Cesare Pavese e il tormento del «qualcos’altro»
Data: Lunedì, 22 settembre 2008 ore 00:00:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Cent’anni fa nasceva, a Santo Stefano Belbo, Cesare Pavese. Morto a soli quarantadue anni, in una stanza dell’albergo «Roma» di Torino, Pavese è stato per molti anni il fantoccio di una cultura piccola e provinciale, che ne ha fatto l’emblema di una retorica non sua. Col risultato di rimanere, sostanzialmente, uno scrittore sconosciuto. C’è chi, in anni più vicini a noi, ne ha biasimato l’incertezza come costruttore di edifici narrativi, fino a proporre divisioni sospette tra lo «scrittore» (spesso incompiuto) e l’«uomo» - astrazione suprema di chi non sta capendo. Ma cent’anni possono essere utili: sia a dissipare, almeno in parte, la protervia di chi vuole imporre le proprie chiavi di lettura, sia a rimettere il lettore volonteroso davanti a una grandezza che non ha bisogno di essere dimostrata.
Cesare Pavese è stato uno dei più grandi scrittori, non solo italiani, del Novecento. Lo è stato innanzitutto per la sua scrittura: non elegante, non ben fatta, spinta sul limite dell’assenza di stile, del grado zero. Pavese non usò la letteratura per creare mondi fittizi, ma per mettersi a nudo, per scavare dentro di sé in modo umile e obbediente, col badile. Se le biografie ufficiali degli anni plumbei (che precedettero quelli di piombo) ce lo disegnano compostamente, laicamente ritirato nella sua morte perfettamente orizzontale, la sua opera è tutta divorata da un’imminenza che fu l’ansia, il tormento del grande scrittore. Chiamatela mistero, chiamatela destino, chiamatela Dio, chiamatela semplicemente «qualcos’altro»: la materia della sua opera è questa: semplice e terribile.
Tre libri di fresca pubblicazione ripercorrono le tracce per nulla lineari, talora amare, talora quasi mistiche di Pavese. I primi due, Lo scopritore di una terra incognita (Edizioni dell’Orso, pagg. XXXIV-435, euro 36) e Un’esigenza permanente (Edizioni di Pagina, pagg. 180, euro 13) sono opera di un giovanissimo studioso, Valerio Capasa.
Studio approfondito sulla poesia pavesiana il primo, introduzione generale a Pavese il secondo, analitico il primo, sintetico il secondo, questi due testi rivelano il volto di Pavese più vicino a quello che si presenta al lettore senza pregiudizi, dando fondamento critico a un sentimento di adesione spontanea che tante letture a tesi hanno finito per frustrare. Due ottimi libri, che ci segnalano uno studioso e critico di rara intelligenza e sensibilità.
Il terzo libro è un singolare viaggio sentimentale del poeta Gianfranco Lauretano (La traccia di Cesare Pavese, Bur, pagg. 250, euro 10), che torna sui luoghi della vita di Pavese trovando nella sua opera una guida (anche turistica, certo) capace di restituire allo sguardo la profondità di ciò che vede. Una bella avventura umana che non cerca scoop critici, bensì la «tenuta» della parola di Pavese, la sua capacità di parlare al nostro presente (sempre che noi sappiamo esser presenti a noi stessi). Dal
Giornale






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