I DEMONI DI SAN PIETROBURGO
Data: Giovedì, 24 aprile 2008 ore 16:50:34 CEST
Argomento: Rassegna stampa


 

DEMONI DI SAN PIETROBURGO  Un gradito ritorno dietro la cinepresa quello di Giuliano Montaldo che torna a dirigere dopo diciotto anni di assenza . Regista che ha fatto dell’impegno civile la cifra della sua arte, autore di film come "Sacco e Vanzetti", "Giordano Bruno", "L’Agnese va a morire", "Il giocattolo" (solo per citarne alcuni), Montaldo ci propone ora il suo “I demoni di San Pietroburgo”. Siamo nella Russia del 1860, quando un attentato dinamitardo provoca la morte di un membro della famiglia imperiale. Fjodor Mikhajlovic Dostojevskij (interpretato dal’ottimo Miki Manojlovic), a quell’epoca scrittore già famoso, incontra in un’ospedale psichiatrico Gusiev (Filippo Timi, a suo agio nella parte di un rivoluzionario pentito), grande ammiratore dei suoi romanzi, il quale gli confessa di aver fatto parte del gruppo terroristico che ha compiuto l’attentato e che i suoi compagni intendono eliminare un altro parente dello Zar. Gli rivela anche che il capo dell’organizzazione è Aleksandra (Anita Caprioli, efficace), una giovane donna che lo scrittore dovrebbe incontrare per convincerla a desistere dall’impresa. Dostojevskij, che in gioventù aveva professato idee rivoluzionarie per le quali era stato condannato a morte, pena poi commutata in dieci anni di Siberia, è fortemente turbato da questo incontro. La sua vita è già piena di difficoltà: ridotto quasi in miseria dalla passione per il gioco, pressato dai creditori, afflitto da frequenti attacchi di epilessia, deve affrettarsi a consegnare all’editore il suo romanzo, “Il giocatore”, che di giorno cerca di portare a termine con l’aiuto di Anna (Carolina Crescentini, che non è più soltanto una promessa), una giovane stenografa che diventerà sua moglie. Di notte si mette alla ricerca dei terroristi, incappando così nell’ispettore Pavlovic (Roberto Herlitzka). Girato con i toni del dramma classico, in otto settimane fra Torino e San Pietroburgo, denso di riflessioni sulla violenza, i cattivi maestri, l’amore, la malattia e la febbre del gioco: “Io soffro per l’intolleranza altrui – afferma Montaldo – e qui racconto la mia intolleranza per le bombe e la violenza”, il film ha in realtà avuto una lunga gestazione, a partire dagli anni 80 quando il regista lesse un soggetto di Paolo Serbandini tratto da un’idea di Andrei Konchalovsky. I demoni del titolo sono quelli che tormentano l’animo Dostojevskij che teme di essere stato cattivo maestro per quei giovani attentatori e cerca così di convincerli a desistere, lui che dopo gli anni passati in Siberia ha conosciuto la vera disperazione e il degrado dei diseredati del popolo, esperienza che lo ha convinto che il mondo si possa cambiare con le idee piuttosto che con le bombe. La pregevole fotografia di Arnaldo Catinari dà alla pellicola il giusto tono per descrivere il tormento di un’epoca e dell’animo del grande scrittore russo. Il romanzo più riuscito di Dostojevskij – sostiene Montaldo – è quello che ha scritto sulla sua pelle: la sua vita”. Realizzato con il sostegno dl Ministero dei Beni e le Attività Culturali, prodotto da Jean Vigo Italia e da Rai Cinema, “I demoni di San Pietroburgo” è distribuito da 01 Distribution in cento copie e sarà nelle sale da venerdì. A cura di M.Allo (Da Repubblica)


Questa pellicola, a metà strada tra storico/biografico e conversione in film della celebre opera I Demoni di Fjodor Dostjevskij, mescola stralci della vita dello scrittore con la narrazione del suo romanzo......

 

 

I demoni, di Fëdor Michajlovic Dostoevskij

Da un fatto di cronaca avvenuto in Russia alla fine del 1869, l'uccisione dello studente Ivanov, nacque l'idea di questo romanzo, che Dostoevskij concepì in un momento particolarmente cupo della sua esistenza, tormentato dalle difficoltà economiche e dalla terribile nostalgia per la patria lontana che lo accompagnava durante il suo secondo soggiorno all'estero. Egli individuava nella nuova società colta, abbagliata dal liberalismo e contemporaneamente dalle nascenti teorie positivistiche, la rovina della Russia, caduta in un deprecabile stato di miseria morale. La sua rabbia è diretta verso quei giovani rivoluzionari - i "demoni" del titolo - che intorno al 1870 cercavano di scalzare dal potere i liberali della vecchia generazione, incapaci di rispondere fattivamente alle provocazioni e all'ostilità politica dei cinici e presuntuosi nichilisti. Ciò che sconvolge maggiormente Dostoevskij è l'assenza della fede in Dio, che rende ai suoi occhi del tutto gratuita e immotivata ogni loro pretesa ideologica. Al di là dell'effettivo svolgimento dei fatti - l'assassinio di Ivanov non è in tal senso che un pretesto - ciò che interessa realmente all'autore è esprimere il suo disagio e le sue convinzioni politiche, attraverso un'articolata costruzione narrativa, che sfocia nella definitiva sconfitta dei "demoni" e nella riaffermazione della fede evangelica.
L’atmosfera de I demoni è impregnata di spirito farsesco. Già questa è una giustificazione dell’atmosfera di violenta negazione che incombe su tutto il libro. Spirito farsesco per Dostoevskij significa che, pur prendendo sul serio i problemi impostati nel suo romanzo, egli non può fare altrettanto con le persone che devono affrontarli; inconsciamente il suo libro si trasforma in un voto di sfiducia nella società, nel ribollente mondo sotterraneo russo e nel mondo superiore cristallizzato. A nessuno dei personaggi è risparmiato il ridicolo, che risulta più corrosivo di quello di Swift in quanto più specifico, sottile e beffardo. Un romanziere che si proclama paladino dell’ordine costituito e poi burla e fa a brandelli chiunque gli arrivi a tiro, è in sostanza un vero sovversivo. Quando si accinse a scrivere I demoni all’età di cinquant’anni, le opinioni di Dostoevskij erano diventate quelle di un reazionario ma il suo temperamento restava essenzialmente quello di un rivoluzionario.
Il tono farsesco non è fuori luogo ne I demoni, in quanto i personaggi sono persone che fingono. Stepan Trofimovic è un liberale che finge di essere un eroe, un liberale che trema davanti alla sua ombra ed è talmente imbevuto di retorica da non poter distinguere ciò che dice da ciò che pensa. Stavroghin è chiamato Ivan lo Zarevic, il falso zar che regnerà appena i nichilisti avranno trionfato. Dobbiamo questa descrizione a Piotr Verchovenskij, anch’esso un personaggio che finge quando parla in nome del socialismo e tuttavia ammette di essere un imbroglione senza alcun diritto di parlare in nome di niente. E si vedano gli appartenenti a strati sociali più alti - Lembke, il governatore antipatico; sua moglie Julia, prototipo della donna ricca che abbraccia indiscriminatamente le cause dei giovanotti interessanti; Karmazinov, il famoso scrittore, che adula servilmente i rivoluzionari perché desidera essere lodato da tutti - anche loro fingono. E fingono anche Sciatov e Kirillov, le persone più serie del libro, poiché essi fingono di possedere una chiarezza di idee e una risolutezza che di rado son loro proprie, e devono pertanto lottare con le immagini irrealizzabili che hanno costruite di se stessi. Ogni personaggio è una presa in giro delle sue stesse idee; tutti sono alienati da sé nel loro comportamento e febbrilmente irrequieti nel loro pensiero: anche il santo Padre Tichon soffre, significativamente, di un tic nervoso. 
Un tono prevalentemente scherzoso, un complesso di personaggi che fingono - e uno scenario di meschinità provinciale. Sebbene Dostoevskij disprezzasse Turghenev e col personaggio di Karmazinov lo attaccasse con estrema violenza, le sue opinioni sul modo di vivere russo sono molto vicine a quelle che Turghenev esprimerà alcuni anni dopo in Fumo, il suo romanzo più occidentalizzante. La città provinciale di Dostoevskij diviene l’emblema della ipocrisia spicciola e dell’ignoranza, di quella grossolanità morale che il Potughin di Turghenev rimprovera a tutta la Russia. La società de I demoni è una società sclerotizzata per mancanza di libertà, andata a male per mancanza di coltivazione. Dostoevskij ribatte continuamente su questo tema in tutto il libro, schernendo, ad esempio, gli « scienziati» russi che non hanno « fatto un bel niente» - sebbene, così aggiunge indirettamente, « questo succeda spesso... agli scienziati da noi in Russia ». Quando Piotr Verchovenskij, nel bel mezzo dei preparativi per assassinare Sciatov, si ferma ad un caffè e divora tranquillamente una bistecca cruda, la sua grossolanità sembra assolutamente tipica dell’ambiente russo. E ancor più rivelatore è il passo in cui l’impiegato Liamscin, che fa il buffone per il gruppo di intellettuali che si raduna attorno a Stepan Trofimovic, improvvisa sul piano un duello musicale tra la Marsigliese e Mein lieber Augustin, ed il « valzer volgare» sopraffà l’inno francese. Liamscin intende fare una parodia della guerra franco-prussiana ma si capisce bene che essa è anche una parodia di tutti i Liamscin e che Dostoevskij intende dire: ecco che cosa accade alla nostra Russia provinciale: partiamo con le pretese della Marsigliese e finiamo con l’indolenza di Mein lieber Augustin.
Tono generale, personaggi, scenario - tutto deriva rigorosamente dalla struttura complessiva del libro. « Intendo esprimere certe idee », egli scrisse, « e ogni considerazione d’ordine estetico può andare al diavolo... Anche se l’opera mi diventa un vero e proprio libello, dirò tutto quello che ho nel cuore ». Fortunatamente le considerazioni estetiche non poterono essere represse e la lettura del libro è un’esperienza che da un libello non ricaveremmo mai. Dostoevskij si propone anzitutto di dare l’allarme, di ricordare al pubblico colto i pericoli del radicalismo e dell’ateismo occidentali. Ma questo desiderio lo sconvolge talmente, suscita ricordi e sentimenti così ambigui che egli non può mai decidere che cosa sia realmente il nemico - se non un’infuocata incarnazione dell’Anticristo. Sotto un certo aspetto il radicalismo appare come un veleno che scorre nelle vene della società, ma più in superficie diviene uno scherzo da scolaretti, una rozza invenzione senza base sociale né contenuto intellettuale. Questa incertezza di atteggiamento è tipica di Dostoevskij che era egli stesso diviso tra ricerca di Dio e negazione di Dio, reazione panslavista e radicalismo occidentale; e a ciò si devono anche i violenti cambiamenti che uno dei suoi temi-chiave -il concetto di redenzione - subisce ne I demoni. Proprio mentre egli mette in guardia il lettore contro il radicalismo e disprezza il liberalismo, essi si infiltrano ripetutamente nel suo pensiero; il problema dell’ideologia, che altri scrittori proiettano oggettivamente in un azione immaginaria, è per lui un tormento personale.
Alcuni critici hanno sfruttato il substrato politico de I demoni per ricavarne lezioni e tracciare analogie; mi occuperò di loro fra breve; in questo momento vorrei osservare che leggere Dostoevskij come se fosse un profeta religioso o politico - e per giunta dotato di un ben preciso messaggio - significa invariabilmente impoverire il suo mondo poetico di quei contrasti che sono la carne e il sangue della sua arte. Altri critici lamentano che il modo in cui tratteggia i radicali sia ispirato a malevolenza, sia una caricatura dei fatti. Ciò è esatto, e Dostoevskij si è attirato per primo queste critiche con lo scrivere ad Alessandro III che I demoni erano uno studio storico del radicalismo russo. Ma pur essendo esatta, questa critica non ha un grande peso; una caricatura dei fatti può benissimo rivelare la verità, ed è precisamente come caricatura - prima ho parlato di spirito farsesco del libro - che il romanzo deve esser letto.
I rivoluzionari finiscono forzatamente per aver le stesse tare della società che essi vorrebbero trasformare. I seguaci di Piotr Verchovenskij sono esattamente quello che era prevedibile trovare negli abissi di quella Russia autocratica in cui non si poteva respirare: sono piccoli burocrati che hanno voltato gabbana, tangheri provinciali desiderosi di idee nuove e di biancheria pulita. Ed anche nei suoi momenti di maggior cattiveria Dostoevskij non lo dimentica mai; egli sa che gli Stavroghin, gli Scigalov e i Verchovenskij sono parte integrante della Russia da lui esaltata e le piaghe della Russia sono le sue stesse piaghe.
Il concetto che Dostoevskij ha dei radicali russi è evidentemente limitato: egli non sa quasi nulla dei terroristi-populisti della Narodnaja Volja né di quei marxisti che cominciavano appena a farsi vivi in Russia all’epoca in cui egli scriveva il suo libro. Ma, sia pure in modo distorto, nel descrivere il gruppo dei cospiratori de I demoni, egli attinge alla storia russa e alla sua esperienza personale.








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