RIGONI STERN:L'ULTIMO DEGLI UROGALLI
Data: Sabato, 21 giugno 2008 ore 09:15:05 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Rigoni Stern, l’ultimo degli urogalli

 

In un’intervista recente, l’uomo che per cinque anni fu alpino e soldato in giro per l’Europa (Francia, Russia, Grecia, Albania), tra fanghi e nevi, fucili e gavette, morti e povera gente appena viva, e per i restanti ottanta fu uomo nato, cresciuto, esistito e consistito nella sua terra d’origine (Asiago e i suoi altipiani), tra boschi, natura georgica e natura selvosa, disse che, per la verità, ormai gli urogalli di uno dei suoi libri più famosi (Il bosco degli urogalli, 1962) stavano scomparendo. Alla fine, è scomparso anche il cantore degli urogalli (comunemente noti come galli cedroni), che tanta parte della propria ossatura artistica e letteraria se l’era costruita alternando e intrecciando le memorie di genti in guerra con il racconto quotidiano dell’uomo ricollocato entro l’organismo vivo della natura, né oleografica, né salvifica, ma profondamente saggia in virtù delle proprie leggi e dei propri delicati equilibri tra prede e cacciatori, territori e microclimi, cicli vitali e abitudini di specie.

 

La responsabilità del sottufficiale

 

Mario Rigoni Stern era nato ad Asiago nel 1921, ad Asiago è morto lunedì 16 giugno del 2008. A noi, resta la sua opera compatta, dal vero e splendido esordio letterario del 1953, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia, pubblicato nella famosa collana dei “Gettoni” einaudiani di Elio Vittorini, passando per Il bosco degli urogalli (1962), Storia di Tönle (1978), Uomini, boschi e api (1980), fino ad Arboreto selvatico (1991), Le stagioni di Giacomo (1995) e oltre.

A proposito del Sergente, «eccezionale diario del tutto privo di enfasi e di retorica […] certamente una delle più intense testimonianze dell’assurdo orrore di ogni guerra» (Toni Iermano), lo scrittore Eraldo Affinati, curatore delle opere di Rigoni Stern (Storie dell’altipiano, I Meridiani Mondadori, 2003) e autore dell’importante saggio d’introduzione Mario Rigoni Stern: la responsabilità del sottufficiale, va al cuore del contenuto etico e artistico del libro: «Come vogliamo chiamare la tregua istintiva che scatta fra gli avversari pronti a riconoscere in se stessi l’umana comune radice? Lo scrittore aveva composto una frase lapidaria in grado di riassumere tutto: “Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro”. Impossibile dirlo meglio». La “responsabilità” dell’uomo che stava dietro e dentro il “sottufficiale” è consistita nel porre senza veli come «oggetto […] l’uomo, visto in guerra, vittima e carnefice, esaminato al grado zero della sua umanità e della sua fragilità» (Folco Portinari), assegnando alla parola quella «dignità formale ritenuta moralmente necessaria e rispondente al valore dell’esistenza raccontata» (Enrico Testa). Ecco allora come si forgia, nel silenzio della casa “rosada” sull’altipiano coronato di monti e intriso del sangue dei caduti della prima guerra mondiale, quella «prosa ossuta, anzi rocciosa, dove la cosa riempie per intero la parola» (Walter Pedullà), dove la scrittura trova governo nella «semplicità stilistica della buona coscienza» (Geno Pampaloni).

 

Vibrazioni nella colloquialità

«Era uno scrittore classico, dalla visione lucida e dalla scrittura semplice, ma potente»: così, con sintesi efficace, si è espresso lo scrittore Ferdinando Camon. La «semplicità stilistica» è dunque misura e tensione di fondo nella prosa di Rigoni Stern. Come in tutti i grandi scrittori, tale misura scandisce i tempi di tutte le opere, da quelle maggiori a quelle più circoscritte. Prendiamo, per esempio, l’attacco di Inverni, delizioso, malinconico, minuto libello di frammenti memoriali incrociati con osservazioni su uomini, donne e natura di tempi e di luoghi diversi (Einaudi, 1999):

Il cuculo non canta più svolando tra gli alberi: se n’è andato lontano oltre il mare. A farmi compagnia dai boschi più alti sono scese le cince del ciuffo, che sulle betulle qui davanti alla finestra becchettano gli insetti, ogni tanto lanciando un richiamo che rallegra il mattino. Le rondini sono volate via con almeno venti giorni d’anticipo rispetto al solito. Anche le latifoglie, specialmente betulle e faggi, stanno cambiando prima del tempo.

C’è molto, se non tutto, per capire la scrittura di Rigoni Stern. In primo luogo, le misure sintattiche semplici, brevi, stringenti (il periodo monoproposizionale «Le rondini sono volate via…»), alternate con altre più distese e mosse («A farmi compagnia…»). Poi, l’andamento colloquiale «ma privo di affettazioni oralizzanti», nella «ricerca dell’essenzialità del “dire”» (Enrico Testa): «se n’è andato lontano oltre il mare». Poi, calmi lieviti di vibrazioni, ecco «leggerissime velature letterarie» (Enrico Testa), come il pascoliano svolare («svolando») in un esordio frasale che è una sorta di endecasillabo con accento di sesta sulla tonica del verbo chiave canta («Il cuculo non canta più svolando»); o come la rattenuta accensione metaforica del «richiamo [delle cince dal ciuffo, ndr] che rallegra il mattino». Più oltre, un gerundio-gerundivo incastonato in una rievocazione frugale dell’infanzia («gli attacchi dei costruendi sci») e, sempre in un contesto di affettuoso richiamo memoriale, un vocabolo dantesco che vale ‘frusta’ e anche ‘scudisciata’: il bambino mette in bocca una fettina di acida mela selvatica ed «era come una scuriata per andare avanti». Infine, come sempre quando l’autore osserva la natura, spicca la «tensione alla precisione terminologica attuata col ricorso ai vocabolari della botanica, dell’apicoltura, dei mestieri» (Enrico Testa): cuculo, cince dal ciuffo, latifoglie (con glossa limitativa ed esplicativa: «specialmente betulle e faggi») e, nelle pagine seguenti, grifone francese, colchici, viburni, pecci, i totemici urogalli, lo spago impegolato e il diramare la pianta, la forgia e il mantice.

 

In Rigoni Stern, netta è la scelta per la lingua nazionale. Il dialetto fa soltanto capolino, e senza intento coloristico, accompagnato da opportuna didascalia: «pascoli vegri, cioè non sfruttati».

In Inverni c’è, forte, un tono di interrogazione ed autointerrogazione, accompagnato da un rilascio meditato ma energico di esclamazioni, che sembra chiedere partecipazione e confidenza al lettore, trasformandolo in un ascoltatore (certo più giovane e inesperto, forse anche ragazzo, bambino) al cospetto del vecchio narratore che sciorina ricordi ed emozioni di fronte al camino, nella malga d’altipiano: «E chi aveva le camere riscaldate?»; «Insomma, che cosa importava se quando li restituivano avevano odore di vacca e di letame e se erano un po’ sciupati?» (si riferisce ai libri dati in prestito agli ex combattenti); «Era il 1938?»; «Ma dove, oggi, si potrebbe ritrovare quel sapore?»; «Non si vedevano persone grasse in giro!»; «Solo che io non avevo patate!»; «La guerra era finita e si riprendeva a vivere!»; «Che silenzio! Che tepore!»; «Sono passati quasi settant’anni!».

Silverio Novelli







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