IL RAPPORTO TRA POESIA E CONOSCENZA
Data: Domenica, 29 giugno 2008 ore 09:54:25 CEST
Argomento: Redazione


 

Che cosa insegnano i testi poetici?
Una conoscenza che cambia la mente

Con il titolo «Che ne sanno i poeti?» la ri­vista 'Atelier' (n. 50, giugno 2008) af­fronta un argomento di non poco inte­resse: il rapporto fra poesia e conoscenza. L’e­pigrafe del fascicolo è una frase di Mario Luzi: «ma più che vivere, devi anche conoscere». E Giovanni Tuzet, annunciando nell’editoriale che la discussione continuerà nei prossimi nu­meri, formula così il problema: «Spesso i poe­ti hanno l’aria di chi sa certe cose, magari non molte ma importanti (…) Fate questa prova. Leggete una poesia e chiedetevi che cosa vi in­segni. Avete imparato qualcosa dai suoi versi? Se no, è una poesia da buttare. Se sì, che conoscenza vi ha trasmesso? (…) In che senso la poesia potrebbe costituire una for­ma di conoscenza?». Aggiunge Tuzet che le di­mensioni conoscitive che i poeti possono e­splorare sono almeno tre: la dimensione rea­listica e storica, la dimensione umanista o psi­cologica e morale, la dimensione metafisica o spirituale e religiosa.
Non posso riassumere in poche righe le mol­te cose che i venti autori di questo numero hanno da dire su poesia e conoscenza. Provo a fare un telegrafico bilancio delle mie opinioni elementari in proposito. 1) Meglio evitare le definizioni filosofiche e teoriche di poesia e constatare invece di volta in volta che cosa (co­noscitivamente) avviene in particolari testi poetici (l’epica e il dramma in versi non van­no messi però sullo stesso piano della lirica). 2) È bene ricordare che anche le forme di co­noscenza sono tanto varie quanto gli oggetti, gli scopi e le circostanze della conoscenza: L’in­finito
di Leopardi conosce una cosa, I fonda­menti della teoria della relatività generale di Einstein ne conoscono un’altra. 3) Ci sono poe­sie che si propongono di conoscere qualcosa e altre che allargano le nostre facoltà conosci­tive. 4) In poesia la verità passa attraverso l’il­lusione senza cancellarla e riproduce un’e­sperienza vissuta. Ogni poesia infine cambia la forma della nostra mente e questo prelude a conoscenze ulteriori.(Da Avvenire)   M.Allo

 Vi proponiamo Claudio   Damiani  poeta la cui ricerca risale  alle fonti dell’antica saggezza cinese, ma secondo l'interpretazione di Davide Rondoni "frega i critici"



Claudio Damiani è un poeta che incontra i lettori e frega i critici. Nel senso che ha in sé tanti elementi "riconoscibili" (le ascendenze classiche, petrarchesche, pascoliane, addirittura i prelievi, le citazioni nascoste o pure esibite) che subito ai criticuzzi nostrani vien l'acquolina in bocca e tiran fuori le loro categoriucce per sistemarci la "salma" della sua poesia. Solo che lei è viva. Vivissima. Ultracontemporanea e guizzante tra le insidie e i drammi del nostro tempo come poche altre. Ed è fresca, ragazzina. E quelli restano coi loro catafalchini, coi loro aggeggi e le loro bocche penzoloni... Insomma, quando Claudio in poesia si rivolge ai suoi figli, o quella specie di figli "lontani" che sono i suoi scolari, o tratteggia i luoghi con il nitore profondo del poeta concentrato sul gioco grandioso e drammatico degli equilibri universali, compie nei nostri confronti o meglio nei confronti della nostra possibile pigrizia di lettori uno spaesamento. Come quando ti trovi, ad una cena che ritieni un po' elegante, una ragazza senza trucco. E i lettori di poesia, oggi raramente abituati a donne senza trucco, restano un po' basiti. Sarà bella o è solo uscita in fretta di casa ? E' così per superbia o per umiltà ? O è così perchè è così...
La sua storia di poesia è non tanto una fedeltà al programma d'essere poeta in controtendenza. Non ne ha nemmeno il fisico del ruolo. E' in controtendenza alla maggior parte della nostra poesia attuale semplicemente perchè la sua storia è -anche se i più non lo colgono - una tremenda, disperante, buissima e quasi bruciante ricerca. Io lo credo. Voglio dire che mentre sembra che la sua poesia trovi, per così dire, già apparecchiati dalla ricchissima tradizione italiana gli strumenti, i versi, i ritmi e i temi, donde ne viene che lui appaia come un contento epigono di un inarrivabile passato, eh no! - Damiani è uno che si sta giocando la vita (in tutti i sensi) per trovare non un punto di fuga, ma il punto di sostegno, non il punto di armonia astratta, ma l'intreccio nella stiva. E' uno disperatamente impegnato nella navigazione della nostra epoca. E' laggiù, nella stiva, a sondare la chiglia della barca, a veder se tiene, e come è possibile. E mentre altri poeti se ne stan su a coperta, a sonnecchiare bisbigliano versucoli, lamentucoli politici, gingillandosi con oggettini di pregio in mezzo alla tempesta, lui se ne sta giù, dove devon tenere le stramaledette giunture, dove devono (speriamo) trovarsi al punto esatto gli incroci. E' giù, nella stiva. E su, sul pennone. A veder le nuvole, a sentir l'aria. Se c'è l'azzurro nella tempesta. O se questo tempo nostro, così colpito e distratto da ogni cosa veramente umana, è ormai una carcassa di nave destinata a proceder casualmente, a sbattere di onda in scoglio fino al disfacimento. No, lui cerca le incisioni esatte, i legamenti, i punti cardinali. E poichè non è un babbeo (far l'insegnante aiuta a uscire dalle immagini di bella o brutta umanità che si fanno gli intellettuali) sa che la lingua che abbiamo a disposizione in poesia non è un borborigma sacerdotale. E' una disponibilità. E' una scena che include il lettore. Lo può fare con gli spasmi di un Testori (c'è autore più lontano da Damiani?) o con il nitore di tovagliolo che pulisce gli angoli della bocca alla donna amata di Claudio. Per questo i suoi lettori lo amano. Perchè da lui sentono la vita cercata e onorata. E si sentono serviti. Da uno che, come il vero cameriere esperto di cibi prelibati e vini sopraffini, non la fa tanto lunga e non chiacchiera troppo. Ma sta discosto dal tavolo, e con un gesto esatto e con la parola appropriata offre il meglio. Gli antichi la chiamavano misura. Che è lo stesso che dire: ricerca smisurata.

P ochissimi poeti del nostro tempo sanno, come Claudio Damiani, cogliere il senso di ciò che scrisse nel 1913 Ezra Pound: « la tradizione è una bellezza che noi preserviamo, e non una serie di catene che ci legano. Un ritorno alle origini rinvigorisce perché è un ritorno alla natura e alla ragione. L’uomo che torna alle origini lo fa perché desidera comportarsi nel modo eternamente saggio, e cioè naturalmente, ragionevolmente, intuitivamente » . In tutte le sue raccolte di versi Damiani ha saputo fare di un tale sentimento della tradizione la fiamma viva, la Stimmung di fondo della propria voce: tutta la sua opera è innervata, nella ricerca di una verità umile e alta, naturale e creaturale, da un dialogo assai personale con alcuni maestri della lirica greca e latina ( Teocrito, Orazio, Virgilio) e insieme con gli autori del Novecento più capaci di posare sul mondo uno sguardo giusto e quieto, limpido, estatico: poeti come Pascoli, Saba, Bertolucci.
Con la nuova raccolta
Sognando Li Po Damiani allarga ulteriormente il suo confronto con i classici arrivando a dialogare, proprio come Pound, con i grandi lirici cinesi dell’epoca T’ang. Il nucleo centrale del libro è una riscrittura in settenari ( a partire dalla traduzione di Martin Benedikter) del Canto dell’eterno dolore di Po Chü- i, un poemetto composto per la tragica storia d’amore dell’imperatore Hsüan- tsung con la concubina Yuang Kuei­fei. Attorno a questo nucleo si dirama un piccolo, fantastico florilegio di testi liberamente ispirati al mondo della poesia cinese. Se il dolore è, come insegna il Buddha, intrinseco alla condizione umana, ciò che Damiani sa mostrarci è la possibilità di resistergli semplicemente rendendo più sciolto e flessibile il nostro cuore, cioè abbracciando l’invito dei maestri taoisti ad abbandonarci al tempo, al ritmo delle stagioni, all’alternanza tra la luce lunare e le lacrime della pioggia, al peso della malinconia come all’ebbrezza leggera del vino. Grazie alla forza di questo abbandono, nessun dolore è mai per sempre: tutto si sposta, anche le cose che ' sembrano immobili'. Ma in questo spostarsi c’è un quid che permane, e che si potrebbe chiamare solo, forse, la bellezza ultima, irriducibile dell’essere, il fondo senza fondo del cielo: « vedo le diecimila cose che cambiano / restando perfettamente uguali » .







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