La scuola italiana: un mostro burocratico da smantellare
Data: Venerdì, 22 agosto 2008 ore 09:59:35 CEST
Argomento: Rassegna stampa


da Corriere della Sera

LA CRISI DI UN'ISTITUZIONE UNA SCUOLA PER L'ITALIA di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Tra neppure un mese la macchina della scuola italiana ricomincerà a macinare lezioni ed esami. Una gigantesca macchina fatta di circa un milione di dipendenti, di migliaia di edifici frequentati da milioni di studenti, pronta anche quest'anno ad allestire milioni di iniziative le più varie, a sfornare tra circolari, lettere, verbali e registri, il solito astronomico numero di tonnellate di carta.
Una macchina gigantesca, appunto.
Ma senz'anima: che non sa perché esiste né a che cosa serva, e che proprio perciò si dibatte da decenni in una crisi senza fine. Crisi la cui gravità non è testimoniata tanto dai pessimi risultati ottenuti dagli studenti della nostra scuola nei confronti internazionali, ma da qualcosa di più profondo e di più vero.
Dal fatto che essa si sente un'istituzione inutile e in realtà lo è: apparendo tale, e dunque votata ineluttabilmente al fallimento, innanzi tutto alla coscienza dei suoi insegnanti, dei migliori soprattutto. La scuola italiana non riesce più a conferire alcuna autorevolezza a nessun fatto, pensiero, personaggio o luogo di cui si parli nelle sue aule. Non riesce più a creare o ad alimentare in chi la frequenta alcun amore o alcun rispetto, alcuna gerarchia culturale.
E perciò non serve a legittimare culturalmente — e cioè ideologicamente o storicamente — più nulla: non il Paese o il suo passato, la sua tradizione, e tanto meno lo Stato, la Costituzione, il sistema politico: nulla. Si possono tranquillamente frequentare le sue aule e non essere mai sfiorati dal sospetto che l'azione del conte di Cavour, o il Dialogo sopra i massimi sistemi, o una terzina del Paradiso rappresentano vertici d'intelligenza, di verità e di vita, posti davanti a noi come termini di confronto ideali, ma anche concretissimi, destinati ad accompagnarci in qualche modo per tutta l'esistenza.
Il sintomo politico più evidente della crisi in cui versa la scuola è il sostanziale disinteresse, venato di disprezzo, di cui, al di là di tutte le chiacchiere di maniera, essa è ormai circondata dall'intera classe dirigente, a cominciare per l'appunto dalla classe politica. Se il responsabile del Tesoro può impunemente tagliare i fondi destinati all'istruzione, infischiandosene di ogni possibilità di commisurare i risparmi alle esigenze di qualcuna delle ipotesi di cambiamento proposte dal volenteroso ministro Gelmini, ciò accade precisamente perché in realtà Tremonti, come tantissimi altri suoi colleghi, non sa a che cosa questa scuola possa davvero servire, e in essa non riesce a vedere altro che una macchina erogatrice e sperperatrice di risorse.
Come di fatto, peraltro, essa rischia ormai di essere. La verità è che la scuola pubblica che l'Europa conosce da due secoli non è solo un sistema per impartire nozioni. Nessuna scuola autentica del resto lo è mai stata: deve impartire nozioni, come è ovvio, ma può riuscirvi solo se insieme — aggiungerei preliminarmente — è anche qualcos'altro, e cioè se al suo centro vi è un'idea, una visione generale del mondo.
La scuola pubblica europea è nata intorno al compito di testimoniare un'idea del proprio Paese, i caratteri e le vicende della collettività che lo abita, sentendosi chiamata a custodire l'immagine di sé e gli scopi di una tale collettività. Non può esistere una scuola pubblica mondial-onusiana, una scuola italiana che parli in inglese o esperanto.
Un sistema d'istruzione pubblico appartiene sempre a un contesto culturale nazionale. Questo è il punto, dunque qui sta il cuore del problema: alla fine, nella sua sostanza più vera, la crisi della scuola italiana non è altro che la crisi dell'idea d'Italia.
E' lo specchio della profonda incertezza di coloro che a vario titolo la guidano o le danno voce - i governanti, gli apparati dello Stato, gli imprenditori, gli intellettuali, l'opinione pubblica - circa il senso e il rilievo del suo passato, circa i suoi veri bisogni attuali e quello che dovrebbe essere il suo domani. Il profondo marasma della nostra scuola, il grande spazio preso in essa dal burocratismo, dalle riunioni, dalle questioni di metodo, dalle futilità docimologiche, a scapito dei contenuti, è lo specchio di un Paese che non riesce più a pensarsi come nazione da quando la sua storia ha attraversato negli anni '60-'80 la grande tempesta della modernizzazione. E' da allora che l'idea del nostro passato si sta dileguando insieme alla consapevolezza dei suoi grandi tratti distintivi. E non a caso è da allora che è diventato sempre più difficile anche organizzare il presente e immaginare il futuro. Da qui, per esempio, ha tratto origine la crisi che ha colpito a suo tempo le tradizionali culture politiche della democrazia repubblicana, e sempre qui sta oggi la difficoltà di vederne sorgere di nuove. Da qui, anche, la generale sensazione d'immobilismo che abbiamo da anni, quasi che dopo il trauma della modernizzazione non sapessimo più ritrovarci, non riuscissimo più a riprendere il bandolo della nostra storia e dunque non riuscissimo più a muoverci. Negli anni '90 la cesura che era andata producendosi nei tre decenni precedenti è venuta finalmente alla luce: ha definitivamente preso forma un'Italia nuova, ma questa Italia nuova non riesce più a pensare se stessa, non riesce più a pensarsi come un intero, come nazione, a progettare il suo futuro, perché non riesce più a incontrare il suo passato. Riappropriarsi di questo passato e della propria tradizione per ritrovarsi: questo è il compito urgente che sta davanti al Paese che sa e che pensa. Ed è alla luce di questo compito che esso deve ripensare anche l'intera istituzione scolastica, la quale solo così potrà riavere un senso e una funzione, e sperare di tornare alla vita. Ridare profondità storico-nazionale alla scuola, ma naturalmente in vista delle esigenze che si pongono all'Italia nuova di oggi e tenendo conto dell'ambito e dei contenuti propri degli studi. E cioè, non volendo sottrarmi all'onere di qualche indicazione, mirare innanzi tutto a ricostituire culturalmente (e per ciò che riguarda l'istituzione anche organizzativamente) il rapporto centro- periferia e Nord-Sud, riaffermando il carattere multiforme ma unico e specifico dell'esperienza italiana; in secondo luogo porre al centro, ed esplorare, il nostro tormentato rapporto con la modernità e i suoi linguaggi, mettendone a fuoco debolezze e punti di forza e cercando anche in questa maniera di costruirci un modo nostro di stare nei tempi nuovi, di averne l'appropriata consapevolezza senza snaturamenti e scimmiottamenti; e infine ribadire la funzione della scuola nella costruzione della personalità individuale, principalmente attraverso l'apprendimento dei saperi, delle nozioni, e la disciplina che esso comporta.
Tutto ciò facendo piazza pulita delle troppe materie e degli orari troppo lunghi che affliggono la nostra scuola, e ricentrando con forza i nostri ordinamenti scolastici intorno a due capisaldi: da un lato la lingua italiana e la storia della sua letteratura, cioè intorno alla voce del nostro passato, e dall'altro le matematiche, cioè il linguaggio generale del presente e del futuro universali.
A questo punto ci si può solo chiedere: esiste un governo, esistono dei ministri in Italia? Personalmente mi ostino a pensare di sì. E a credere che ogni tanto gli capiti perfino di ascoltare i gridi di dolore, come questo, che si levano dai giornali.

Dibattito  su  Galli  Della  Loggia  

 

Quarant'anni da smantellare  

 

di MARIASTELLA GELMINI ministro dell'Istruzione  

 

Caro direttore  

 

Giusto e ingeneroso. Così mi appare l'editoriale di ieri di Ernesto Galli della Loggia sulla scuola italiana e la sua crisi. 
Giusto nell'analisi sulla condizione della scuola di oggi, nel cogliere la sua «perdita di senso».
Da11968 a oggi la scuola è diven­
tata quello che non può e non deve essere: un ammortizzatore sociale, una macchina erogatrice di stipendi — per giunta inade­guati — per gli insegnanti. Una tipografia di diplomi — inutili e inutilizzabili - per gli studenti. Un mostro burocratico produt­tore di normative e circolari che si contrad­dicono l'una con l'altra. In quarant'anni di ideologia «politicamente corretta», di do­minio ideologico della sinistra, la scuola è diventato tutto questo e ha perso il senso della sua missione: la formazione culturale e professionale dei giovani e, insieme, la costruzione del futuro di una nazione. 
Galli della Loggia è però ingeneroso quando accusa il governo di considerare la scuola niente più che un inutile costo da tagliare. Da quando ho assunto la responsabilità di ministro ho avanzato alcune proposte per cambiare uno stato di cose non più tol­lerabile. Voglio ricordarne alcune. Voto di condotta, divisa scolastica, insegnamento dell'educazione civica, ritorno al maestro unico, rilancio degli istituti tecnici e della formazione professionale. Autorevolezza, autorità, gerarchia, insegnamento, studio, fatica, merito.
Sono queste le parole chia­
ve della scuola che vogliamo ricostruire, smantellando quella costruzione ideologi­ca fatta di vuoto pedagogismo che dal 1968 ha infettato come un virus la scuola italia­na. Idee che anche il ministro Tremonti ha esposto in una recente intervista.
Tutto questo passa per un' indispensabi­le e difficile ristrutturazione della scuola, di cui il governo, e in particolare chi scri­ve, si sono assunti la responsabilità. Ho condiviso finalità e misure della manovra economica del governo per i prossimi tre anni, oggi legge dello Stato; quella mano­vra prevede di ridurre il numero degli inse­gnanti e del personale ausiliario di meno del 1o% entro il 2011. In un Paese che ha oggi ìl più elevato numerò di addetti della scuola — ben un milione e 3oomila — in rapporto al numero degli studenti, è la pri­ma cosa da fare per riorganizzare la scuo­la.
Non possiamo pensare di cambiare fi­
no a quando ci rassegneremo all'idea che il 97% delle risorse destinate alla scuola ser­ve a pagare stipendi bassi e appiattiti. Inol­tre abbiamo introdotto un principio nuo­vo e virtuoso: un terzo dei risparmi sarà de­stinato a investimenti per migliorare la scuola, per cominciare a spargere i semi del merito e dare un senso alla parola auto­nomia Sta in queste considerazioni la nostra vi­sione di una scuola che riconquisti il sen­so della sua missione, che restituisca al fu­turo la parola speranza, che rimetta al cen­tro il merito e la responsabilità.
Nella mia
audizione alle commissioni parlamentari ho parlato della necessità di tornare alla «quarta I» di italiano, intesa come lettera­tura, storia, tradizione, cultura. Noi voglia­mo una scuola che insegni a leggere, scri­vere e far di conto. Una scuola in cui si tor­ni a leggere I Promessi Sposi e dove non si dica più che lo studente dovrà «padroneg­giare gli strumenti espressivi ed argomen­tativi indispensabili per gestire l'interazio­ne comunicativa verbale in vari contesti». 
Ringrazio Galli della Loggia per avermi riconosciuto buona volontà, e nel ringra­ziarlo gli chiedo di riconoscere a me, a tut­to il governo e alla maggioranza una visio­ne, una cultura, un'idea dell'Italia e del suo futuro, e, insieme, un progetto per la scuo­la italiana.
Un progetto che, non mi stan­
cherò mai di ripeterlo, è aperto a tutti i contributi e vorrei vedesse tutti i protago­nisti della scuola — studenti, insegnanti, famiglie — consapevoli del fatto che è im­possibile difendere lo status quo e parteci­pi di un corale impegno, un impegno na­zionale, per restituire alla scuola il senso della sua missione.

 Dalla “ Padania”  

 

Gelmini: ecco le mie riforme«Il '68 andrà in soffitta»  

 

CARLO PASSERA 

 

Mariastella Gelmini ha letto con attenzione l'inchiesta de !a Padania sul mondo della scuola. Chiamata in causa, accetta volentieri di rispon­dere alle nostre domande. 
Gentile ministro, 2 com• pito gravoso quello di chi, come lei, 2 chiamato a ge­stire la "partita" della scuo­la, "paradigma dei ritardi e delle inefficienza che afflig­gono la società italiana", co­me ha scritto Aldo Fuma- galli. Vorrei chiamarla a un'esplorazione del mali che affliggono la scuola italiana. Quali i "peggiori nemici" che si sente chiamata ad affron­tare? 
'Nel odo esorcvoda ministro di fronte alle coni fissioni par­lamentari ho sottolineato la- spetto che a me appare cru­ciale nella crisi della scuola italiana. E la "perdita di senso.' della scuola, che non risponde pizi al suoi compiti. La scuola non può essere un ammor­tizzatore sociale, una macchi­na erogatrice di stipendi - per gju nte inadeguati - per gli in­segnanti. la scuola non può essere una baby-situaa basso costo per le famiglie. la scuola non può essere una tipografia di diplomi - inutili e m uti­;Viabili - per gli studenti. Ep­pure negli ultimi quaranta an­ni la scuola è diventato tutto questo e ha perso il senso deva sua esistenza: la forma­zione culturale e professionaledel giovani. Li costruzione del futuro di una nazione. Ecco. il compito che io credo gli ita­liani abbiano dato alla nostra maggioranza. al Governo e a ne in particolare è quello di restituire alla scuola la sua funzione nella società,
A proposito dei mali che affiggono la scuola, Giulio Tremonti riassumeva gli sforzi che sl è chiamati a operare in una formula "po­litica": Abrogare ll'68-. Lei i d'accordo? 
Nella scorsa legislatura, quando eravamo all'opposi­zione. ho presentato un im­portante progetto di legge per il riconoscimento del merito nella scuola. nell'università e nel lavoro. Riconquistare d va­lore della meritocrazia è la mia battaglia politica da prima che diventassi ministro. Giulio Tremonti. che ha vissuto II '68. indica con ottiene ragioni in quella stagione ideologica la nascita di molti Inali della scuola e della società attuale. Io non ho vissuto quell'epoca. ma ho patito quotidianamen­te nella mia vita di studen­tessa i mali della scuola ita­liana Anche per questo con• divido la sua analisi e ritengo indispensabile che nella scuci­la. ma anche nella società, si affermino alcuni valori: re­sponsabilità, gerarchia. ri­spetto dell'autorità e dell'au­torevolezza. meritocrazia. li­bertà. sussidiarietà. Ma vado oltre. La scuola è unistUu• zione fondamentale dello Stato mcxiemo, come le pensioni, come la salute. Dobbiamo avere nel confronti della scuo­la la stessa tura. La stessa attenzione che dedichiamo a pensioni e salute dei nostri concittadini.. 
Abbiamo scritto: "troppi i professori impreparati e/o Ideologizzati". Quanto 2 d'accordo? 
-Dirò di pii: troppa ideo­logia per giustificare troppa trnprcparazione. E non solo da pane degli insegnanti. Le rac­contcni un episodio a cui ho assistito prima dl diventare ministro e che dà la misura dl come si sia perso v senso delle cose. Mi trovavo la un bar all'ora della priora colazione e stavo aspettando il odo caffè. mentre una mamma confi­dava ad un'amica la sua preoccupazione per la figlia che in quelle ore stava af­frontando gli esami di licenza: l amica - per rincuorarla - con grande convinzione disse: 'Ton ti preoccupare. tua figlia è minorenne, e per legge un minorenne non può essere bocciato". Naturalmente non è vero, ma quella signora ne era convinta. E questo v frutto malato dell'ideologia egualita­ria della quarantennale lotta contro la meritocrazia com­battuta dalla sinistra del -vo­to politico-. della lotta alla discriminazione elassLcti . di lutto quell'armamentario ideologico che ha portato la scuola italiana a smarrire II senso della sua missione. Una ideologia che ha messo tutti d'accordo nel peggiore dei compromessi: per gli lnse­panti poco impecio richiesto in cambio del basso stipendio offerto; per gli studenti pro­mozioni automatiche in cam­bio di un insegnamento di scarsa qualità: per le famiglie. a fronte delle non poche tasse pagate, l'illusione di un titolo di studio - del 'periodi carta" - che renda migliore la con­dizione sociale dei loro figli e la credenza che tutto questo sia gratis. che non lo paghino lo­ro'.  

 

Ci si trova in una situa­zione abbastanza parados­sale: il mondo della scuola ha subito negli ultimi de­cenni una serie continua dl mini-riforme, senza però di fatto essere interessato a un vero cambiamento organi­co. E anche lei convinta che serva una forte sterzata, che la scuola italiana non possa sottrarsi a un serio cambia­mento, che le politiche ri­formiste - colonna portante dell'attuale Governo - non possano non interessare il suo dicastero? 
'Ho esordito sostenendo che nella scuola abbiamo bi­sogno di cambiamento, ma non di riforme. Può sembrare un paradosso. ma nel decenni abbiamo assistito a riforme globali della scuola italiana ed v risultato è quello che co­nosciamo. Per troppi anni le innervazioni a stuoli sono sta‑te nel segno dell'ideologia egualitaria, del pedagogismo di sinistra secondo il quale bocciare non è formativo e la condotta, il comportamento, non devono essere oggetto di giudizio. Per troppi anni ci siamo accapigliati sulla rifor­ma dei cicli scolastici, discu­tendo per anni sulla durata della scuola dell'obbligo, sui contenuti dell'insegnamento, sui programmi ministeriali e sull'autonomia della scuola e dell'insegnante. In tutto que­sto discutere tra specialisti, abbiamo perso di vista alcune domande fondamentali. A co­sa serve la scuola? È giusto che tutti abbiano la stessa identica formazione, o forse ciascuno dovrebbe seguire le sue inclinazioni? Dobbiamo premiare chi merita o puntare a rendere tutti uguali? La scuola serve a formare buoni cittadini, capaci di leggere, scrivere, far di conto, stare e lavorare con gli altri, oppure è il luogo dove apprendere come rivendicare i propri diritti? Per questo io faccio mio il motto che fu di Giuseppe Verdi: 'Tor­niamo all'antico e sarà un grande progresso"». 
Negli ultimi anni abbiamo assistito, come dicevamo, a una serie di riforme pun­tualmente disattese dal Go­verno successivo: uno stil­licidio pernicioso per la scuola, già in difficoltà di suo. Per cambiare la scuola, così come per cambiare l'as­setto istituzionale del Pae­se, può essere utile il "me­todo Bossi-Calderoli"? Ossia la ricerca di dialogo e scelte condivise con l'opposizio­ne? Nello stesso tempo, lei è pronta a un possibile scon­tro col sindacato della scuola, che appare assai conser­vatore?  

 

«La ricerca del dialogo, del confronto parlamentare fa parte della natura stessa delletato già un disegno di legge che comprende alcune pro­poste di cambiamento (il voto di condotta, il grembiule o me­glio l'uniforme scolastica, l'e­ducazione civica) e attendo su questo il punto di vista del­l'opposizione. A cui però non possiamo riconoscere diritto di veto. Io non credo che esi­stano soluzioni ai problemi di carattere "tecnocratico", poli­ticamente neutrali; non credo alle "commissioni Attali" e al­l'idea che basti mettere le mi­gliori intelligenze intorno ad un tavolo per risolvere i pro­blemi. I guai della scuola sono il frutto delle idee di molte che, al momento in cui erano in auge, erano considerate le mi­gliori intelligenze della peda­gogia italiana. Quanto allo scontro, non sarò certo io a cercarlo. Se i sindacati hanno a cuore gli interessi dei loro rappresentati, non sarà dif­ficile per loro comprendere che la nostra azione mira a riorganizzare la scuola per da­re anche agli insegnanti il giu­sto riconoscimento delle loro professionalità. Se invece si arroccheranno nella difesa dello status quo, avranno an­che il consenso di qualche sacca marginale di chi teme la meritocrazia e vuole difendere il privilegio, ma perderanno il contatto con la maggioranza dei protagonisti del mondo della scuola». 
 
La Lega ha suggerito qual­che idea attraverso le pagine di questo giornale. Le chie­do un commento a ognuna di queste. La prima: lingua, storia, cultura e tradizioni locali materia di insegna­mento. Assurdo, ad esem­pio, che un veneto studi po­co o nulla della Serenissima. L'on. Paola Goisis ha pre­sentato un progetto di legge in questo senso... 
«La scuola è la più impor­tante istituzione unificante in una nazione., ha avuto un ruolo essenziale nell'insegna­scuola è anche espressione del suo territorio e non può fare a meno di dare siste­maticità e dignità culturale al­le tradizioni e alle espressioni linguistiche e culturali del ter­ritorio. Quanto alla Serenis­sima, la Goisis ha ragione: trovo assurdo che un italiano, un europeo ne studino poco o nulla, non solo un veneto». 
Altra proposta leghista: far terminare la pratica dei libri di testo che cambiano ogni anno. Non ha senso scientifico ed è un salasso per le famiglie. 
 
«Per la prima volta que­st'anno abbiamo introdotto il tetto di spesa per i libri nelle scuole. L'80% degli istituti l'ha rispettato A scuola si inse­gnano conoscenze che non mutano di anno in anno e che hanno resistito qualche mi­gliaio di anni, come il teorema di Pitagora o il principio di Archimede. Sono convinta del fatto che un libro di testo deb­ba rimanere sul mercato per alcuni anni. Io ho ancora i miei libri della scuola supe­riore e, talvolta, li consulto. Apprezzo poi quello che fanno, ad esempio, nelle scuole bri­tanniche. Dove i libri di testo fanno parte della biblioteca scolastica e vengono dati in uso, anno per anno, agli stu­denti. Che devono anche trat­tarli con cura, perché altri­menti le loro famiglie devono rifonderli alla biblioteca. Inol­tre, poiché ogni studente che ha avuto in prestito il libro dalla scuola scrive il suo nome e mette la sua firma in una tabellina che riporta i nomi di chi ha avuto in prestito il libro negli anni, c'è una ulteriore responsabilizzazione dello studente. Se il libro sarà ro­vinato, chi lo riceverà dopo di me saprà che è per colpa mia Un abisso rispetto alla totale mancanza di cura che viene indotto negli studenti italiani con questo metodo del libro "usa e getta"». 
Altra proposta: creare "classi-ponte" per chi - adliano. Prima di essere as­segnato alla classe relativa alla sua età, lo aspetta una "full-immersion" nella no­stra lingua, proprio attra­verso queste "classi-ponte" (pdl della senatrice Irene Aderenti). 
«Vado oltre. La scuola ha un ruolo fondamentale nell'inte­grazione dei figli degli stra­nieri. Intanto io sono total­mente contraria all'idea che un clandestino possa iscrivere il proprio figlio a scuola. Nel momento in cui questo ac­cade, il clandestino si denun­cia pubblicamente e noi ab­biamo il dovere di espellerlo. Accettare il fatto che i clan­destini possano godere degli stessi diritti degli stranieri im­migrati regolarmente è una forma di discriminazione inaccettabile nei confronti di chi rispetta le nostre leggi. In secondo luogo noi dobbiamo esigere che i ragazzi stranieri che frequentano le nostre scuole, come è loro diritto, possano avere le stesse op­portunità degli italiani. Per questo dobbiamo insegnare innanzitutto la lingua, e l'idea di corsi ad hoc è sicuramente buona. Ma questo ausilio deve durare poco, il tempo neces­sario per imparare i fonda­menti dell'italiano. Il resto lo farà la scuola, la vita quo­tidiana, il gioco insieme agli amici. Dobbiamo combattere l'idea che hanno molti stra­nieri di rinchiudersi in un ghetto linguistico, di tradizio­ni, di stili di vita, alimentare. Per questo non dobbiamo ave­re classi scolastiche con un numero prevalente di stranieri, ma qualche straniero in ogni classe. Per questo non ha senso prevedere alla mensa scolastica il menù islamico e non quello per i ragazzi celiaci, come purtroppo spesso ac­cade. La mia idea di integra­zione è esattamente opposta a quella della sinistra: loro pen­sano che integrazione voglia dire portare in Italia lo stile di vita degli stranieri. Io credo che gli stranieri debbano in-tegrarsi nella nostra società, nelle nostre regole, nel nostro stile di vita». 
Un'idea di Bossi e Tre- monti: via i giudizi, tornare ai voti anche nella scuola primaria. 
«La condivido. Un'idea da 10 e lode. La realizzeremo». 
Un'idea di Bossi, che piace anche a Tremonti: tornare al maestro unico. A questo proposito, breve digressio­ne: lei è stata protagonista di una simpatica "esterna­zione" di Bossi a Pontedi­legno, proprio sulla neces­sità di tagliare sprechi an­che nel mondo della scuo­la... 
«Una buona idea al di là del beneficio per le casse dello Stato. Nella formazione di un bambino occorre tornare al­l'autorevolezza del maestro o della maestra, punto di ri­ferimento certo per il bam­bino. E che sia lo stesso per tutto il ciclo scolastico. A pro­posito, ci pensa lei a dire a Bossi che non ho mai chiesto un euro in più di quello che il Parlamento ha votato con la manovra triennale? Chi glie­l'ha detto che io non voglio tagliare spese e sprechi? Bossi è un bravo fieli ma qualche volta non è ben informato... A parte gli scherzi, sono io la prima ad essere convinta che la scuola, come dice Bossi, vada riorganizzata e debba co­stare meno di quello che co­sta. E che non sia possibile andare avanti con un bilancio che destina ìl 97% delle ri­sorse agli stipendi e solo il 3% a tutto il resto. Con Bossi e la Lega abbiamo già molto di­scusso di questo e andiamo d'amore e d'accordo». 
Ultima proposta, ma non perché meno importante: la creazione di albi regionali di professori, basati sul crite­rio della residenza, in modo da avere insegnanti "del ter­ritorio". Il progetto di legge è stato presentato dal sen. Mario Pittoni. 
«Anche in questo caso vado oltre. In tutti i luoghi di lavoro del mondo le inserzioni per la ricerca di personale portano ben scritto: "Sede di lavoro: Milano", oppure Torino, Na­poli, Bologna, e così via. Quando si prende un lavoro, si assume un impegno e ci si trasferisce nel luogo di lavoro. È solo nello Stato, in Italia, che si prende un lavoro dove c'è e, poco dopo, si chiede - e spesso si ottiene - il trasferimento altrove. Non dobbiamo fermarci solo al rapporto tra la residenza e il lavoro, ma dobbiamo introdurre un principio. Se un maestro va ad insegnare in un istituto, non potrà cambiare  istituto almeno fino al completamento di un ciclo, cioè dopo cinque anni. E, in ogni caso, ogni trasferimento dovrà essere compatibile con le esigenze del servizio scolastico. La scuola è innanzitutto al servizio di stu­denti e famiglie, non del per­sonale della scuola. Il mio di­segno di legge sulla stabiliz­zazione delle supplenze va già in questa direzione. In ogni caso io credo che la proposta Pittoni contenga spunti molto interessanti». 
Come avverrà quindi in futuro il "reclutamento" de­gli insegnanti? 
«L'insegnamento è una pro­fessione complessa che richie­de molte capacità: conoscere la materia che si insegna è la prima di queste, anche se non sempre è così ovvio nella scuola italiana; occorre poi sa­per trasmettere la conoscenza e saper valutare gli studenti. Per quanto possiamo cercare di mettere a punto metodi per "fabbricare" bravi insegnanti, sarà solo l'esperienza a sta­bilire se un'insegnante è bra­vissimo, bravo, meno bravo o inadeguato (in voti andiamo da 10 al 5). Per questo io credo che dobbiamo creare le condizioni perché sia l'autonomia delle scuole a decidere quali sono gli insegnanti capaci. Se una scuola ha buoni inse­gnanti, è possibile che sia scelta da più famiglie di un'al­tra. E se ha più alunni, ri­ceverà maggiori risorse. In­somma possiamo creare un meccanismo competitivo, così come esiste in altri lavori nel mondo dell'impresa privata». 
La scuola era una delle materie oggetto della Devo­lution approvata dal prece­dente Governo di centrode­stra e poi annullata dal re­ferendum. Come e in quale misura Roma dovrà nuova­mente cedere competenze agli enti locali, nell'ambito di una complessiva riforma federale del nostro Stato? 
«La prossima riforma che discuteremo e approveremo in Parlamento è il Federalismo fiscale. Allora decideremo co­sa tassare e come, chi potrà impone tasse e quali desti­nazioni avranno. È l'occasione per una profonda riorganiz­zazione della Repubblica. ita­liana. Io credo che il criterio fondamentale da seguire sia il principio di sussidiarietà, sia in senso verticale, che in sen­so orizzontale, come si usa dire in scienza politico. Ossia secondo due direttrici. La pri­ma per cui l'amministrazione pubblica si occuperà solo delle funzioni che non possono es­sere svolte dai privati, la se­conda che stabilisce che le funzioni pubbliche dovrebbe­ro essere svolte dall'ente ter­ritoriale più vicino ai cittadini (i Comuni), e che possono es­sere delegate ai livelli ammi­nistrativi territoriali superiori (Province, Regioni, Stato) solo se questi possono rendere il servizio in maniera più effi­cace ed efficiente. Se segui­remo questo principio demo­cratico, allora sì che avremo fatto la rivoluzione». 







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