non sono, almeno in questa
fase, del tutto pronte, però non si aiutano e non si risolvono i problemi
salendo in cattedra e dando lezioni fuori tempo e fuori luogo, si risolvono
dando ruolo, fiducia e sostegno a quanti, siciliani e non, raccogliendo la
sfida, fanno di questa terra un laboratorio di idee e di progetti.
Alcuni illustri esempi, anche di recente, li abbiamo, specie nel
mondo finanziario e imprenditoriale, che, venendo anche da lontano, ha scelto la
Sicilia per esperimenti-pilota, anche ben riusciti, dando fiducia a chi ha fede
nel cambiamento e capacità di realizzarlo, senza false retoriche e senza indugi.
I contemporanei scrivano pure la cronaca, per raccontare la storia ci rimettiamo
ai posteri.
GIANNI PUGLISI*
*Presidente della Fondazione BdS
(da www.lasicilia.it)