A Mantova la grande lezione di Alda Merini
Data: Sabato, 06 settembre 2008 ore 11:39:02 CEST
Argomento: Redazione


..Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.

Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.

Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.

*

Abbiamo le nostre notti insonni…

I poeti conclamano il vero,
potrebbero essere dittatori
e forse anche profeti,
perché dobbiamo schiacciarli
contro un muro arroventato?
Eppure i poeti sono inermi,
l’algebra dolce del nostro destino.
Hanno un corpo per tutti
e una universale memoria,
perché dobbiamo estirparli
come si sradica l’erba impura?
Abbiamo le nostre notti insonni,
le mille malagevoli rovine
e il pallore delle estasi di sera,
abbiamo bambole di fuoco
così come Coppelia
e abbiamo esseri turgidi di male
che ci infettano il cuore e le reni
perché non ci arrendiamo…
Lasciamoli al loro linguaggio, l’esempio
del loro vivere nudo
ci sosterrà fino alla fine del mondo
quando prenderanno le trombe
e suoneranno per noi.

Alda Merini non vuol sentire parlare di ospedale psichiatrico: «I manicomi erano posti dove succedevano cose inenarrabili, e la verità sul manicomio non la dirò mai; lo faccio per rispetto ai giovani, che non devono sapere». Il dottor G. citato nel titolo è Enzo Cabrici, il neuropsichiatra che, per stessa ammissione della Merini, la salvò, preservandola da quella situazione disumana e dall'elettroshock. Difficile seguire i percorsi mentali della poetessa, capace di pensieri sublimi e di altri meno nobili, per una persona di tale cultura e sensibilità: «Oggi i gay hanno i figli, le lesbiche… ragazzi siamo sull'orlo del fallimento». Parlando della tematica religiosa, spesso presente nella sua poesia, dapprima la riconduce ad un rinnovato ringraziamento a Dio per il dono della vita, ma poi precisa, a proposito del tentativo di suicidio della figlia: «Chi è stanco della vita ha il diritto di togliersela». Lei stessa tentò il suicidio, prima di entrare in manicomio «per una grande passione non ricambiata nei confronti di un medico che non voleva il mio amore, ma neanche mio marito voleva il mio amore».

Forse per nostalgia, raggiunti i settantasette anni, Alda Merini rimpiange comunque il tempo andato, compresi gli anni del manicomio, dove ha imparato ad essere meno egoista. La stoccata è ancora per la società contemporanea, in cui «tutti prendono medicine, tranquillanti, hanno dolori psicosomatici e allergie, mi sembran tutti cretini»; pensieri decadenti, simili a quelli cui si abbandonava ieri Paolo Villaggio, il quale probabilmente ignora che l'unico libro presente in manicomio era il primo della serie su Fantozzi. La poetessa racconta di quanto si divertiva a leggerlo e rileggerlo ad alta voce, per la gioia di tutti gli internati.

Spiegare la poetica di Alda Merini è cosa ardua, forse anche inutile, poiché il piacere sta proprio nella lettura e nel suono che produce, e poi è lei stessa a darne una definizione, in una poesia della raccolta "La volpe e il sipario": «La mia poesia è alacre come il fuoco, /trascorre tra le mie dita come un rosario». Quanto alla sua malattia mentale, invece, una vecchia poesia comparsa nella raccolta "Vuoto d'amore" del 1991, recita: «Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle, /aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta». Al tentativo di indagare oltre queste parole, come ha provato a fare nel suo arduo compito Antonella Buonamici, sul palco di Mantova, si rischia di sentirsi rispondere: «Ma saranno affari miei. Non vado dalla De Filippi a raccontare com'è stata la prima volta, la seconda e la terza». Il pubblico applaude l'ironica difesa della privacy. Per lo stesso motivo, Alda Merini non ama il libro appena pubblicato: «Mi dà un po' sui nervi, perché la privacy tra me e il dottor G. viene intaccata».
La poetessa accende un'altra sigaretta – «senza sigarette non funziono» – e si commuove parlando delle figlie, portatele via dagli anni in manicomio. Per la conclusione dell'incontro chiede domande intelligenti, ma soprattutto a che ora si mangia, convinta dell'inutilità di questo rito







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