I precedenti storici
l ciclone federalista s’abbatte sul sistema scuola, considerato
l’emblema del centralismo statale. Il ddl Calderoli
e i progetti della Gelmini puntano a scardinare un moloc
che ha resistito finora a tutte le riforme (compresa quella
dell’autonomia).
Eppure il sistema scolastico era nato - per lo più - dalla libera
iniziativa della società (famiglie, Comuni, enti religiosi).
Ma dopo l’Unità d’Italia, liberali e fascisti, democristiani
e comunisti hanno visto nella scuola uno strumento attraverso
cui formare la coscienza nazionale e, in particolare,
controllare l’opinione pubblica. L’istruzione da questione
educativa (trasmissione di un sapere sulla vita e sulla realtà
da una generazione a un’altra) s’è trasformata in questione
di egemonia politica, che prescinde dal bene comune del
Paese e dalle domande delle famiglie e degli alunni.
Un esempio lampante è costituito dalle vicende dell’ultimo
decennio che hanno registrato progetti di importanti
riforme, mai entrate pienamente in vigore per l’alternanza
delle maggioranze politiche.
Per capire come si sia arrivati alla situazione di stallo
odierna occorre, però, risalire alle origini del problema.
La scuola dell’Italia unita
Fin dai primi governi post-unitari la politica scolastica è stata
guidata dall’obiettivo di utilizzare il settore dell’istruzione
come strumento per favorire quell’unità culturale e politica
del Paese che le annessioni, per quanto plebiscitarie,
non avevano potuto garantire. C’era da rispondere, certamente,
al grave problema
dell’analfabetismo:
ancora nel
1871 il 72,9% della
popolazione italiana
(con punte che
arrivavano al 90%
nel Sud) risultava
incapace di leggere
e scrivere. Ma c’era
anche - secondo il
punto di vista delle
classi dirigenti - da
risolvere la spinosa
questione del "monopolio
di fatto"
della Chiesa e dei
privati nel campo
educativo, che al
momento dell’Unità
gestivano i quattro
quinti delle scuole
secondarie.
La via seguita dai
primi esecutivi italiani
fu quella di estendere, con qualche ritocco, a tutto il territorio
nazionale la legge Casati del 13 novembre 1859.
Col passare degli anni fu accentuato, soprattutto, il legame
fra obbligo scolastico e statizzazione. Con la legge Coppino
del 15 luglio 1877 l’obbligo scolastico divenne strumento
fondamentale di laicizzazione e statizzazione della scuola.
Anche in campo liberale si levarono voci
contro la legge "liberticida" di Coppino che
espropriava i genitori di un diritto naturale.
Il ministro dell’Industria, Agricoltura e
Commercio dell’esecutivo Depretis, il siciliano
Salvatore Majorana Calatabiano, che
aveva sotto il suo controllo gli istituti tecnici,
accusò apertamente il suo collega dell’Istruzione
di confondere «l’ufficio del padre
di famiglia e del pedagogo con quello dello
Stato»: secondo Majorana il ministro Coppino
voleva governare le istituzioni e gli uomini
«con sistemi da caserma». Lo stesso argomento fu ripreso
da un altro siciliano, Sebastiano Nicotra, nel suo saggio «La
scuola libera»: "E’ avvenuto - scriveva Nicotra - che con la
scuola caserma lo Stato è tutto nella scuola; esso l’unico istitutore,
l’unico professore e pedagogo della gioventù, il solo
padre di famiglia, perché il solo educatore dei figli, e quindi
l’arbitro assoluto della vita umana".
Nonostante le enunciazioni di principio sull’istruzione obbligatoria
e gratuita, tuttavia, la triste piaga dell’analfabetismo
restava gravissima: il censimento del 1881 rilevò il
67,3% di analfabeti su tutta la popolazione. Sempre allarmante
rimaneva la situazione nel Sud: a Napoli si registrava il
65% di analfabetismo fra i maschi e il 75% fra le femmine; a
Catania le percentuali toccavano rispettivamente l’80 e il
90%.
Nel periodo giolittiano si accentuò, pur in un contesto di
riformismo, il processo di accentramento dell’istruzione.
Con la legge Daneo-Credaro del 4 giugno 1911 lo Stato
avocò a sé il controllo sulle scuole elementari, togliendolo ai
Comuni. Dopo i genitori, dunque, anche gli enti locali, soprattutto
quelli minori, venivano privati delle loro prerogative
nel campo dell’istruzione.
Popolari e socialisti
Nel Primo Dopoguerra i popolari si fecero paladini della libertà
di educazione che impone allo Stato di lasciare liberi
i genitori di «scegliere tra la scuola di Stato e la scuola privata
». Secondo Sturzo bisognava mettere sullo stesso piano
due tipi di scuola. A questo scopo nel programma del Ppi si
chiedeva la "parità di trattamento giuridico ed economico
fra gli insegnanti di Stato e quelli privati" e si auspicava che
le "somme stanziate nel bilancio dello Stato per l’insegnamento
(fossero) ripartite fra tutte le scuole, siano esse di Stato
o private, in proporzione del numero dei rispettivi alunni".
I socialisti, dal canto loro, oscillavano fra una posizione dichiaratamente
statalista e laicista - che mirava a far fuori la
"scuola dei preti" - e una più propensa alla libertà di educazione.
Su quest’ultimo fronte troviamo Antonio Gramsci, che
nel 1918 in un articolo per "Il grido del Popolo" scriveva: «Noi
socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera,
della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà
nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente
dal controllo dello Stato».
Mussolini e lo Stato educatore
Lo Stato liberale non accolse le istanze dei popolari nel
campo dell’istruzione. A sostenerle, almeno in apparenza e
parzialmente, fu invece il Fascismo che ebbe in Gentile un
geniale ministro della Pubblica Istruzione.
Il fascismo - prima del Concordato e dopo - fece concessioni
alla Chiesa nel campo scolastico: dalla decisione di porre
l’insegnamento religioso come base e coronamento dell’istruzione
elementare (regio decreto del 1° ottobre 1923) alla
parità giuridica accordata all’Università cattolica nel 1924;
dall’introduzione dell’insegnamento religioso nelle superiori,
a numerose parifiche.
Eppure, come ebbe a notare Sturzo, il ministro Gentile
«cercò di realizzare insieme due idee: quella di maggior rispetto
dell’insegnamento privato, accordandogli l’esame di
Stato, e così soddisfare ai desideri dei cattolici; e quella dell’accentramento
statale del servizio pubblico dell’insegnamento
e del governo despota, e soddisfare così fascisti e nazionalisti».
Mussolini, dopo aver sciolto i partiti, dichiarò che «l’educazione
totalitaria e integrale dell’uomo spetta esclusivamente
allo Stato come una delle sue funzioni fondamentali e primordiali
o, meglio ancora, come ’la’ funzione fondamentale
dello Stato».
Il fascismo portò alle
estreme conseguenze
il centralismo
statale nel
campo dell’istruzione,
sia riducendo la
scuola a strumento
del regime (secondo
una celebre
espressione di Mussolini
si doveva "fascistizzare
la nazione
tanto che, domani,
italiano e fascista
e cattolico siano la
stessa cosa") sia
creando un complesso
di organizzazioni
parallele che
assicurassero allo
Stato "l’effettivo
monopolio dell’istruzione
e dell’educazione
della gioventù".
Il Secondo Dopoguerra
Nel Secondo Dopoguerra torna la dialettica fra centralismo
e libertà nel sistema scolastico, ma l’esito del dibattito porta
a un ambiguo compromesso: enti e privati hanno la libertà
e il diritto di istituire scuole, ma senza oneri per lo Stato.
Non si poteva, dopo il Fascismo, sostenere
tout court la "scuola di Stato", ma al tempo
stesso si risolveva il problema della dittatura
culturale attraverso l’esercizio "democratico"
di un potere che rimaneva centralistico.
C’è da aggiungere che con la scolarizzazione
di massa si resero necessarie riforme
radicali, quali ad esempio quella che introdusse
la scuola media unica. Ma, nel volgere
di un paio di decenni, scuola e università
si trasformarono da luogo dell’istruzione
in "parcheggio" dove tenere i giovani impossibilitati ad avere
un posto di lavoro. Dal ’62 a oggi non c’è stata più alcuna
vera e organica riforma della scuola. In tanti ci hanno provato
(da Berlinguer alla Moratti) ma nessuno è riuscito a condurre
in porto il proprio progetto. Da qui l’amara battuta dell’attuale
ministro all’Istruzione Maria Stella Gelmini: «La
scuola italiana è come una macchina col motore rotto, per
farla camminare meglio non serve mettere più benzina».
E’
vero. La scuola italiana non ha bisogno di piccoli ritocchi. E soprattutto non
può uscire dal tunnel se non trova una soluzione convincente ed equa al suo
vizio d’origine: l’elefantiasi del centralismo statale.
GIUSEPPE DI FAZIO (da www.lasicilia.it)