UN PARRICIDIO MANCATO:HEGEL E IL GIOVANE MARX
Data: Sabato, 24 maggio 2008 ore 16:55:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Roberto Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri 2004.

di Cristina Corradi

 

L’ultimo saggio di Roberto Finelli è dedicato alla ricostruzione della trama teorica ed emotiva che alimenta il percorso intellettuale e politico del giovane Marx, dalla tesi di laurea fino ai saggi pubblicati sugli «Annali franco-tedeschi». Esaminando un itinerario che risulta dal peculiare intreccio tra le istanze della filosofia dello Spirito di Hegel, l’esigenza giovane-hegeliana di mondanizzare la filosofia per realizzare la libertà, e le sollecitazioni provenienti dalla lettura umanistica dell’Assoluto e dalla critica feuerbachiana della filosofia speculativa, il libro narra le avventure fenomenologiche di uno studente brillante, che muove da una profonda valorizzazione dell’idealismo hegeliano ma, per esigenze immediate di lotta politica, è indotto a negare il proprio esordio filosofico.

 

Esplorare il travagliato rapporto, di identificazione prima e di rimozione poi, che lega il rivoluzionario di Treviri alla filosofia di Hegel significa anche rivisitare un luogo teorico intorno al quale si sono consumate ben due crisi del marxismo italiano: la prima, agli inizi del Novecento, quando il pensiero di Marx, nella versione interpretativa fornitane da Antonio Labriola, è stato riassorbito nell’egemonia neoidealistica; la seconda, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, quando il pensiero di Marx, anziché essere liberato dall’inquadramento nel materialismo dialettico, è stato nuovamente irrigidito secondo un duplice stereotipo. Alcuni lo hanno confinato nella moderna metafisica del soggetto sfociante nel nichilismo, da cui soltanto un ritorno alla filosofia dell’Essere o l’avvento postmoderno dell’homo linguisticus ci potrebbero salvare; altri lo hanno relegato in una filosofia premoderna che secolarizza l’escatologia cristiana, affidando al meccanismo della contraddizione l’impossibile revoca storica dell’alienazione conseguente alla specializzazione dei lavori, dei saperi e dei poteri.

 

E’ dunque a partire dal luogo di una duplice crisi che l’autore del saggio riavvia un confronto con Marx, un confronto che si vuole libero tanto da semplificazioni caricaturali quanto da ritualità apologetiche. La prospettiva non è quella di una restitutio ad integrum, di un ritorno all’intero pensiero di Marx quale sorgente pura e cristallina, successivamente inquinata e corrotta dai suoi seguaci; l’intento è piuttosto quello di ricercare, nello svolgimento contraddittorio e nelle diverse fasi dello stesso pensiero marxiano, la fonte di differenti declinazioni del marxismo, nonché quello di sondare il deficit che ha minato la capacità della tradizione comunista di coniugare cultura della solidarietà e cultura dell’individuazione. Nel riflettere, perciò, sui problemi e sui modi attraverso cui il giovane Marx elabora le sue fonti di ispirazione teorica, questo libro interroga indirettamente anche il nostro presente storico, facendo luce sulle fragilità teoriche e sulle lacune politico-antropologiche del marxismo italiano e suggerendo gli ambiti problematici a partire dai quali ricostruire una più avvertita teoria critica della società, della soggettività e della politica.

In Italia, infatti, l’originalità e l’autonomia del pensiero marxiano non sono state argomentate con riferimento alla matura critica dell’economia politica e alla rielaborazione del rapporto con Hegel che essa comporta, ma sono state rivendicate sulla base della valorizzazione della filosofia della prassi, della concezione materialistica della storia e della critica giovanile alle astrazioni speculative della logica e della teoria politica del filosofo di Stoccarda. Lo storicismo marxista ha coltivato fondamentalmente l’immagine di un Marx che, ereditato il concetto hegeliano di contraddizione, rovescia lo speculativismo dell’Idea e attinge la concretezza materialistica del divenire storico, traducendo il primato feuerbachiano della sensibilità nella priorità della prassi lavorativa. Il marxismo dellavolpiano ha diffuso l’immagine di un giovane Marx che, accogliendo da Feuerbach una lettura dell’idealismo assoluto in chiave di epifania teologica, compie rapidamente il parricidio nei confronti di Hegel per accedere alla fondazione di una scienza empirica della politica e della società moderna, che estende il metodo sperimentale galileiano dalla natura alla storia. L’operaismo ha costruito un’immagine attivistica di Marx per rivendicare la potenza antagonistica e l’immediata politicità dello spirito operaio, ha reciso il legame con la dialettica hegeliana per collegare la materialità antideologica della prassi con la cultura della crisi e con la scienza post-galileiana del principio di indeterminazione.

 

Finelli evade questa tradizione, compiendo tre mosse teoriche:

 

1)decostruisce l’immagine di un Marx materialista che, tramite la mediazione della filosofia feuerbachiana, realizza il passaggio da una teoria del divenire confinata nel piano astratto dell’idea ad una teoria della storia fondata sulla concretezza dell’agire, dei bisogni e delle relazioni umane;

 

2)propone un’originale interpretazione del rapporto tra Hegel e Marx, incentrandolo su una teoria dello svolgimento circolare della soggettività e della verità, e perciò su una concezione antindividualistica e antiempiristica della realtà e della scienza;

 

3)instaura un confronto tra l’antropologia relazionale di Hegel, fondata sul principio del divenire se stessi attraverso la mediazione con l’alterità, e l’antropologia simbiotica e fusionale di Feuerbach, fondata sulla presupposizione dell’immediata coincidenza del singolo con il genere umano, un confronto che sovverte il luogo comune della cultura liberale ed empirista, secondo cui le implicazioni organicistiche e palingenetiche del pensiero marxiano sarebbero da imputare all’eccessiva dipendenza dal dialettismo hegeliano.

 

Per la ricerca di un principio sintetico non riducibile ai segmenti di realtà che esso informa, Marx - afferma scandalosamente Finelli - non è mai stato materialista e ciò che lo differenzia da altri filosofi dell’idealità, e che distingue le fasi del suo stesso pensiero, attiene ai diversi modi di identificare il principio di produzione e di integrazione della modernità. L’ipotesi fondamentale del libro è che il tentativo marxiano di uccidere il padre spirituale e di conquistare autonomia teorica attraverso la lettura teologica dell’idealismo hegeliano e la traduzione dello Spirito assoluto nel principio feuerbachiano del genere umano fallisca e che, fino alla stesura dei Grundrisse e del Capitale, Marx rimanga iscritto in una prospettiva idealistica strutturalmente subalterna a quella hegeliana. La rimozione troppo affrettata e poco meditata della filosofia dello Spirito e l’apertura all’influenza di Feuerbach, infatti, lungi dal risolvere gli esiti problematici della logica e della filosofia etico-politica di Hegel, fanno regredire l’orizzonte teorico marxiano tanto sul piano logico-ontologico quanto sul piano politico-antropologico, tanto sotto il profilo della ricerca di un principio di universalizzazione più ampio di quello hegeliano, quanto sotto il profilo del problema moderno di mediare individualità e universalità, soggettività ed eticità. Soltanto nella maturità, quando rielaborerà lo spessore teorico del proprio iniziale hegelismo, Marx riuscirà ad evadere da una metafisica del soggetto che, nonostante il preteso materialismo, rinvia ad un umanesimo spiritualistico.

 

L’argomentazione di tale ipotesi si svolge attraverso quattro passaggi teorici:

 

a)la ricostruzione dei lineamenti del robusto hegelismo che sorregge la tesi di laurea di Marx;

b)la ricognizione dei principali concetti della filosofia hegeliana alla luce di una lettura antropologica, anziché metafisica, dello Spirito;

c)lo smascheramento del materialismo ingannevole di Feuerbach, che veicola un umanesimo divinizzato e un comunitarismo organicistico privo di conflitti;

d)l’analisi del contraddittorio tentativo marxiano di individuare un soggetto, che tenga insieme l’impianto antropologico feuerbachiano e l’esigenza hegeliana dello svolgimento immanente del principio nel risultato.

 

Il primo capitolo è dedicato essenzialmente al commento del testo, Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, che segna l’esordio filosofico di Marx. Finelli mostra che i principali filosofemi della tesi di laurea - la distinzione tra determinazione formale e determinazione materiale, lo scarto tra apparenza oggettiva e parvenza soggettiva, la concezione della forma quale principio immanente di autodeterminazione del contenuto, che obbliga il determinato a sottrarsi alla sua pretesa coincidenza con sé e a svolgersi secondo il riferimento all’altro da sé - testimoniano la profonda adesione di Marx alla concezione dell’Idea quale principio non individuale e non empirico capace di organizzare realtà. Pur cogliendo l’eccessivo sbilanciamento contemplativo della filosofia dello Spirito, privata di una dimensione pratica che non può non essere presente in un principio di totalità, Marx, a differenza dei Giovani hegeliani, coglie le difficoltà di un concetto di critica che, confinando l’universale nello spazio della coscienza individuale, ripropone una teoria della conoscenza come atto di riflessione esteriore e, anziché sanare le scissioni del tempo moderno e universalizzare a tutti il principio della libertà, conferma la tradizionale separazione tra intellettuali e popolo. Egli è perciò alla ricerca di un universale reale, inclusivo di una dimensione pratica, che sia al contempo esito di un processo sovrapersonale.

 

Nel secondo capitolo Finelli rifiuta la lettura teologica della filosofia hegeliana, per proporre un’originale interpretazione del Geist che non è processo di emanazione o di creazione della natura attraverso la caduta dell’Idea fuori di sé, bensì processo di maturazione di una soggettività, capace di mediarsi con l’altro e di fare ritorno a se stessa senza perdersi nell’infinita serie di alterazioni che non si curvano nella sintesi e nella padronanza di sé. In questa prospettiva, la dialettica non è sinonimo di distruzione spiritualistica della natura o del finito, ma è processo attraverso il quale un soggetto che pretende di coincidere ottusamente con sé, rimuovendo la relazione costitutiva con l’alterità, è obbligato ad abbandonare configurazioni parziali, dogmatiche e inadeguate. Motore del processo di individuazione è la negazione determinata che si acuisce nella contraddizione, cioè nel riconoscimento che la negazione dell’altro è negazione di sé e perciò l’esistenza del finito non è semplice, come pretende la rappresentazione empirica e naturalistica, bensì duplice, fondata sulla compresenza interiore di due opposti. L’astrazione intellettuale, che realizza la falsa mediazione basata sull’alternanza o giustapposizione di opposti, non è un mero principio logico, ma è una modalità pratica di rappresentazione della soggettività e di organizzazione della comunità, ed è principio ideologico che, dislocando all’esterno l’universale e costringendolo in un particolare trasfigurato, mette in atto un processo di rimozione, proiezione e spostamento della relazione.

 

La debolezza della filosofia hegeliana - rileva Finelli - non risiede nel cominciamento, nella presupposizione di unità organica che condiziona l’intero svolgimento, nella posizione di un inizio assoluto che anticipa la pienezza della fine, perché il punto di partenza del processo dialettico è al contrario una situazione di immediatezza povera di determinazioni; la principale difficoltà della filosofia hegeliana risiede piuttosto nell’esito finale, il sapere assoluto, che viene traguardato sovrapponendo alla valenza pratico-dinamica della negazione determinata la valenza logico-linguistica della negazione assoluta. L’eccesso idealistico della filosofia hegeliana non dipende da una concezione neoplatonica dell’Idea, come ha argomentato ad esempio Lucio Colletti, bensì da un’estremizzazione teoreticistica della soggettività, conchiusa nel circolo dell’autoriflessività, nell’identità di un rispecchiamento che toglie la differenza. La concezione dello Spirito come autocoscienza perfetta e trasparente di sé, oltre a sconfessare l’esigenza di un principio pratico di universalizzazione della libertà e di unificazione della comunità che non produca scissioni all’interno della soggettività, imponendo il dominio della componente razionale su quella empirico-sensibile della personalità, rende aporetica la teoria circolare di una verità e di una soggettività che non sono presupposte ma poste attraverso la mediazione con l’alterità.

 

Nel quarto capitolo si individua il motivo costante della filosofia di Feuerbach, al di là della distinzione tra la fase razionalista e la fase sensista, nella rivendicazione dell’Essere, dell’Umanità Generica, quale fonte originariamente ricca di senso, principio di immediata coincidenza di individuale e universale. Finelli sottolinea la distanza tra la prospettiva sintetica e multiversa della filosofia hegeliana e l’impostazione analitica e monistica della filosofia feuerbachiana che, disconoscendo l’esigenza dello svolgimento circolare del presupposto iniziale, ripropone un principio immediato e originariamente pieno. Il nucleo del metodo critico di Feuerbach, il rovesciamento del soggetto nel predicato, è un modulo teoretico che, configurando nessi emanazionistici sul piano ontologico e nessi analitici sul piano logico, comporta un secco impoverimento dei concetti hegeliani. La dialettica, privata della valenza ontologica di costruzione di realtà e di soggettività, diventa meramente dialogica, riducendosi ad un ambito espositivo e dimostrativo di verità possedute; la negazione non è scarto e distanza da sé ma è solo negazione dell’altro, secondo un nesso esteriore ed esclusivo di unità e molteplicità; l’astrazione perde il suo significato pratico per riassumere una configurazione e una genesi individuale e mentale; l’alienazione non è la possibilità che l’essere per altro non sia medium per il ritorno al sé, non è l’esito probabile della socializzazione che si svolge nell’ambito del sistema moderno dei bisogni, non è risultato di un processo di esteriorizzazione che richiede al singolo di uniformarsi a misure universali riconoscibili ma non garantisce la conservazione e la riproduzione della soggettività, ma è cesura prodotta dall’errore individualistico del singolo che si separa arbitrariamente dal suo contenitore universale.

Nel terzo e nel quinto capitolo Finelli esamina i risultati contraddittori del primo sistema teorico marxiano, mostrando come l’assunzione del soggetto feuerbachiano del genere umano e l’utilizzo dello schema dell’inversione del soggetto e del predicato per criticare la logica e la filosofia politica di Hegel, precludano strutturalmente la soluzione degli esiti problematici del Sapere assoluto e persino la comprensione dei reali limiti della sistemazione hegeliana del rapporto tra società civile e società politica.

Pur elaborando un’originale della teoria dello Stato, come forma che dissimula l’interesse privato attraverso l’involucro dell’interesse pubblico e rimuove le disuguaglianze e le asimmetrie della vita civile, Marx propone paradossalmente una teoria della società e della soggettività assai meno materialistica di quella hegeliana. Mentre per Hegel, infatti, la società civile è istituita sulla compresenza di due piani, quello dell’individualità e quello dell’universalità, per il giovane Marx la società civile è istituita soltanto sul principio dell’individualità atomistica mentre l’universale vive in una dimensione meramente immaginaria, dislocato nella sfera della società politica. Sia il popolo, il soggetto che specifica il genere e sorregge la prima valorizzazione della democrazia, sia il proletariato, il soggetto capace di procurare un’emancipazione umana più ampia dell’emancipazione politica, rinviano ad una teoria spiritualistica, in base alla quale ogni singolo uomo, costitutivamente libero in quanto ente comunitario e partecipe, al di là della sua natura fisico-corporea, della natura universale della comunità, si nega come ente di natura confinato nei bisogni e negli interessi riproduttivi, per produrre ambiti universali attraverso i quali il genere si autoriflette e prende possesso di sé. Tale metafisica del soggetto permane nel paradigma della filosofia della prassi lavorativa e nella concezione materialistica della storia, incentrata sull’uomo produttore, destinato, in forza della pienezza originaria della sua essenza comunitaria, a riappropriarsi quelle capacità di dominio incontrastato della natura che sono alienate dalle divisioni interne al genere. Soltanto nell’ambito degli studi di critica dell’economia politica, rielaborando il proprio rapporto, a lungo rimosso con Hegel, Marx comprenderà come l’astratto sia principio pratico, non solo logico e ideologico, di organizzazione della realtà e riuscirà a fondare una scienza della società moderna che realizza l’esigenza, posta ma non soddisfatta dalla filosofia dello Spirito assoluto, di attingere un universale a dominanza pratico-sintetica, anziché a dominanza logico-analitica, capace di sostenere lo svolgimento circolare del «presupposto-posto».

La cultura italiana che ha voluto richiamarsi al pensiero di Marx non si è sostanzialmente interrogata sulla sostanziale incompatibilità tra il soggetto impersonale attinto dal Capitale e il soggetto spiritualistico cui rinviano la filosofia della prassi e la concezione materialistica della storia, tra un modello non empirico e non soggettivo di scienza e un sapere che si richiama a principi autoevidenti immediatamente constatabili, tra un’impostazione sintetica capace di mediare e di stringere in unità molteplici piani di realtà e un’impostazione analitica che deduce ogni momento della storia e ogni aspetto della vita individuale e collettiva dalla divisione del lavoro, tra un modulo teorico che individua un principio produttivo di beni materiali, di rapporti sociali e di rappresentazioni ideologiche e un modulo teorico che riconduce l’intera realtà all’elaborazione umana del naturale tramite il lavoro. Ed è probabilmente questa una delle ragioni per cui il ceto politico e intellettuale di formazione marxista ha potuto sbarazzarsi facilmente della critica marxiana dell’economia politica e riconvertirsi a concezioni positiviste e mercantili dell’essere sociale e a visioni contrattualiste o tecnico-amministrative della politica.

 

 

 







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