A scuola dai buoni maestri? Elio Vittorini
Data: Giovedì, 01 maggio 2008 ore 08:38:38 CEST
Argomento: Rassegna stampa


 A scuola dai buoni maestri
Soldati, Vittorini, Moravia.
 di Giorgio Bocca


Ora che sono vecchio e dovrei essere anche saggio, i giovani mi chiedono se ci sono davvero dei buoni maestri che t'insegnano a superare le difficoltà della vita e ti consigliano per fare un buon lavoro. Che tipo di buon maestro? Ne ricordo alcuni. A.Moravia

Mario Soldati, lo scrittore, era un uomo geniale e imprevedibile, scriveva romanzi e dirigeva film, era un uomo pratico. "Quanti tavoli hai nel tuo studio?", mi chiese quando lo incontrai per un'intervista. "Ho una scrivania - gli dissi - quante dovrei averne?". "Tavoli - disse lui - non scrivanie, almeno tre tavoli, lunghi e larghi, da tenerci su, a portata di mano, ciò che ti occorre: libri, dizionari, penne, matite, nastro adesivo, forbici, bianchetto. Tu fumi? Sigarette? Sbagli, meglio il Toscano, una scatola di Toscani sul tavolo con fiammiferi svedesi e portacenere, almeno quattro, perché chi ti visita sparge la cenere dappertutto. E le macchine per scrivere: almeno due, in caso una si rompa; e i tuoi libri, da cui puoi sempre ricopiare qualcosa, perché nulla è più inedito di ciò che è stampato. E anche fiori, e caramelle alla menta. Ti piacciono?". Era simpatico, Soldati, un buon maestro.

Era un buon maestro anche Elio Vittorini, formidabile organizzatore di cultura, che fece la prima antologia della letteratura americana, per farci capire che Pascoli e Carducci, Dante e Boccaccio erano indispensabili, e che anche Gide e i francesi non potevano mancare, ma c'erano anche gli altri di lingua inglese.

Era un buon maestro anche Alberto Moravia, di lui si sapeva come lavorava, come si doveva lavorare: di mattina, dalle dieci a mezzogiorno, secondo il metodo delle duecento righe al giorno, senza aspettare l'ispirazione, come un buon cottimista che fa regolarmente il suo lavoro.

Ora che sono vecchio e devo essere anche saggio, posso dare qualche consiglio ai giovani:
attenti al perfezionismo. Tommaso Besozzi, il giornalista che rivelò la vera morte del bandito Giuliano, ucciso da suo cugino Pisciotta per conto dei carabinieri, non usava mai una parola più del necessario, scriveva cronache essenziali, pure e dure come un diamante. Un giorno che gli finì la voglia e la capacità di restare in quella sua perfezione, andò nel pollaio della sua casa di campagna, tolse la sicura a una bomba a mano e se la fece esplodere nel petto, come un kamikaze del buon giornalismo. Certo una simile fine disperata ed eroica non la consiglio. Il perfezionismo è una malattia diffusa tra i cronisti.
Per anni consumai migliaia di fogli buttati nel cestino al minimo errore, ne venni fuori solo con un atto di modestia: accontentati di scrivere come puoi, come sai, con gli errori che fai, con le ripetizioni, le inesattezze, le citazioni sbagliate. Non sei un genio, sei un operaio della scrittura, fai, come Moravia, il tuo cottimo, la tua produzione giornaliera.

Posso anch'io entrare nella parte del buon maestro? E allora vorrei dire ai giovani: per favore non ricominciamo con l'ermetismo, con la scrittura per pochi, da decrittare, con gli snobismi di gruppo, con le lettere per pochi. Forse l''Ecclesiaste' sarà un po' misterioso, come il velo del tempo, e i sonetti di Shakespeare a chiave, ma la grande letteratura, la buona letteratura è chiara.

Non date ragione a Kierkegaard o ad altri odiatori del giornalismo, manipolatori d'idee e inventori di falsi bisogni. "Parla come mangi", dice il proverbio, parla e scrivi chiaro.(A cura di M.Allo)

A scuola dei buoni maestri? All'approssimarsi del centenario della nascita, vi proponiamo come omaggio a Elio Vittorini:
Il ritorno alla Sicilia negli anni del dolore

  Il 1950 fu un anno insolitamente sereno per Vittorini. Lavorava a Milano, da quando era finita la guerra, come consulente editoriale in un prestigioso ufficio al piano nobile dei mitici locali della Mondadori, in via Bianca di Savoia. Al pianoterra, alla redazione di "Epoca", la rivista appena fondata e diretta da Arnoldo Mondadori in persona, lavorava il figlio Giusto, da poco guarito da una lunga malattia. Inoltre aveva appena ottenuto l´annullamento del matrimonio con Rosina Quasimodo ed era andato ad abitare stabilmente con Ginetta Varisco, la donna che amava da tempo (e che avrebbe sposato in extremis tre giorni prima di morire). E infine era venuto ad abitare con lui l´altro figlio, Demetrio, sedicenne, sino ad allora vissuto con i nonni a Siracusa. Dire Vittorini significava allora dire "Conversazione in Sicilia" il capolavoro scritto nel 1938-´39, che, con il suo rarefatto realismo lirico, lo aveva consacrato come il cantore degli «astratti furori per il genere umano perduto» insorti nel momento più duro della dittatura fascista.
"Conversazione" era stato, come dirà Italo Calvino, il primo e insuperato testo della letteratura della Resistenza. A quelli di "Conversazione" erano seguiti gli anni di "Americana", "Uomini e no", "Il Sempione strizza l´occhio al Frejus", "Le donne di Messina" e quelli intensi e tormentati del "Politecnico" fino alla rottura col Pci, gravemente sigillata da Togliatti con la frase «Vittorini se n´è ´gghiuto e suli ci ha lasciato», impareggiabile nella sua banalità considerando che era rivolta ad uno scrittore reo di aver sostenuto che «la libertà è libertà solo dove anche gli imbecilli e gli stolti, i pazzi e i visionari possono dire quello che pensano». L´idea di pubblicare una nuova edizione di "Conversazione in Sicilia" (la settima) impreziosita da illustrazioni fotografiche nacque proprio allora, nel febbraio 1950, e per realizzarla Vittorini venne in Sicilia con l´amico fotografo Luigi Crocenzi e raccolse un materiale imponente.
Il libro uscì nel dicembre 1953, ma fu accolto con freddezza. Di tutta quell´operazione editoriale rimaneva comunque un punto positivo: per tre anni, dal ´50 al ´53, Vittorini aveva rimestato nel mucchio delle 1.300 foto scattate dall´amico e il suo occhio si era soffermato su particolari da associare ai ricordi rievocati in "Conversazione", ma senza potersi sottrarre al bisogno fantastico di rivedere e ripensare quei luoghi da una prospettiva artistica del tutto diversa.
Fu così che concepì quella che sarebbe stata l´ultima sua opera, per la quale quelle foto gli fornivano un´ispirazione narrativa di rara forza artistica. Cominciò così nel 1952 la stesura de "Le città del mondo", l´opera in cui tutta la Sicilia diventa la vera città del genere umano. Vi lavorò per tre anni, fino al dicembre del 1955, quando la interruppe per la perdita del figlio ventisettenne Giusto. Per Elio fu un colpo mortale che lo svuotò di ogni interesse creativo. Quel che aveva scritto del nuovo romanzo, frammentario ma non tanto da non rivelare il disegno posto alla sua radice, rimase per sempre nei suoi cassetti, per trarne di tanto in tanto qualche brano da utilizzare o addirittura qualche sceneggiatura per film.
"Le città del mondo", pubblicato postumo nel 1969, consta di un blocco di quaranta capitoli che si presumono definitivi, e di una serie di frammenti e varianti che proseguono, senza però esaurirlo, il disegno dell´opera. Si apre con la descrizione del viaggio di due pastori, padre e figlio, che, spingendo un gregge di pecore, percorrono la Sicilia sudorientale, da levante a ponente lungo un itinerario che i due guardano con occhi diversi: il figlio Rosario vede da lontano i tetti dei quartieri degradati della città di Scicli e sogna di entrare nella città ideale, ma il padre lo frena con le sue oscure paure. Nello stesso tempo un altro padre ad un altro figlio muovono da Contessa Entellina all´altro capo della Sicilia e seguono un cammino che si accosta ai paesi senza penetrarvi: di essi è il padre, una specie di rapsodo paesano, quello che avverte il senso del mito e cerca di trasmetterlo al suo piccolo Nardo.
Ai filoni epico-lirici di queste due coppie se ne intrecciano altri tre che hanno per protagonisti Gioacchino e Michela, novelli sposi in continuo spostamento, la ragazza di Valdemone, Rea Silvia e Odeida, l´anziana prostituta che la vuole sfruttare e, infine, «la signora delle Madonie». Tutti i personaggi si muovono sullo sfondo di una Sicilia fantastica e mitica che si alterna alla Sicilia reale delle Legne dei contadini che scioperano e delle conseguenti repressioni: di ciò però Vittorini si limita a narrare che un mattino i contadini si sono allontanati dalle loro case ma non sono andati a lavorare sui campi, il che provoca l´inquietudine dei padroni e dei campieri, e un´atmosfera di forte tensione fa da contrappunto alla psicologia dei personaggi sempre alla ricerca di un bene, di un equilibri irraggiungibili se non in quella città ideale progettata da tutti gli utopisti: la nuova Gerusalemme costruita sulle rovine di Babilonia dell´età classica, la città senza nome perché nasconde tutte le città del mondo vittoriniano.
Figura emblematica di questa condizione è soprattutto Rosario, che cerca la città più bella: egli pensa di averla trovata quando arriva dinanzi a Scicli, che gli appare come Gerusalemme. Nell´edizione illustrata di Conversazione, Vittorini colloca la foto del panorama di Scicli al punto in cui Silvestro giunge in casa della madre, ma nel testo non c´è alcuna indicazione del nome del paese: è solo detto che quel nome «era scritto su un muro come sulle cartoline che io mandavo ogni anno a mia madre»: niente altro. E in effetti, in quel punto di "Conversazione", in quella atmosfera liricamente contratta, ogni altra aggiunta o precisazione sarebbe suonata come una stonatura.
Esempi come questo se ne potrebbero fare molti, per dimostrare la profonda differenza tra il Vittorini di Conversazione e quello de "Le città del mondo": il Vittorini di allora aveva operato in una temperie storica fortemente caratterizzata dal trionfo della retorica fascista trasudante dalla proclamazione dell´Impero e dalla partecipazione alla guerra civile spagnola iniziata nel ´36. Ora, quindici anni dopo, finita la guerra, caduto il fascismo, consumata l´esperienza del "Politecnico", modificati i rapporti tra i partiti comunisti dopo la morte di Stalin, il contesto storico in cui nascono "Le città del mondo" è totalmente cambiato.
Mentre ci scusiamo per la forzata sbrigatività di questi accenni che meriterebbero ben più ampio sviluppo, non possiamo non ricordare che anche la poetica dello scrittore non era più quella di prima: in lui si era andata accentuando la polemica «contro il romanzo tradizionale e contro la visione del mondo legata alla civiltà contadina». Dal punto di vista stilistico, inoltre, ne "Le città del mondo" la narrazione procede con un andamento più calmo e armonioso, quasi classico, in cui i tipici sottintesi simbolici vittoriniani e le esasperazioni di certi dialoghi pieni di artifici retorici iterativi sono quasi scomparsi.
In conclusione, se le numerose illustrazioni fotografiche collocate in quella edizione di "Conversazione in Sicilia" nulla aggiunsero al valore dell´opera, esse ebbero tuttavia il merito di riaccendere la fantasia e la forza creativa e narrativa dello scrittore che, in un certo senso, con "Le città del mondo" fece giustizia dei suoi stessi sperimentalismi teorizzati sin dai tempi del "Politecnico".
Alla fine della lettura di quel che si è trovato di questo capolavoro incompiuto, che qualche critico ha definito «il Gattopardo epico di Vittorini» restano apparentemente senza risposta tanti interrogativi: dove, come e quando si concluderà il viaggio dei numerosi personaggi del libro? Quali sono gli obiettivi reali che ciascuno di essi si prefigge? Dove si dirige l´autore stesso?
La risposta viene dallo stesso Vittorini, che un giorno, parlando dell´opera che stava scrivendo, affermò che in essa c´era «il ritorno alla sua Sicilia, ma ad una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi che sono pastori e contadini venditori ambulanti e camionisti, zolfatari e campieri, sono come vie, piazze, angoli di una medesima città e nello stesso tempo è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l´universo, poiché tutto ciò che nel libro viene citato come estraneo all´isola è ancora come se fosse Sicilia: la Sicilia di sempre, fertile e desolata, isola felice e terra di fame». La Sicilia, aggiungiamo noi, dalla quale Vittorini non era mai andato via.






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