La scuola e la famiglia binomio imprescindibile di cui nessuno tiene conto di Pietro Barcellona
Data: Giovedì, 04 settembre 2008 ore 21:19:34 CEST
Argomento: Opinioni


Cos’è la scuola? In questi giorni di inizio

dell’anno scolastico, tutti si cimentano

in proposte e analisi sullo stato

delle istituzioni scolastiche del nostro paese.

Sulla scena politica ci sono tanti temi in

agenda: la vicenda Alitalia, la crisi georgiana,

l’aumento inaudito dei prezzi, le elezioni

americane, eccetera. La scuola è in questa

agenda uno dei temi sui quali si ferma l’attenzione

dei media per qualche giorno. Il

ministro di turno appare in qualche intervista

con le sue proposte rivoluzionarie: il

grembiule, il maestro unico e il voto in condotta.

Faccio fatica a non diventare triviale.

Ma ci vuole un grande controllo delle proprie

reazioni emotive per accettare in silenzio il

fatto che la Gelmini ha preso il posto che,

nell’esecrando periodo fascista, fu di Giovanni

Gentile per fare il commissario liquidatore

dell’intero sistema educativo. La Gelmini,

infatti, a parte i suoi evidenti limiti

culturali, opera in un quadro di tagli di spesa

che riducono drasticamente le offerte

educative. In realtà, il destino della scuola e

dell’università è nelle mani di Tremonti che

persegue tenacemente lo smantellamento di

ogni istituzione pubblica di formazione nazionale

della gioventù italiana in nome di

una visione dello sviluppo economico centrato

sulle aree del Nord e sul rapporto fra sapere

e impresa.

Nessuno né della maggioranza, né dell’opposizione

prova a dare al problema della

scuola italiana la centralità assoluta che gli

compete. Il punto vero e drammatico è che la

nostra società e la nostra classe dirigente

non hanno alcun progetto educativo perché

non riescono ad avere nessuna visione del

futuro e del rapporto con le nuove generazioni

e rimuovono dolosamente i segni del disastro

generazionale che colpisce il nostro paese.

È vero, i giovani non riconoscono nessuna

autorità, non hanno nessuna idea di ciò

che è consentito e di ciò che è vietato, ma

pensare che questa situazione gravissima

possa essere risolta con il voto in condotta è

soltanto una prova di ottusità. I nostri giovani

non arrivano a scuola dopo avere trascorso

i primi anni di vita in compagnia di premurosi

angeli custodi, ma dopo essere nati e

vissuti in un contesto familiare e sociale che

li ha orientati nel rapporto con il mondo

esterno delle persone e delle cose. Hanno seguito

precocemente programmi televisivi

deficienziali e telegiornali cruenti, pieni sempre

di sangue e delitti. Il loro quartiere è o un

ammasso di miseria umana e sociale o un

condominio residenziale fatto di solitudine e

buone maniere. In ogni caso "comunità"

anaffettive o violente o ipocrite e censurate.

Anche i giovani d’oggi, come tutti i bambini

e i ragazzi, hanno cominciato a chiedersi

perché il sole tramonta e la luna sorge nelle

notti stellate. I primi "perché" sono la misura

di un’apertura alla "società dei grandi"

che aspetta risposte, ma principalmente

amore, attenzione e affettività.

Prima viene la scuola e poi l’università. In

questi percorsi (dalla famiglia alla scuola) i

"perché" prendono la forma degli interessi,

della curiosità, delle passioni conoscitive. In

questi anni si istituisce il nesso fra saper capire

e saper vivere, fra concetti e vita che è il

motore delle motivazioni dei giovani a studiare.

Antonio Gramsci, che aveva fatto del

problema educativo il centro di molte riflessioni

politiche, invitava le classi subalterne a

non considerare lo studio un inganno della

borghesia, ma il solo metodo valido per una

maturazione umana capace di affrontare le

difficoltà materiali e psicologiche della vita.

La scuola è lo specchio del mondo, la visione

della vita che ci orienta e ci dà le risorse

per immaginare il futuro. La scuola è educazione

al pensiero che consente di sublimare

le pulsioni immediate e che trasforma in parole

la spinta istintiva allo scarico delle emozioni

in azioni anche distruttive. Come ho più

volte ricordato richiamando le considerazioni

di H. Hillman, la violenza è il fallimento

delle parole che trattiene dello scarico

pulsionale e apre le porte al pensiero del futuro.

Si ripete in questi giorni il rituale delle

violenze negli stadi e tutti sono d’accordo

nell’applicazione di sanzioni severe. Credo

anch’io che bisogna reagire allo scatenarsi

della violenza negli stadi tra le opposte tifoserie.

Ma guai se i nostri dirigenti politici e i

nostri intellettuali non provano a capire quali

sono le ragioni della violenza nel mondo

contemporaneo. Non si tratta di trovare spiegazioni

sociologiche nella emarginazione

sociale o nella crisi di identità del mondo giovanile.

Queste spiegazioni sfiorano la superficie

dei fenomeni, ma non provano ad andare

a fondo. Per chi scrivono i nostri giornalisti,

opinionisti, saggisti, ecc.? Cosa comunicano

a un ragazzo di diciotto anni gli articoli dei

maggiori quotidiani nazionali? L’autoreferenzialità

delle varie "corporazioni", giornali,

università, scuola di partiti, ecc., è un segno

di frantumazione particolaristica e di opportunismo

individuale che non implicano

alcuna responsabilità verso ciò che si dice e

si scrive.

Il rapporto con la realtà e con la verità, ossia

con ciò che si svolge nella vita delle persone

reali, è irrilevante: nessuno aiuto a capire,

ma solo pedanterie saccenti e prescrizioni

sull’ipotetico dover essere di un mondo

che "deve" corrispondere alle proprie

idee preconcette. Questo è un punto decisivo:

i giovani capiscono che i nostri articoli, i

nostri libri di testo, i nostri corsi universitari

non parlano della vita, che usano un linguaggio

"pregiudicato" da un rapporto vecchio

con le novità del modo di vivere attuale.

Nessuno aiuta i giovani a capire che rapporto

c’è fra il linguaggio quotidiano e le

forme di vita in cui sono immersi. Gli adulti

che hanno comunque il potere di "nominare"

le cose, i i commentatori autorizzati hanno

l’interesse contrario: non mettere in discussione

il proprio linguaggio "specializzato"

per non mettere in discussione se stessi.

Una classe dirigente che non è capace di

pensare a come una scuola che educa a diventare

persone sia in grado di leggere e interpretare

il mondo in cui viviamo, non è degna

di essere tale perché tradisce l’unica vera

missione universale a cui gli uomini sono

chiamati: educare i propri figli a liberare la

propria mente dai pregiudizi e dalle ipocrisie

opportunistiche e provare a cercare l’autonomia

e la creatività attraverso il confronto

con il mondo degli adulti.

Chi non ha il coraggio di denunciare le

malattie della scuola come sintomo delle

malattie del nostro paese, di esprimersi contro

il blocco del pensiero creativo e il genocidio

culturale a cui tutti, destra e sinistra,

partecipano in una complice alleanza per la

sopravvivenza del proprio potere, merita di

essere accusato di codardia.

Tutte le scadenze dell’agenda politica possono

essere affrontate con il buon senso e il

realismo (penso a tanti commenti di Sergio

Romano che mi sento di sottoscrivere, dalla

politica estera alla giustizia), ma la riforma

della scuola richiede uno scatto morale e intellettuale

di cui allo stato non vedo alcun segno.

Una svolta nelle impostazioni degli studi,

specie in quelli superiori, che costringerebbe

a muoversi nella direzione di un nuovo

modo di pensare, sarebbe quella di educare

giovani a prendere le mosse dell’analisi

grandi temi nella società contemporanea

non dai concetti definitori dei vari saperi

disciplinari. Ad esempio il tema dell’alimentazione

potrebbe essere l’asse culturale di

una facoltà che abbracci la dimensione storica,

la dimensione sociale, la dimensione

biologica, ecc. Una facoltà della salute potrebbe

essere il supporto di uno studio che

abbraccia la storia, l’antropologia, i sistemi di

diagnosi e ancora, le tecniche di organizzazione

e la tutela giuridica della persona.

Ripensare la scuola e l’università deve significare

un rapporto comprensibile e stimolante

tra le forme definitori dei saperi istituiti

i fenomeni della vita che si presentano

unitariamente alle nostre esperienze.

Pietro Barcellona da "La Sicilia"







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