L'INCONTRO CON I MORTI NELLA LETTERATURA OCCIDENTALE
Data: Marted́, 03 giugno 2008 ore 15:47:43 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Fra antico e moderno: l’incontro con i morti
  
 

di Romano Luperini

        1.

        Ogni cultura si definisce nel rapporto con il passato e con il mondo dei morti. Opera una selezione, elabora memorie, relega nell’oblio. Si racconta la propria storia. Per questo le opere letterarie di ogni tempo hanno spesso assunto il confronto con i morti a fondamento delle proprie costruzioni. D’altronde il nostro stesso lavoro di studiosi (umanisti, ma non solo) non è forse un dialogo continuo con i morti?  Non ci confrontiamo con autori e opere, con culture, documenti e codici, scomparsi da secoli o da decenni, che la selezione del canone e il ri-uso operato dalla tradizione hanno salvato, seppure in modo mai definitivo, da una perdita irreparabile?

        Antico e moderno ritornano perciò con costante ostinazione sul grande tema dell’incontro con i morti, facendovi confluire aspetti psicologici e storici, individuali e collettivi, mitico-simbolici e ideologici, antropologici e politici. Si potrebbe anzi dire che è attraverso questo tema che è passata una ricerca del senso della vita e di una civiltà, si è realizzato un bisogno di identità individuale e collettiva.

        La parabola stessa della civiltà greca è segnata dall’incontro nell’Ade con gli eroi dell’antichità (Agamennone, Aiace, Achille), all’inizio, con Omero, per fondare una mitologia, alla fine, con Luciano, per distruggerla nel riso e nel sarcasmo. Fra l’Odissea e il Dialogo dei morti si avverte uno scarto che può ben essere rappresentato dalla diversa funzione che nelle due opere assume la figura dell’indovino Tiresia: nella prima egli annuncia in modo profetico il destino di Ulisse, nella seconda esorta Menippo a trarre ogni vantaggio dall’attimo che passa, «di quasi tutto ridendo, e nulla prendendo sul serio» (in Menippo e la negromanzia, II [38], 22). Passeranno alcuni secoli e Leopardi, che a Luciano si ispira per le Operette, riprenderà puntualmente questi propositi, inserendo però nel suo sistema filosofico aspro e oggettivo una nota soggettiva di malinconia nera ignota all’autore greco e tipica invece della modernità e – soprattutto – prendendo atto tragicamente della nascita di un’epoca nuova segnata dalla rottura con il circolo vitale morti-vivi che era proprio dei classici antichi (e non, ovviamente, di Luciano, il cui nichilismo cinico si limita a constatarne sardonicamente gli effetti).

        Negli autori classici, da Omero a Dante passando per Virgilio, l’incontro con i morti assume la funzione ideologica di una grande narrazione mitica che definisce il senso di una civiltà e di un destino, disegna una continuità e una tradizione, costruisce un futuro scegliendo un passato. Aveva ragione Vico: i corsi e i ricorsi della storia sono gli emblemi di una storia del potere e, insieme, di una antropologia, portano entro di sé come marche distintive simboli ed enigmi, e anche segni e ideologie, attraverso cui si cementano egemonie culturali, sistemi di potere, codici sociali di comando e di obbedienza, riti e costumi, e insomma i grandi apparati della memoria, della censura e della rimozione collettive.

        

        2.

        L’incontro con i morti nel canto XI dell’Odissea risulta indubbiamente composito, rivelando fonti diverse e successive sovrapposizioni. Nondimeno, nelle sue varie parti, mostra una propria coerenza di fondo. Le sconcordanze di contenuto non alterano affatto la comune ispirazione mitopoietica, che collega strettamente destino pubblico e destini privati sia nel disegno stesso della composizione (a Tiresia e Anticlea essendo riservato quello individuale dell’eroe protagonista, alle eroine e agli eroi quello collettivo del popolo greco), sia nelle singole parti di essa e dunque anche quando queste riguardino la sorte di Ulisse. Mentre nella comune concezione omerica le ombre dei morti non hanno né pensieri né sentimenti né voce, qui il sortilegio sciamanico del sangue delle vittime bevuto dalle anime dei defunti concede loro non solo la parola, ma la forza della verità. A Ulisse i morti non rivelano niente di meno che il senso della propria vita. Le parole di Tiresia, di Anticlea, di Agamennone e di Achille, e le storie varie delle diverse eroine, hanno in comune un’attenzione specifica e costante per la trafila delle generazioni, per il rapporto madre-figli o padre-figlio o nonno-padre-nipote (Laerte, Ulisse e Telemaco; oppure Peleo, Achille e Neottolemo; oppure Agamennone-Oreste, e così via). È una continuità che non riguarda solo un sentimento individuale, ma un insieme di valori condivisi, e che comunque interessa sempre una porzione significativa di una storia collettiva di una famiglia, di un clan o di un popolo. Lo stesso Elpenore, il primo dei morti a presentarsi davanti a Ulisse, invoca un segno di cittadinanza fra i vivi, un sepolcro che anche gli uomini futuri possano vedere e riconoscere. Il destino dell’uomo è sempre inserito in un mondo di segni comuni ai mortali e agli dei e in un orizzonte di circolarità del senso. Come nella Genesi biblica il servo di Abramo, alla ricerca di una sposa per Isacco, sa riconoscere il segno di Dio nel gesto della fanciulla che offre da bere non solo a lui ma anche ai suoi cammelli, così Ulisse – profetizza Tiresia – potrà riconoscere il segno (____, v.126) della sua riconciliazione con Poseidone incontrando un viandante che ignori l’uso del remo e lo scambi con un ventilabro. Lo stesso discorso di Anticlea al figlio, pure così carico di sentimenti privati, è stato probabilmente letto dalla critica novecentesca in una chiave eccessivamente modernizzante. In effetti Ulisse le chiede sì la causa che ne ha provocato la morte, ma anche e soprattutto una conferma di quanto gli è stato appena annunciato da Tiresia, e cioè se Laerte e Telemaco (il padre e il figlio, dunque) conservino il loro privilegio reale e se Penelope non abbia per caso sposato un nobile Acheo facendogli perdere così la propria posizione di potere a Itaca. Nella risposta Anticlea, dopo avere attestato la fedeltà della sposa, mette al primo posto la descrizione della vita di Laerte, che si è ritirato in campagna rinunciando ai simboli del potere, e quella di Telemaco che invece ha conservato le prerogative del proprio rango; e solo nella parte finale accenna al dolore per la lontananza del figlio come causa della propria morte. Beninteso, il momento degli affetti personali per il marito e soprattutto per il figlio è ben rilevato, ma è pur sempre inserito in un gioco di parallelismi in cui la prospettiva delle gerarchie sociali e del potere politico non viene mai dimenticata: Laerte dorme con i servi, mentre Telemaco banchetta con i primi della città; Penelope consuma le notti e i giorni piangendo, ma non ha consentito a nessuno di togliere a Ulisse il privilegio reale.

        

        3.

        Se nell’Odissea l’incontro con i morti illustra una trafila delle generazioni che fonda una mitologia e insieme il senso comune di una civiltà, nel canto VI dell’Eneide sancisce piuttosto un patto fra le generazioni e la trasmissione di una egemonia e di un potere, capace di collegare immediatamente il mito alla storia. La continuità non è più solo quella di una nobile casata, ma investe il destino dei popoli. La trasmissione patrilineare si prolunga nel futuro, e passa dall’Oriente all’Occidente. E infatti ora l’eroe compie un viaggio nell’aldilà alla ricerca non di un indovino, come nell’Odissea, ma del proprio padre; ed è appunto Anchise, non la madre come accadeva invece a Ulisse, a rivelargli non solo ciò che lo attende, ma quanto accadrà alla sua discendenza. Non per nulla sin dall’inizio Anchise si presenta al figlio mentre, in una verde valletta, «omnem suorum/forte recensebat numerum carosque nepotes/fataque fortunasque virum moresque manusque» (vv. 682-684). Anchise passa in rassegna i cari nipoti, le fortune e i destini, e anche i costumi e le imprese delle genti e degli eroi futuri. Si squadernano così davanti a Enea, insieme, vichianamente, verrebbe voglia di dire, una mitologia, una storia e una antropologia («moresque manusque»), una profezia politica che trasmette la continuità di un prestigio e di un potere e un insegnamento etico che riguarda i comportamenti e i costumi. L’annuncio della gloria futura («Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur/gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,/inlustris animas nostrumque in nomen ituras,/expediam dictis et te tua fata docebo», vv. 756-759) s’inscrive in una continuità fra le generazioni. Romolo, Remo, Cesare, Augusto e Marcello, successivamente evocati in modo più o meno esplicito, erano attesi, avrebbe detto Benjamin, sui colli di Roma.

        I sentimenti privati di Enea – l’amore per il padre, il rimorso per il suicidio di Didone – sono così inseriti nella cornice di una storia collettiva e di un progetto politico. L’apparizione stessa di Didone corrucciata e ostile («aversa […] inimica», vv. 469 e 472) travalica la vicenda personale e allude alla vendetta cartaginese e a un confitto che insanguinerà il Mediterraneo per oltre un secolo.

        

        4,

        Anche Dante vuole scrivere un poema sulla scorta di quelli antichi, e dell’Eneide soprattutto. Una prospettiva epica percorre la  Commedia; ma si tratta, questa volta, di un’epica nuova, cristiana.  Il viaggio di Dante replica quello di Enea nell’Ade, ma anche quello che Paolo aveva compiuto nel terzo cielo o addirittura, secondo le leggende medievali, nell’Inferno stesso. Fonti classiche e medievali vengono egualmente riprese per trovare nuova legittimazione al tema dell’incontro con i morti. Anzi, questo viene assunto come struttura fondante del disegno di una nuova civiltà cristiana capace di recuperare anche le istanze vitali del passato antico e pagano e di selezionare comunque dalla storia trascorsa e dalla cronaca del presente figure (anche nel senso messo in luce da Auerbach) che anticipino un futuro di possibile salvazione. Con Dante l’incontro con i morti cessa di essere un episodio e diventa la base strutturale della narrazione e, insieme, di un intero progetto religioso ed etico-politico. Il metodo figurale è un tentativo grandioso di reinterpretazione del passato. Riposa sulla convinzione della presenza di Dio e della sua verità nella storia e nei singoli dettagli delle vicende umane, sulla certezza che nel particolare ci sia già un’ombra dell’universale. Il senso si dà perché è già nelle cose accadute; preesiste al singolo uomo che deve solo trovarlo negli esempi positivi e negativi che il mondo dei morti gli presenta; e non riguarda tanto o soltanto la felicità del singolo, quanto la sorte del mondo.

        Nessun incontro può perciò essere casuale. Ogni stazione della discesa e poi dell’ascesa è necessaria, voluta da Dio, inscritta nella prospettiva universale della storia dell’umanità. La stessa immagine del pellegrino protagonista rappresenta l’intero genere umano alla ricerca del significato trascendente della vita. Ogni incontro con i morti rivela un determinato aspetto, una situazione storica, un carattere e un costume specifici, in cui  si riverbera tuttavia la luce assoluta del vero. Pone in luce un individuo, una personalità ben definita, e nello stesso tempo una prospettiva pubblica e collettiva e una verità generale. Nei diversi faccia a faccia che si succedono soprattutto nelle prime due cantiche, è possibile addirittura riconoscere lo schema tripartito definito dalla Poetica aristotelica, e cioè il riconoscimento, lo sviluppo dell’azione e lo scioglimento, i caratteri, insomma, di una concretezza drammatica ben più risentita e incisiva che nel modello virgiliano. Eppure gli aspetti concreti e individuali, e i sentimenti privati del pellegrino, sempre dichiarati, vengono immediatamente proiettati sullo scenario dei destini complessivi dell’umanità. Fra concreto e astratto, fra particolare e universale, fra individuale e collettivo, fra privato e pubblico, c’è insomma un legame sempre strettissimo e, per dir così, obbligato.

        Nella vita di coloro che ci hanno preceduto in questa esistenza mondana si rivela, a chi la guarda dall’aldilà, il senso autentico del loro passaggio su questa terra. I morti sono i mediatori di questa trasmissione del significato vero della vita. In questo modo l’intero mondo dei defunti diventa un libro aperto capace di comunicarci il valore presente dell’esistenza e il progetto salvifico in cui troverà adempimento la storia del genere umano.

        

        5.

        Con i Paralipomeni, e precisamente con i canti VI e VII dedicati alla discesa nell’Ade, Leopardi compie, nei confronti della Commedia dantesca, la stessa operazione, critica e parodica, che Luciano aveva compiuto con il Dialogo dei morti nei confronti dell’Odissea. E se Luciano, irridendone i miti, segna la conclusione della civiltà greca, Leopardi, egualmente colpendo le illusioni religiose e politiche, chiude analogamente un ciclo, denunciando l’interruzione di quel circolo vitale fra morti e vivi, fra passato presente e futuro, che i classici dell’antichità e il poema dantesco avevano cercato di fondare. A differenza di Luciano, però, Leopardi non si limita a chiudere un’epoca; n’apre una nuova: quella della modernità.

        I defunti sono presentati da Leopardi silenziosi e gravati da un torpore fisico che li rende insensibili e del tutto estranei all’esistenza dei vivi.  Quando Leccafondi, come Enea, vorrebbe interrogare i morti sul destino della patria – e, in cifra, sugli sviluppi del processo risorgimentale -, l’unica risposta che essi possono dargli è una irrefrenabile risata in cui si esprime la loro totale alterità alle sorti umane. Abissale è la distanza non solo da Dante e dai classici del mondo greco e latino ma anche dagli autori stessi della generazione che lo precede – per esempio, da Foscolo che nei Sepolcri ancora puntava su una continuità di valori fra passato e presente trasmessa dalle tombe -. Nei Paralipomeni come nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie i morti sono voci del nulla, non comunicano né valori, né ricordi, né emozioni. «Quando anche potessimo [sott.: parlare], non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire», è la battuta che il Morto rivolge a Ruysch. Per Leopardi l’aldilà dei morti è ancora quello degli antichi; ma i defunti sono ormai diventati figure del nulla, immagini non più della mediazione e della trasmissione del significato, ma di una interdizione e di una frattura.

        

        6.

        In una delle ultime poesie degli Ossi di seppia, intitolata appunto I morti, Montale riprende il tema dei defunti silenziosi, incapaci ormai di comunicare con i vivi. I morti, vi si legge, sono «fiati/senza materia o voce», «larve» perturbanti che sfiorano l’esistenza dei sopravvissuti, ancora «rimorse dai ricordi umani», ma impossibilitate a stabilire con chi resta una relazione che vada al di là di una sensazione di oscuro timore o di angosciosa inquietudine. Il rapporto con i morti è diventato ormai del tutto soggettivo e unilaterale, persiste unicamente nel ricordo dei vivi, all’interno di una sfera privata ed esistenziale: in A mia madre il figlio dichiara che la vita di lei non può avere alcun prolungamento oltre la morte, anzi si esaurisce in «se stessa», riducendosi ai frammenti di una memoria che può conservare e isolare solo «un gesto», «un volto, quelle mani, quel volto». Nella grande poesia del Novecento, a partire da Pascoli e poi da Montale a Sereni e Caproni, il rapporto con i morti diventa vicenda esclusivamente individuale; il patto fra le generazioni, la dimensione pubblica, la trasmissione di un progetto o anche solo di una prospettiva collettiva si allontanano sin quasi a sparire. Inoltre, mentre in Leopardi i morti mantenevano una loro oggettività, questa va ora perduta. L’incontro con loro non comporta più un interscambio, un dialogo, un confronto fra passato e presente. Si smaterializza, cessa di essere una esperienza che mette di fronte interlocutori dotati di una propria autonomia. Anzi, si passa dall’incontro con i morti al ritorno dei morti. I defunti diventano dei revenant. Emergono con un brivido dal fondo dell’inconscio, ri-appaiono inquietanti, lividi o sorridenti, teneri o minacciosi, come proiezioni e segni di una privata rielaborazione del lutto. Pascoli segna questa svolta.  I morti ritornano: «entrano», sono «muti», non ricordano il mondo terreno («Oh! non ricordano i morti, /i cari, i cari suoi morti!», in La tovaglia) o non vogliono ricordarlo («Non vogliono ricordare», in L’or di notte) o, se finalmente rammemorano, lo fanno a fatica, con stento (come nell’ultima strofa di La tovaglia) oppure piangono inconsolati e si rivolgono ai vivi solo per lamentare il proprio sacrificio e la propria sofferenza di esclusi dalla vita (Il giorno dei morti).

        I morti si trasformano in fantasmi interiori. Ed è significativo che, in una delle liriche più note di Sereni, possano riacquistare la parola e tornare a indicare una prospettiva collettiva di tipo etico solo come utopia, come possibilità proiettata nel futuro: sono le «toppe d’inesistenza, calce o cenere /pronte a farsi movimento e luce» che un giorno torneranno a parlare: «Non /dubitare – m’investe della sua forza il mare – /parleranno».

        In due grandi testi montaliani – Incontro, appunto, e Voce giunta con le folaghe - viene sì ripresa la tipologia tradizionale dell’incontro con il morto, non senza echi virgiliani e danteschi, ma l’ombra che si rivela è solo una evocazione: nasce e si esaurisce all’interno dell’io. Arletta è una epifania, e l’epifania, si sa, non è che una figura modernista della soggettivizzazione del significato. La metamorfosi delle foglie in capelli (altra eco classica) è provocata dalla immaginazione, si produce in modo istantaneo e si brucia in un attimo.

        Si profila qui, direbbe Taylor, una nuova antropologia, alternativa a quella degli antichi. È cambiato radicalmente il modo di dare significato al mondo e alla vita. Il senso non si dà più, non preesiste al soggetto; ma questi deve cavarlo da se stesso, deve cercarlo dentro di sé, elaborarlo al proprio interno per attribuirlo poi al mondo. Si assiste a una nuova dislocazione del senso che ormai si colloca nella mente di un soggetto isolato. A dare significato all’esistenza non è più una grande narrazione collettiva che coinvolge cielo e terra, uomini e divinità, gli individui e il genere umano; ma ogni singolo uomo deve narrarsi una propria storia nel tentativo di trovare una identità divenuta sempre più incerta e precaria. L’uomo isolato rivolge al defunto una domanda che resta senza risposta, rivelando il vuoto di senso che circonda la parabola della vita.

        Beninteso, questa soggettivizzazione dell’esperienza fa parte del genere lirico, anche antico, e lo differenzia nettamente da quello epico dei classici greci e latini e di Dante. Resta però il fatto che i classici – quelli che fondano una civiltà - per la modernità sono i poeti lirici, mentre per il mondo antico sono i poeti epici; che diversa è la modalità dell’attribuzione del senso; e che nei lirici antichi l’aspetto perturbante del morto rievocato o ri-apparso è meno pronunciato e comunque appare inserito in contesti rituali che rinviano a pratiche culturali e sociali di tipo comunitario.

        Il carattere spiccatamente moderno dell’attribuzione del senso si conferma anche quando l’incontro con il morto riguarda la figura paterna e si inserisce consapevolmente in una tradizione che risale ai classici. È il caso di Voce giunta con le folaghe, dove si prospetta uno scenario apertamente dantesco e si ripete il gesto vano di abbracciare l’ombra del genitore. A differenza del modello omerico, virgiliano e dantesco, e in accordo, di nuovo, con Leopardi, il padre è senza voce, è «il muto che risorge». Di più: l’errore che Clizia aspramente gli rimprovera è di non avere rinunciato a ricordare il mondo dei vivi e di pensare ancora ai figli: «Ancora questa rupe/ti tenta? […] Io le rammento quelle/mie prode e pur son giunta con le folaghe/a distaccarti dalle tue. Memoria/non è peccato fin che giova. Dopo/è letargo di talpe, abiezione/che funghisce su sé…». La poesia termina ricordando «il vuoto inabitato/che occupammo e che attende fin ch’è tempo/di colmarsi di noi, di ritrovarci». Il nulla trionfa. L’unica «persistenza», lo sappiamo da Piccolo testamento, «è solo l’estinzione». Prima e dopo la morte c’è soltanto il vuoto. Nessuna continuità, nessuna trasmissione. Resta solo, quando resta, una memoria frantumata che si fissa su pochi frammenti scampati alla rapina del tempo e non dotati di particolare significato: qui sull’immagine del padre all’alba, su uno sfondo marino, «erto ai barbagli,/senza scialle e berretto».

        Nella modernità la morte si privatizza, e non appare neppure più in grado di comunicare una risposta al bisogno di significato. Il morto non ci parla più. L’interrogazione che il vivo gli rivolge scopre un vuoto – quel vuoto che Leopardi e Montale denunciano. Il senso è diventato precario o enigmatico, mentre una problematicità sempre più ansiosa e scettica ha preso il posto di ogni possibile certezza.

        Una rivoluzione copernicana si è compiuta. Il moderno ha elaborato una nuova cultura della vita privata e nuovi valori; ma altri – e forse ancora più decisivi per la nostra vita – ne ha perduti.
 






Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/scuola-news-10977.html