VOCI DAL '68: LETTERA A UNA MADRE DA UNA FIGLIA RIBELLE
Data: Domenica, 01 giugno 2008 ore 13:46:41 CEST
Argomento: Rassegna stampa


ALBA DE CESPEDES E  IL ‘68

Il maggio è quello francese e questa è la “nostra” celebrazione dei quarant'anni del '68.

Scrive Alba de Cespedes nella presentazione italiana del suo libro (prezioso, introvabile, “Chansons des filles de mai”, uscito a Parigi nel 1968 e pubblicato in Italia da Mondadori nel 1970):
 “Durante i mesi di maggio e giugno 1968, mi trovavo a Parigi, in uno studio di rue de Tournon, sulla rive gauche, a due passi dalla Sorbona, da Saint-Germain-des-Près, nel quartiere dov'è scoppiata la rivolta degli studenti e dove avevano luogo i loro scontri con la polizia. Lavoravo al mio nuovo romanzo, e ho l'abitudine di lavorare di notte; ma, dai primi di maggio, il silenzio notturno era lacerato da scoppi di granate, da detonazioni, da grida, dal rumore di passi in fuga, che mi distraevano dal mio libro. Non facevo altro che seguire ciò che accadeva attorno a me: rimanevo per ore al transistor, ascoltando le notizie che i radiocronisti trasmettevano direttamente dal Quartiere Latino.
 Di giorno uscivo, mi recavo alla Sorbona, all'Odéon, assistevo ai dibattiti, alle riunioni, e lì come nelle strade devastate, disselciate, ingombre di automobili carbonizzate e puzzolenti di gas, incontravo i giovani rivoluzionari, li interrogavo, li spingevo a parlare. Più loquaci, le ragazze divenivano ai miei occhi le protagoniste di quella rivolta che fu il primo segno spontaneo e inequivocabile della lotta che sta cambiando la nostra società; forse perché la donna – per sua natura – esprime con passione le proprie idee, i propri sentimenti, e affronta con una sorta di eroismo ogni vicenda della propria vita.

Quelle notti, quei giorni, quegli incontri, di cui –a tutta prima – volevo soltanto prendere nota, in italiano, nel mio diario, si sono invece presentati a me come momenti di un unico poema, che mi è venuto naturale scrivere nella lingua, anzi con le stesse parole, di coloro che lo hanno vissuto; e che oggi ho riscritto in italiano”.

 

LETTERA A UNA MADRE


Mamma, comprendimi fin d'ora: dovrai ben comprendermi, un giorno, anche gli altri dovranno.

M'avresti capita di certo se fossi fuggita con un amante: sei una sentimentale, e all'età mia queste fughe finiscono in marcia nuziale.

Avresti compreso se me ne fossi andata perché volevo diventare una stella della televisione pagata un milione per sera:

Mamma, fa' uno sforzo, cerca di capirmi: poi, non sarà più necessario essere una madre per comprendere.

Non me ne sono andata per guadagnare molti soldi né per vivere un romanzo rosa: ti ho lasciata per qualcosa che credo sia giusto.

Ascoltami, madre della mia infanzia, il tuo volto ansioso presso il mio letto, madre sfinita, madre di guai, e di commissioni, madre piena di preoccupazioni, madre di quattro figli lunghi da portare, madre straniera a tutto quello che ero, eppure madre che mi capiva senza capire.

Non essere dalla parte della polizia, dalla parte della borghesia, non è la tua parte, quella, madre dalla sporta pesante, dal portamonete leggero, dalle mani che emanano decenni di rigovernatura, di spazzatura, di minestra di verdura, con le tue paure di moglie d'impiegato che può essere licenziato da un giorno all'altro.

(A proposito: papà dovrebbe profittare di tutto ciò – i tumulti, gli scioperi in atto – per far firmare un contratto al signor Pélissier.)

Grazie, mamma, per i dolci di Natale, per i regali di compleanno comprati a credito, per i vestiti che m'hai cuciti, lavati, stirati, fino all'una di notte.

(Il cappotto azzurro l'ho lasciato in camera mia: dallo ad Anna Maria, il suo era proprio sciupato.)

Non ho niente, e non voglio niente. Vorrei soltanto che tu non mi dicessi parole offensive, quando ti chiamo al telefono.

Mamma, rispondimi: questa è l'ultima volta, l'ultima veramente. Lo so: papà non consente che tu mi veda. In un uomo del tipo suo è naturale questo rigore, ma le donne hanno il cuore più grande.

Mamma, vorrei parlarti come ti parlo di lontano. Ti voglio bene, lo sai, anche se non tornerò mai, mai più, a casa.

Vorrei venire a trovarti la domenica, quando papà va a giocare a carte. Oppure potremmo incontrarci ai giardini. Non avremmo niente da dirci: io ti guarderei, tu mi guarderesti, ci terremmo la mano un momento, prima di riprendere ciascuna la sua strada, differente.

(Del resto, l'affetto non è che questo: un calore istintivo, senza motivo, che ci pervade nonostante tutto quanto ci divide, parole abbandonate, occhiate scambiate, rimpianti, rimorsi, in un'ondata di tenerezza disperata.)

Mamma, perdonami di non aver sposato il ragazzo del quarto piano che aveva un bell'avvenire assicurato all'Esattoria Comunale. Perdonami per la veste nuziale che non potrai comperarmi. Non sono quella che sognavi, ma non sono nemmeno quella che tu piangi.

Sono una figlia come tante altre: una sconosciuta che ti somiglia e fa una vita che non ti piace.

Siamo tutti così, per i genitori, ma per ogni figlio la propria madre è una madre straordinaria.

Mamma, addio, o arrivederci, come vorrai. Puoi sempre chiamarmi da Marion: lei sa dove trovarmi. Ti voglio bene, mamma, come possiamo amare oggi: senza commozione e senza pietà.






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