Se lo scrittore divora se stesso
Data: Giovedì, 05 giugno 2008 ore 06:53:09 CEST
Argomento: Rassegna stampa


E' una fitta conversazione, dicevo, che ha per centro la domanda sul senso della letteratura e dello scrittore nell'epoca in cui tutto sembra doversi sciogliere in racconto e in cui, in fondo, gli scrittori vengono troppo spesso scambiati per meri intrattenitori. E se provassimo, tutti però, lettori e scrittori, a fare alcune mosse diversive?(Da La Stampa) M.Allo

Pover'uomo, viene da pensare, ma in quali romanzi sarà mai incappato per arrivare a dire uno sproposito simile? Proprio lui, che usa benissimo l'artificio romanzesco? E Saviano, all'opposto, nettamente: «trasformare la sensazione in giudizio credo che possa essere uno dei miracoli della scrittura».

Sì, come ben sapevano i grandi romanzieri, da Flaubert a Stevenson. Di passaggio in Francia, Joseph O'Connor, che nel suo intervento pubblicato su Le Monde per le Assises internationales du roman che si stanno svolgendo a Lione, dice che il suo intento è di «raccontare una storia che sia fedele alla vita». Intendendo per vita qualcosa di molto lontano dalla mera «cronologia» dei fatti, essa sì mera finzione. Il lettore, dice O'Connor, è attratto dal paradosso della finzione: «immaginare cosa vuol dire essere un altro significa imparare a conoscere in modo più approfondito (più vero) chi siamo noi stessi». Soprattutto i mezzucci della letteratura, per lui, possono promuovere tale empatia ingaggiando («impegnando» dice O'Connor) il lettore e non tenendogli concioni o conferenze.

Infine, Javier Marías, che nel suo discorso di ingresso alla Real Academia Española intitolato «Sulla difficoltà di raccontare», sostiene che quello del narratore è in fondo un mestiere «puerile» e «quasi impossibile», soprattutto se si ha la pretesa di raccontare «verità di fatto», così come sono accadute, magari giurando come nei film americani di dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. Si introduce un punto di vista, scrive Marías, e ogni pretesa del genere svanisce. Si sceglie un aggettivo e addio esattezza. Si rende consecutivo, soprattutto, ciò che fu simultaneo. E così via. Ogni ricostruzione di qualcosa di reale è condannata a essere provvisoria, infedele. L'unica cosa al contrario immutabile, incontestabile, e in se stessa certa, è proprio la finzione romanzesca creata in piena autonomia dall'autore. Il don Chisciotte, è l'esempio di Marías, non sarà mai contraddetto. Inizierà e finirà come è sempre iniziato e finito. L'unica cosa raccontabile davvero, insomma, è la finzione romanzesca. E' l'unica cosa che possiamo conoscere in maniera non provvisoria. L'unico racconto possibile è quello falso.



Lasciamo perdere, tutti, l'inesistente dilemma tra finzione e realtà. Accettiamo, con Calvino, che ci siano racconti che dànno un effetto di realtà e racconti che dànno un effetto di fantastico, ma che sempre racconti, cioè artifici, sono. Semplice, ma sarebbe già tantissimo.

Diamo per chiusa con gli anni Ottanta del Novecento, ad essere generosi, la questione del rapporto con le tradizioni nazionali (è uno dei molti temi che affronta Alberto Asor Rosa nell'enorme dattiloscritto che ho sotto gli occhi, intitolato non per caso Storia europea della letteratura italiana), d'accordo, ma riempiamo di senso la nostra condizione di coloni senza madrepatria, non accettiamola passivamente, scegliamola piuttosto. Il che vuol anche dire non accontentarsi di poco e chiedere, per esempio, agli scrittori di creare e di farci arrivare una loro personale tradizione, di indicare, come voleva Borges, i loro precursori, insomma di parlarci di un presente e di un futuro che siano anche il presente e il futuro di un passato.
Accettiamo che il romanzo, con i suoi «mezzucci», ci porti via, ma ci porti via in un luogo e non nel nulla. Chiediamogli non tanto la realtà (l'Italia, l'America, la mafia, la mamma, ecc.) quanto la verità, che può essere nascosta in una battaglia come in un'emozione. Proviamo a chiedere agli scrittori non una prestazione professionale, ma di tornare a divorare se stessi, come giocatori in grande. Forse i libri che non si perdono sono quelli che si giocano tutto su una frontiera e non all'interno di un recinto ben delimitato. Sono quelli in cui l'autore rischia di fallire. Forse è questo che i lettori chiedono per riconoscere davvero i loro scrittori. Non questa o quella rappresentazione, non questa o quella «impossibile» esperienza, ma l'esperienza di un punto di vista in cui, grazie ai «mezzucci» del romanzo, potremo proiettarci, perfino evadere, per poi ritornare, a libro chiuso, in questo mondo con un di più di conoscenza.
Su questa frontiera, tra l'altro, non è impossibile immaginare che i romanzieri incontrino i saggisti, molti dei quali, oggi, non sanno più come sfuggire alla solitudine delle loro discipline. Ma questo è ancora un altro discorso.

 Riportiamo  Il dovere di contestare l’immaginario
Intervista ad Antonio Scurati a cura di Giovanni Battista Tomassini


Rivendica con orgoglio la propria vocazione di intellettuale. E questo – in un’epoca dominata dal disincanto e dalla volgarità televisiva – ne fa una figura atipica nel panorama letterario italiano. Ha iniziato a scrivere praticando i territori della poesia, per approdare successivamente al romanzo. Il primo che ha pubblicato, Il rumore sordo della battaglia, è strettamente intrecciato ai suoi studi sui linguaggi della guerra e della violenza e, dietro l’epopea sanguinosa dell’avvento delle armi da fuoco e dell’eclissi del mondo cavalleresco, tratteggia una visionaria ricognizione della cultura del Novecento. Con il secondo, Il sopravvissuto, ha vinto il Premio Campiello. Anche in questo romanzo il filo della narrazione s’annoda a una riflessione sul nostro tempo. Il giorno dell’esame di maturità, uno studente stermina i suoi professori e ne lascia in vita solo uno. A questi toccherà interrogarsi sulle ragioni della strage e portare il peso di una colpa oscura che appartiene a lui quanto alla società. Scurati ama i territori di confine. Insegna Teorie e tecniche dei linguaggi televisivi all’Università di Bergamo e scrive romanzi, si interessa d’estetica e teoria letteraria, ma non disdegna di sporcarsi le mani con l’attualità. Soprattutto, reclama un ruolo attivo, disturbante, della letteratura e dello scrittore, in polemica aperta con i troppi che vogliono ridurre la prima a forma d’intrat­te­ni­men­to e il secondo a innocuo affabulatore.

Quali sono le cause di questa tendenza antintelletualistica?

L’attitudine disimpegnata di molti scrittori rompe una tradizione profonda. Nella generazione che ha preceduto la mia lo scrittore in Italia era, salvo rarissime eccezioni, un intellettuale. Diversa, invece, la situazione negli Stati Uniti dove, sin dalle origini, molti scrittori si sono posti in una posizione polemica con gli intellettuali. Quanto sta accadendo nel nostro paese è, in parte, effetto di una cultura globale e omologante. Le forme che, però, la tradizione americana assume da noi sono piuttosto semplificatorie. D’altronde, in Italia da tempo si assiste a una decadenza molto spiccata dell’intel­let­tua­le come voce pubblica. In buona parte, ciò è dovuto all’egemonia di altri linguaggi della comunicazione, penso soprattutto alla televisione, che nel nostro paese hanno fatto del populismo una bandiera. Questo spiega l’orgoglio di una certa volgarità, intesa proprio come riconciliazione totale con il volgo. Si tratta di un fenomeno tipicamente italiano, perché in altri paesi - anche negli stessi Stati Uniti - gli scrittori si identificano comunque con modelli alti, che da noi invece si ha quasi pudore di evocare.

Coordini un gruppo di ricerca sui linguaggi della guerra e della violenza. Come mai quest’interesse?

Durante il mio dottorato all’Ècole des Hautes Ètudes en Sciences Sociales a Parigi, abitavo dalle parti dell’Hôtel des Invalides e del Musée de l’Armée, le due grandi istituzioni dove la Francia onora i reduci delle proprie guerre e celebra le glorie e i fasti del periodo napoleonico. In realtà, quello era un mondo lontanissimo dal mio vissuto. Si è trattato di un’attrazione per l’altro radicale, per ciò che mi sembrava più lontano dalla mia esperienza. Un interesse nato, insomma, da una distanza abissale, non da una consuetudine. Ho fatto il servizio civile. Non ho mai avuto alcuna dimestichezza pratica e neanche alcuna adesione ideologica al mondo delle culture marziali.

Eppure ci sono alcuni critici che hanno parlato di una tua presunta fascinazione per il vitalismo di certe figure eroiche…

I critici notano legittimamente quello che vogliono. D’altra parte, c’è stato addirittura chi si è spinto al di là della critica del testo attribuendomi addirittura un’indole violenta. C’è chi ha detto che sarei un fascista… Sono solo maldicenze, ma interessanti rispetto al discorso che facevamo prima. Un certo riduzionismo antintellettuale tende, infatti, a pensare che la materia di cui si nutre una narrazione debba necessariamente radicarsi nella vita vissuta dell’autore. In realtà, spesso ha invece una provenienza colta ed è frutto di una mediazione intellettuale. Anzi la distanza dall’oggetto delle proprie storie è una condizione tipica dello scrittore contemporaneo. Il nostro tempo ci porta sempre più a vivere attraverso esperienze mediate, generando, però, l’inganno dell’immediatezza. Tutto ciò che, per esempio, la mia generazione sa della guerra lo ha visto alla televisione. Lo ha visto, però, in diretta. Si tratta di una forma d’esperienza limite – che io chiamo inesperienza – nella quale le immagini ti inducono a pensare “questa è la vita vera”, ma in realtà lo spettacolo al quale stai assistendo ha lo stesso statuto di realtà di una televendita di tappeti, o di una soap opera. Nonostante da qualche parte nel mondo ci siano persone che effettivamente stanno morendo sotto le bombe.

Su questo tema hai scritto un libro - La letteratura dell’inesperienza - che analizza proprio come cambia la sensibilità di chi scrive romanzi nell’epoca della televisione. È davvero tanto diverso oggi?

L’immaginario ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita dell’umanità. Oggi, però, si produce uno slittamento significativo, anche se apparentemente minimo. Si tratta dell’egemonia della cultura visuale. La pseudo-realtà in cui sempre più siamo immersi è diversa dalle rappresentazioni prodotte dai linguaggi e dai media tradizionali, come i romanzi, e in generale i libri, per il fatto stesso di rivolgersi prioritariamente al senso della vista. L’occhio prevale sull’immaginazione mentale. Questo accade per la potenza delle tecnologie che consentono la televisione in diretta. In questo modo l’im­magine della morte e della devastazione prodotta dalla guerra si trasforma in spettacolo. È così che l’immaginario finisce per colonizzare “i mondi della vita”, sia quelli della vita vissuta sia quelli che tradizionalmente appartenevano al territorio della finzione. Quest’ultima è cosa ben diversa dall’immaginario. Tra le diverse caratteristiche che la distinguono c’è infatti quella di dichiararsi per ciò che appunto è, vale a dire una finzione. Un libro ti parla del mondo, ma non pretende di essere esso stesso il mondo. Ti dice: “io sono finto e per questo, sono magari anche in grado di dirti la verità su certe cose”. Una cronaca in diretta del bombardamento di Bagdad, invece, dà a chi la vede l’illusione della realtà. In qualche modo, è come se gli dicesse: “io sono la realtà stessa”.

L’annullamento del confine tra reale e irreale ci condanna inevitabilmente alla perdita di senso e al minimalismo, o c’è una possibilità di resistere?

Non ci condanna a niente. Semmai ci obbliga alla resistenza. La resistenza diventa una parola quanto mai attuale. Quasi un paradigma di vita quotidiana. Per resistenza intendo il dovere di fare attrito rispetto allo scivolamento in una dimensione nella quale la distinzione tra reale e fittizio, non solo non è più possibile, ma nemmeno più pertinente. Ci sono diversi modi per resistere e continuo a credere che l’arte e la letteratura siano una di queste.

C’è però anche una letteratura che si mette sulla scia e asseconda l’esistente…

È vero, ma quella secondo me non è letteratura. Anzi credo che proprio la capacità di fare frizione rispetto alla bolla di immaginario che ci inghiotte sia uno dei crismi più chiari per distinguere ciò che è letteratura da ciò che non lo è. La letteratura è insomma qualcosa che, per definizione, contesta lo status quo. Non si chiama fuori. Non cambia discorso. Non dimentica la realtà, ma la osserva da un altro punto di vista e ne smaschera le contraddizioni.

Qual è stata la tua formazione?

Sono laureato in filosofia alla Statale di Milano, con una tesi di laurea sul critico americano Harold Bloom. Dopo ho studiato all’École des Hautes Études, con Jacques Derrida. Nel frattempo ho vinto un posto di dottorato a Bergamo e sono tornato in Italia. All’inizio non pensavo di fare la carriera accademica. Poi ho cominciato insegnare come professore a contratto e alla fine sono approdato alla cattedra di Teorie e tecniche del linguaggio televisivo.

C’è stato qualcuno che ha avuto un ruolo particolare nella tua decisione di diventare uno scrittore? Servono ancora i maestri?

No. Non ho avuto alcun maestro di questo tipo. Tutti i maestri che ho coltivato erano morti, o lontani.

Quando hai cominciato a pubblicare le prime cose?

Ho esordito direttamente con il mio primo romanzo. Durante il dottorato di ricerca, per mantenermi, lavoravo come commesso da Blockbuster. Un sabato sera c’era una gran ressa di clienti e la coda arrivava sino fuori la porta del negozio. Ero alla cassa, a distribuire film di Sylvester Stallone e pacchetti di popcorn, quando ho letto sul tesserino di un cliente un nome che conoscevo. Era Antonio Franchini. Avevo letto i suoi libri e li amavo. Così gli chiesi se era proprio lo scrittore. Si guardò attorno, cercando la candid camera. In effetti, vive con un certo fastidio il fatto d’essere soprattutto noto come dirigente della Mondadori piuttosto che come scrittore. Per di più si trovava davanti questo ragazzo, vestito con la divisa di Blockbuster, che gli diceva d’essere un suo lettore e la cosa non poteva che sembrargli strana. Gli chiesi se aveva voglia di fermarsi un momento accanto alla cassa, perché non potevo staccare, e ci mettemmo a parlare dei suoi libri. Da quest’episodio nacque un’amicizia e per circa un anno abbiamo continuato a sentirci e a parlare di libri. Ben presto scoprii che era l’editor della narrativa italiana di Mondadori, cosa che prima ignoravo. All’epoca io avevo già scritto almeno due voluminosi romanzi inediti (che sono ancora tali) e alcune raccolte di poesie, ma non mi sognavo nemmeno di dirgli che scrivevo e di dargli un mio manoscritto, perché lo vedevo assediato dalle proposte. Poi ci si mise di mezzo ancora il caso. Un mio amico dell’epoca, poi divenuto anche lui scrittore, Giuseppe Genna, che lavorava in Mondadori e faceva l’università con me, parlando con Franchini gli rivelò che scrivevo e allora fu Antonio a chiedermi di leggere qualcosa di mio.

Cosa pensi delle possibilità che ha aperto Internet per gli aspiranti scrittori?

In realtà è un mondo che conosco poco, ma che rispetto. Guardandolo un po’ dal­l’es­terno, mi sembra che per quanto riguarda la letteratura sia ancora una promessa non mantenuta. Per lo più, le comunità letterarie in rete mi sembrano ridotte a una specie di luogo di sfogo, dove trova espressione quella cultura del risentimento che è molto diffusa nel nostro paese ed è fatta di lamentele, di manifestazioni di ostilità, o di facili entusiasmi, di settarismi e via dicendo. Comunque, so che gli editori hanno effettivamente cominciato a monitorare la rete per scoprire nuovi talenti. Si tratta però ancora di un fenomeno limitato.

E delle scuole di scrittura creativa?

Le guardo con curiosità, ma anche con scetticismo. Non credo che la tecnica basti a fare letteratura. Anche questo è uno degli ideologemi più diffusi del nostro tempo: che la scrittura sarebbe innanzitutto un fatto tecnico. Credo invece che ci sia una profonda inclinazione antropologica della specie umana al racconto, che fa si che possano esserci anche formidabili narratori spontanei, naif. D’altro canto credo che la letteratura sia sempre espressione di una personalità peculiare, che magari non si manifesta in nessun altro modo se non sulla pagina. Gli scrittori possono essere anche uomini assolutamente grigi, ma che hanno una loro vita mentale formidabile che a un certo punto riversano sulla pagina. Allo stesso modo, però, credo nell’editing, come forma di ulteriore irrobustimento e di liberazione del potenziale del testo. In ogni caso, quello che ci appassiona, o quantomeno che appassiona me, in un libro è la verità di un uomo, quasi sempre una cruda verità. Insomma, non è che la tecnica non serva, ma non è tutto, e quando è tutto, allora hai perso la partita. Dubito che le scuole possano insegnare il segreto del narrare. Però il mio è un dubbio attivo, perché mi interrogo e ogni tanto accetto gli inviti che mi rivolgono (sono stato, per esempio, alla Holden, di Baricco). Sto addirittura prendendo in considerazione la possibilità di istituire la prima cattedra in Italia di creative writing all’americana.

Hai un agente?Pensi che le agenzie letterarie possano svolgere anche un ruolo di promozione dei nuovi talenti?

Il mio agente è Marco Vigevani. So, per conoscenza diretta, che la maggioranza delle agenzie letterarie offre servizi di lettura per pagarsi le bollette. Per carità, c’è anche qualcuno che lo fa in maniera seria, ma sono davvero pochissimi. Ho molti dubbi che gli agenti possano svolgere un ruolo di talent scout. Credo, invece, che il diffondersi degli agenti letterari in Italia sia assolutamente positivo per riequilibrare il rapporto tra autori ed editori che, negli ultimi venti-trent’anni, s’é fatto molto squilibrato. Una volta nelle case editrici lavoravano grandi scrittori e letterati, che venivano interpellati in quanto tali e non gli si chiedeva di negare la loro identità di scrittori e intellettuali come accade oggi. Scomparse queste figure abbiamo attraversato una stagione - che, in parte, dura ancora oggi - in cui il potere dell’editore sull’autore era totale. S’è diffusa l’idea che l’autore possa essere considerato un pezzo intercambiabile di una macchina editoriale manipolabile a piacimento. Il ruolo crescente assunto dagli agenti è servito ad arginare questa tendenza. Quanto alla scoperta di nuovi talenti, penso che servano molto di più i piccoli editori specializzati, o alcune collane, o iniziative speciali, come i volumi collettanei. In Italia, la ricerca di nuove voci segna il passo. Ad ammetterlo sono gli stessi editori, che hanno perso un po’ il contatto con la realtà dei giovani scrittori. Il paradosso è che oggi gli esordienti sono diventati una merce ambita - visto che da alcuni anni hanno cominciato anche a vendere - però non si sa dove andarli a pescare.

Cosa consigli a chi scrive?

Di non fare calcoli. Quando si scrive da giovani si ha il vantaggio d’essere immersi in una dimensione di assolutezza. Si tratta di una libertà che è generativa e dà i suoi frutti, quando deve darli. Per carità non è condizione sufficiente, ma necessaria sì. Se si parte cercando di calibrare il colpo, se si cerca di fare quello che è opportuno e si scende a compromessi in partenza, secondo me si è sbagliato mestiere. È una strada che non paga. Tanto vale esercitarsi in altri ambiti in cui ci sono maggiori possibilità di guadagno, come la borsa e la finanza.





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