QUALE BAGAGLIO CULTURALE SPECIFICO PER UN INSEGNANTE DI SCIENZE?
Data: Venerd́, 30 maggio 2008 ore 19:41:06 CEST
Argomento: Istituzioni Scolastiche


Quale bagaglio culturale specifico per un insegnante di scienze? Risponde una docente di italiano e latino

 

di Lidia Gargiulo*

 Il corpo umano: così si chiamava un capitolo del sussidiario delle elementari

 

 

 

 

Ricordo che guardavo le illustrazioni ma non ritrovavo le cose che succedevano a me: lo sporco che si posa sulla pelle, gli odori, i rumori, le irrequietezze. Separato e distante da quel corpo umano, il mio corpo fu a lungo indicibile e segreto, con fenomeni dai nomi proibiti, da pronunciare piano o tacere. Tra i due corpi estranei un anonimo Io tentava colloqui con l’anima che, in quanto invisibile e immortale, risultava più facile da pensare. Anche quando più tardi incontrai anatomia e fisiologia, il corpo umano rimase estraneo a me che solitaria e clandestina esploravo tumulti peccaminosi di qualche cosa che non osavo chiamare corpo nemmeno davanti allo specchio. L’insegnante di biologia era una bionda taciturna e pudica, severissima, riservatissima, il che assecondava la tendenza di noi adolescenti a seguire le derive della fantasia eludendo le complicazioni del concreto. Solo da adulta ho percepito che il mio corpo sono io, che il corpo è laboratorio della vita e del suo contrario; ed è nata allora la curiosità per le complicazioni, implicazioni e meraviglie che si alternano nel ciclo tra l’arrivo e il congedo, comunemente detti nascita e morte.

 

Sapere generale e sapere specifico

 

Anche in anni recentissimi ho visto ‘scienziati’ che, senza conoscenza né curiosità per discorsi ‘altri’, vivono nel  rifugio della ‘mia materia’, nell’alibi di una malintesa separazione fra discipline umanistiche e discipline scientifiche. E invece, lo sappiamo, non di separazione si tratta, bensì di differenza di metodo. Paradossalmente, più ampio è l’orizzonte culturale, più si raffina lo specifico di ciascuna disciplina; in particolare nell’insegnamento secondario, nel quale l’informazione è sempre anche formazione, la comunicazione è più netta e credibile se viene da una visione generale della vita, quel sistema di conoscenze da cui deriva il nostro modo di ascoltare, domandere,  rispondere, affermare e obiettare. La cultura generale è sedimentazione di esperienza e capacità di confronto, ricerca di senso. In tutti i campi i protagonisti del sapere sono stati orientati e sostenuti nei loro studi specifici da una vasta cultura generale. Pensiamo a Leonardo, Galileo, Freud, Einstein, Chaplin e, tra i viventi, i Nobel dell’Economia, della Fisica, della Biologia. Insegnare può essere una buona occasione per integrare umanisticamente sapere specifico e conoscenza generale, poiché in ogni branca del sapere, con metodi diversi, si indagano i misteri di sempre e di tutti: l’origine e l’esito dell’esistere, dalla cellula alle galassie.

 

Aggiornamento

 

Poiché nessun sapere rimane fermo, né una laurea con lode né l’esito glorioso di un concorso ci autorizza a dire “Ho studiato abbastanza, adesso posso fermarmi”. Chi insegna si può dire intellettuale solo se assieme al dovere di insegnare esercita il diritto ad apprendere, dedicando una parte del tempo a informarsi su oggetti e risultati della ricerca, sulle nuove tecniche di indagine, sulle possibili applicazioni delle scoperte. I latini chiamavano otium il tempo libero da dedicare alla propria intelligenza per leggere, scrivere, fare i conti col proprio sapere.

 

Leggere l’avventura del corpo

 

Certi scienziati sanno dare ai loro argomenti il fascino di un romanzo e certi romanzieri descrivono con rigore scientifico atti e condizioni del corpo. Si può offrire all’otium il godimento di qualche saggio del dottor Sigmund Freud, dell’etologo Konrad Lorenz, del neurologo Oliver Saks − al quale auguriamo ancora lunga vita, − del fisico Stephen Hawking che da un corpo immobile esplora l’infinito e i misteri del tempo-spazio. Solo per cominciare, perché per fortuna l’elenco completo sarebbe molto lungo.

 

Tra i romanzieri di professione segnalerei, per chi non lo conoscesse, Ian McEwan. L’idea portante dei suoi romanzi – presente ancora nell’ultimo − è che il rapporto così necessario fra gli umani è sempre difficile, la facilità è solo illusione, equivoco che più tarda a sciogliersi più è traumatico. In tutte le sue trame, così diverse l’una dall’altra, McEwan indaga la relazione tra stati dell’organismo e comportamenti, mostrando come gli umani, così simili in tante cose sono, ciascuno, territorio di individuali e irrepetibili avventure dell’organismo. La coesistenza di precisione scientifica e di inventiva narrativa fanno di McEwan un vero maestro di quella buona letteratura che tiene d’occhio i passi della scienza. Maestri come lui e come i nostri Meneghello, Calvino, Celati (e tanti altri, ma bisogna imparare a scegliere!), sono ben al di là delle opposizioni materie scientifiche-materie letterarie, anima-corpo e via dicendo. I loro libri ci fanno pensare al corpo vivo come al vero miracolo di tutta la storia dell’universo.

 

Trasformazioni in corso

 

A 20 anni, si dice, ciascuno di noi ha già capito quel che doveva capire e si è fatta, della vita, un’idea che non cambierà negli anni. Anche se fosse vero, questo  non ci autorizza a chiudere gli occhi sul mondo, su quello che accade intorno a noi e in altri luoghi. Al di là delle considerazioni sulla globalizzazione e i relativi effetti ora disastrosi ora esaltanti, sarebbe bene non perdere di vista il panorama più prossimo della strada, dei mezzi pubblici, dei mercati: lì possiamo osservare dal vivo corpi e volti, sorrisi, parole, gesti; lì possiamo  anche monitorare le reazioni del nostro organismo a contatto diretto col nuovo, col diverso. Questo esercizio è ancora più interessante nella scuola, dove il contatto quotidiano rischia di ottundere invece che risvegliare l’attenzione. Il dialogo, di cui tutti sentiamo la mancanza, prima che di parole è fatto di attenzione, e l’attenzione si fa evidente nello sguardo, nel silenzio, nell’ascolto. Può essere divertente guardare senza classificare, ascoltare senza giudicare la moda, i giochi, le canzoni dei nostri studenti, prendere atto della loro percezione del tempo (simultaneità, discontinuità, frammentarietà…). Accogliere la differenza nel quadro dell’esistente è un buon esercizio di intelligenza, che stranamente non indebolisce ma rafforza il nostro diritto a essere quel che siamo e siamo diventati. Nell’attenzione al presente avviene il confronto fra la parte immutabile dell’io e il mondo che cambia e cammina. Solo riconoscendo la differenza possiamo proporre metodi più ‘nostri’ e più efficaci per un lavoro intellettuale.

Saper dire

 

 

 

 

Mettere le parole nel tempo è un sapere speciale utile in qualsiasi situazione, particolarmente quando si lavora coi giovani. Partire dall’idea che la parola, esclusiva dell’uomo, dovrebbe aggiungere – e non togliere – forza alla relazione umana. Per un insegnante comunicare vuol dire avere chiaro di che cosa si intende parlare, argomentare i contenuti, controllare le digressioni, stare nei tempi e concludere il discorso (che non vuol dire esaurire l’argomento). Tentare è il primo segno di rispetto per il tempo e la parola.

 

*Laureata in Lettere classiche e in psicologia. Tiene corsi di formazione e aggiornamento per docenti, con particolare attenzione al rapporto fra sapere e saper dire. L’ultimo suo libro, Le dita nell’inchiostro,  Armando editore, 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 







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