Il mito del direttore d'orchestra
Data: Marted́, 22 aprile 2008 ore 00:10:00 CEST
Argomento: Rassegna stampa






NORMAN LEBRECHT

LA CREAZIONE DEL MITO
DEL DIRETTORE D'ORCHESTRA
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Ogni epoca si inventa i propri eroi. Il guerriero, l'amante e il martire colpirono la fantasia medievale. I romantici venerarono il poeta e l'esploratore; i rivolgimenti industriali e politici posero su un piedistallo lo scienziato e il riformatore sociale. L'avvento dei mass media ha permesso di fabbricare idoli su misura per i vari gruppi di consumatori: pop star per gli adolescenti, dive dello schermo per i sentimentali, personaggi di cartapesta da soap opera per i patiti del teleschermo, campioni dello sport per i più energici, terroristi e dirottatori per gli «oppressi», e filosofi pop per i chiacchieroni da salotto.
Gli eroi hanno la funzione di una valvola di sicurezza nella pentola a pressione della società. Permettono agli ometti occhialuti di identificarsi in modo innocuo con Sylvester Stallone anziché prendere a pugni il principale, e alle ragazze timide di riversare la loro castità, con la fantasia, nella sessualità ostentata di Marilyn Monroe e di Madonna. Sono tutti sogni che non hanno relazione con la realtà concreta. I poster del guerrigliero sudamericano Che Guevara, un tempo onnipresenti nelle camere da letto dei giovani, non preannunciavano affatto un'incipiente rivoluzione giovanile nei sobborghi eleganti. Il Che, come forza politica, era un elemento di disturbo piuttosto limitato per qualche lontano regime. Ma, in quanto icona, serviva a sfogare le frustrazioni e le aspirazioni dei giovani benestanti nell'Occidente corrotto.
Questi eroi popolari sono miti nel senso letterale della parola, in quanto inconsistenti oppure del tutto fittizi. Le divinità culturali non sono diverse. Andy Warhol e Jeff Koons hanno dimostrato che un artista non deve essere necessariamente originale per venire celebrato; il nome di Karlheinz Stockhausen è noto agli amanti della musica che non hanno mai ascoltato una sola nota composta da lui. La loro fama non è dovuta tanto a ciò che inventano quanto al mito che rappresentano.
Il «grande direttore d'orchestra» è un eroe mitico di questa specie creato artificialmente per uno scopo che non ha nulla a che vedere con la musica, e sostenuto dalla necessità commerciale. «La direzione d'orchestra come attività a tempo pieno è un'invenzione sociologica, e non artistica, del ventesimo secolo», ha riconosciuto Daniel Barenboim, [1] un membro eminente della Categoria. «Non esiste una professione alla quale un impostore possa accedere con più facilità», scrisse l'acuto e tollerante violinista Carl Flesch. [2] Il direttore esiste perché l'umanità chiede un «capo» visibile o almeno una figura-guida identificabile. La sua raison d'être musicale è del tutto secondaria rispetto a questa funzione.
Il direttore d'orchestra non suona strumenti, non produce alcun suono; tuttavia proietta un'immagine del far musica sufficientemente credibile per permettergli di sottrarre gli applausi a coloro che in realtà quei suoni hanno creato. In termini musicali, sostenne il polemista Hans Keller, [3] «l'esistenza del direttore d'orchestra è sostanzialmente superflua, e bisogna raggiungere un livello elevato di stupidità musicale per credere che osservare il movimento della bacchetta o la faccia inane dei direttore sia più semplice, allo scopo di sapere quando e come suonare, di quanto lo sia ascoltare semplicemente la musica». Questa eresia, espressa in modo meno garbato, la si sente ripetere ogni volta che i professori d'orchestra si radunano per sfogare i loro motivi di insoddisfazione. «Troppi individui di questo genere sono maestri dei gesto brillante», ebbe a protestare il flautista James Galway, [4] già della Filarmonica di Berlino. Un cattivo direttore d'orchestra è la maledizione della vita quotidiana di un musicista, mentre uno bravo non è molto meglio. Dà ordini superflui e offensivi, pretende un'obbedienza sconosciuta al di fuori dell'esercito e riesce a guadagnare in un concerto una somma pari a quella con cui viene pagata l'intera orchestra.
Eppure, quando si tratta di organizzare una stagione, sono gli stessi strumentisti che eleggono i direttori o li inventano. Il mito ha inizio con la loro muta sottomissione. Gli orchestrali sono una razza dura che si scioglie al movimento della bacchetta magica di uno stregone. Dicono [5] che Arthur Nikisch doveva soltanto entrare in una sala perché tutta l'orchestra suonasse meglio. Erano gli orchestrali a parlare della «magia» che rendeva Arturo Toscanini e Wilhelm Furtwängier diversi da tutti gli altri mortali. Leonard Bernstein, diceva uno di loro, «mi fa ricordare perché volevo diventare musicista». Con un impulso senza parole, un direttore eccezionale può cambiare la chimica umana nella sua orchestra e nel suo pubblico. Elias Canetti, pensatore avverso all'autoritarismo, ha inteso tutto ciò come una manifestazione di un'autorità quasi divina:

I suoi occhi tengono soggiogata l'intera orchestra. Ogni esecutore ha la sensazione che il direttore lo veda personalmente e soprattutto lo senta... Egli si trova nella mente di ogni suonatore. Non soltanto sa quel che deve fare ciascuno, ma sa ciò che sta facendo. È l'incarnazione vivente della legge positiva e negativa. Le sue mani decretano e proibiscono... E dato che, durante l'esecuzione della musica, non deve esistere altro che questa attività, ebbene, per quel tempo il direttore è il padrone del mondo. [6]

Per l'ascoltatore, il direttore rappresenta una duplice forma di evasione dalla realtà: il desiderio di perdersi nella musica unito all'impulso di sublimarsi nelle azioni della figura onnipotente sul podio. Il direttore è un eroe in modo evidente: i suoi gesti vengono inconsciamente imitati con un dito sul bracciolo della poltrona della sala da concerti oppure, a casa, con il movimento del braccio davanti allo specchio del bagno, come accompagnamento della musica registrata. Riprodotto su disco e in video, il mito del maestro si è sviluppato in un culto mondiale che mette in moto una valanga di denaro.
È una forma di adorazione estremamente raffinata. Il direttore non è mai un eroe delle masse, è l'idolo di un'élite. Per il comune tifoso di calcio e per il genitore single che campa grazie ai sussidi dello Stato, egli rappresenta semmai una condizione irraggiungibile di privilegio. Soltanto Toscanini e Bernstein erano famosi come rock star, e per ragioni che non avevano nulla a che vedere con la loro arte. Il direttore d'orchestra non è un eroe popolare, bensì l'eroe degli eroi; l'incarnazione del potere agli occhi degli onnipotenti. «Non esiste un'espressione del potere più ovvia dell'esibizione di un direttore d'orchestra», osservò Canetti. [7] «Ogni particolare del suo comportamento pubblico getta luce sulla natura del potere. Qualcuno che non sappia nulla del potere può scoprirne uno dopo l'altro tutti gli attributi osservando con attenzione un direttore.»
I personaggi potenti diventano devoti ammiratori. Margaret Thatcher, primo ministro britannico, invidiava apertamente l'assolutismo di Herbert von Karajan. [8] Richard Nixon, alle prese con il Watergate, trovò il tempo d'inviare gli auguri di guarigione a Leopold Stokowski e di crogiolarsi nella musica dell'orchestra di Filadelfia da costui fondata. Ogni Maestro famoso che mettesse piede in Germania quando era al potere Helmut Schmidt veniva invitato a cena alla Cancelleria. Persino la Francia, descritta dal suo ministro della cultura [9] come un Paese antimusicale, ebbe presidenti che si occuparono del rimpatrio di Pierre Boulez e dell'insediamento di Daniel Barenboim alla Bastiglia. I festival salisburghesi di Karajan erano meta di pellegrinaggio dei massimi dirigenti dell'industria pesante tedesca. Un magnate giapponese dell'elettronica divenne un suo accolito. Uno dei maggiori fornitori della difesa britannica si faceva portare dal jet dell'azienda dovunque dirigesse Riccardo Muti.
I maestri sono sempre stati onorati con decorazioni e titoli. «La gente sente il bisogno di ricompensarlo», riferì un intimo di Bernstein.[10] L'establishment britannico, che trascura i compositori, ha accordato titoli a innumerevoli direttori; Oxford assegnò una laurea honoris causa a Karajan senza che egli avesse dato un contributo culturale rilevante. Bernstein, che ben poco fece per la Francia, fu insignito della prestigiosa Legion d'Onore. Lorin Maazel, un musicista tutt'altro che diplomatico, fu nominato «ambasciatore di buona volontà» dal segretario generale dell'ONU; [11] Riccardo Muti divenne «ambasciatore» dell'Alto Commissariato per i Profughi senza aver mai visto in tutta la vita la recinzione esterna di un campo profughi.
Sono onori che possono essere insignificanti, ma sono religiosamente elencati nei comunicati stampa dei direttori d'orchestra e servono a rafforzare il loro mito. Indicano una comunione dell'autorità e della posizione sociale con le persone più potenti della terra. In cambio, monarchi e presidenti sperano di condividere un po' della magia indefinibile del maestro, gli aspetti leggendari del suo mito. Oltre alla sagacia e a un'innegabile abilità, ai direttori è stato attribuito il possesso della chiave della vita e del vigore eterno. Pierre Monteux, a ottant'anni, chiese alla London Symphony Orchestra un contratto venticinquennale, rinnovabile per mutuo consenso. A novantun anni Stokowski firmò un accordo discografico decennale con la RCA. Toscanini e Otto Klemperer continuarono la loro attività anche dopo gli ottant'anni. Il fatto che molti altri siano morti relativamente giovani (Gustav Mahler a cinquant'anni, gli ungheresi István Kertész e Ferenc Fricsay a quarantatré e quarantotto, e i padri fondatori Bülow e Nikisch prima dei settanta) non altera il mito, come non lo alterava la vista del vecchio Karl Böhm che dormicchiava sul podio mentre la sua orchestra continuava a suonare. I direttori famosi hanno in comune con i politici la riluttanza a cedere il passo ai più giovani.
L'alone magico che li circonda viene ulteriormente dilatato dalle dicerie sulla loro rapacità sessuale. Klemperer fu aggredito sul podio da un marito geloso e Malcolm Sargent si prendeva continue libertà con le mogli dei colleghi. Nikisch aveva sempre un brillio malizioso negli occhi e, in quanto a Furtwängler, si diceva che si facesse una donna diversa nella sua stanza prima di ogni concerto. Al contempo, la comunione con lo spirito dei compositori defunti conferisce ai direttori un'aura sacerdotale, e ai loro concerti la solennità di un sinodo ecclesiale. Questo cocktail di potere spirituale e di prestanza fisica ha prodotto un eroe che i musicisti e gli ascoltatori hanno potuto invidiare ed emulare in segreto. Il direttore d'orchestra, un golem creato per uno scopo preciso, ha reagito prontamente al mutare dei gusti. Può aver dato l'impressione di vivere sull'Olimpo, ma è sempre stato sensibile ai capricci popolari e si è adattato per sopravvivere. Ogni direttore importante è stato un figlio ben riconoscibile del suo tempo, condizionato dal clima sociale e rappresentativo dell'etica predominante.
In un periodo di espansione territoriale, Hans von Billow era l'imperialista, Nikisch e Richter gli amministratori coloniali. I generali irremovibili come Stokowski e Koussevitzky conquistarono il podio durante la prima guerra mondiale. Nell'età dei dittatori furono seguiti da un tiranno, Toscanini, e da un pacificatore, Wilhelm Furtwängler. Georg Szell e Fritz Reiner furono i guerrieri freddi di un'epoca di austerità. Herbert von Karajan, modellato dai nazisti, trasformò la sconfitta in un miracolo economico personale. I libertari anni '60 produssero il trionfo di Bernstein, amore e pace e camicie forate alle prove. Le manie materialistiche dei decenni successivi produssero direttori che si comportavano come dirigenti d'azienda votati alle acquisizioni, e vivevano come Donald Trump. «Questi non sono artisti», disse un estraneo che aveva ascoltato per caso la conversazione tra l'autore di questo libro e un anziano e noto professore d'orchestra berlinese a proposito dei direttori. «Sono uomini d'affari.»
Il trionfo del capitalismo ha portato la direzione d'orchestra al suo livello più basso. Soltanto un gruppetto di personaggi promettenti al di sotto della quarantina si è fatto avanti per prendere il timone nel prossimo secolo, mentre la professione non riesce a rinnovarsi. «Dove sono finiti tutti i direttori d'orchestra?» si chiedono i vistosi titoli di tanti articoli allarmati.[12]
La crisi della direzione d'orchestra ha due facce. C'è scarsità di talenti genuini, e una preoccupante superficialità nello stato dell'interpretazione sinfonica. Brahms, Bruckner e Mahler vengono eseguiti più spesso che mai, ma con penetrazione assai inferiore. Non è una crisi isolata, ma ha origine nelle società che hanno prodotto il Maestro e il suo mito. Il direttore non è altro che uno specchio deformante del mondo in cui vive, un homo sapiens ingigantito. In quanto tale, la sua evoluzione rivela molte più cose sulla natura della società e della morale del ventesimo secolo che non sulla musica dello stesso periodo.
La storia della professione di direttore d'orchestra è inseparabile da quella delle istituzioni che vengono dirette. I grandi direttori creano grandi orchestre; quelli deboli ne causano il rapido declino. La cartina di tornasole per la capacità di un Maestro è il suo impatto su un complesso consolidato. Un novizio venticinquenne che si chiamava Simon Rattle trasformò un'orchestra stizzosa e demoralizzata di Birmingham in qualcosa che diede onore alla città. Leonard Slatkin ottenne lo stesso risultato a St Louis, nel Missouri, e altrettanto fece Mariss Jansons a Oslo.
La Filarmonica di Berlino gode del primato fra le orchestre grazie alla straordinaria successione di Bülow, Nikisch, Furtwängler e Karajan. Condivide la posizione al vertice con la Filarmonica di Vienna, il Concertgebouw di Amsterdam, una delle quattro orchestre di Londra e le Cinque Grandi americane: Boston, Chicago, Filadelfia, Cleveland e la Filarmonica di New York.
La Scala primeggiò nell'opera italiana sotto Toscamm, De Sabata, Serafin e Abbado; Vienna ha occupato la prima sfera nell'opera internazionale dai tempi della direzione di Mahler, attraverso quelle di Strauss e Bruno Walter, fino a Karajan, Maazel e Abbado. Il Covent Garden e il Metropolitan di New York sono gli altri pilastri della grande tradizione operistica.
Altri contendenti sono forti o deboli secondo il calibro dei loro direttori. La Filarmonica Ceca ebbe un posto di rilievo sotto Talich e Kubelik, l'Orchestra Sinfonica della BBC sotto Boult e Boulez, l'Opera di Dresda all'epoca di Fritz Busch, e Minneapolis quando il direttore era Dmitri Mitropoulos. Nessuno fu in grado di mantenere il loro livello di eminenza quando non poterono più contare sui loro direttori. «Non ci sono cattive orchestre», diceva polemicamente Mahler. «Ci sono soltanto cattivi direttori.»
La professione nacque a metà del secolo scorso quando i compositori abdicarono alla responsabilità di dirigere le loro opere, troppo complesse perché le orchestre le eseguissero senza una guida. Il direttore emergente, liberatosi dal dominio psicologico del compositore, affermò il proprio ruolo dapprima come personaggio cittadino, quindi nazionale, e finalmente internazionale, in armonia con lo spirito dell'epoca moderna. I suoi ideali si plasmarono nel corso di una dozzina di decenni; e se all'inizio covavano l'effimera speranza di un'esecuzione perfetta, passarono all'aspirazione di imprimere su superfici indelebili un concetto «definitivo» ed eterno del modo in cui si deve suonare la musica.
I dischi e i film hanno dato al direttore una celebrità mondiale e l'investitura della grandezza. Il concetto del Grande Direttore è una favola inventata per la conservazione dell'attività musicale in un'epoca in cui vi sono molte e diverse offerte per il tempo libero. Durante l'ultimo mezzo secolo, il numero delle orchestre di professionisti in tutto il mondo è raddoppiato fino a sfiorare le cinquecento, mentre il numero dei direttori di valore è inesorabilmente diminuito. Ogni orchestra deve vendere più di trentamila posti per stagione, e ognuna ha bisogno di un direttore «divo» per riuscire ad attrarre gli appassionati distogliendoli dagli hi-fl e dai televisori («Divi è una parola stupida», dice Georg Solti.[13] «I divi sono divi semplicemente perché viaggiano troppo»). In assenza del vero talento, le orchestre ripiegano sulle manie di grandezza delle case discografiche, ognuna delle quali, per ragioni commerciali, pretende di avere dieci o più direttori di fama mondiale.
Gli orchestrali diventano complici di questo inganno, e hanno motivo di pentirsene. La loro professionalità è cresciuta in misura inversamente proporzionale alla qualità dei direttori con cui hanno a che fare. I musicisti delle orchestre principali riconoscono al massimo sei maestri degni di dirigerli; con gli altri, digrignano i denti e guardano soltanto la parte sul leggio.[14] «È molto difficile per un professore d'orchestra, dopo aver lavorato per trent'anni con i più grandi, trovarsi alle prese con un nuovo arrivato che sale a dirigere una Sinfonia di Brahms», spiegò un eminente concertista. «Quando lavoro con un direttore mediocre, io comincio a pensare: ne avremo per due giorni, e devo creare un'atmosfera piacevole per l'orchestra...» Poiché sa che i suoi mezzi di sussistenza dipendono dalla vendita dei biglietti, nessun orchestrale è così avventato da mettere in pericolo cento posti di lavoro denigrando i direttori.
Le orchestre e le case discografiche sono colpevoli solo in parte della diffusione del mito del Grande Direttore. Nonostante l'attenzione che possono attirare, le case discografiche classiche sono relativamente piccole e idealistiche, con una media di duecento dipendenti e incassi non astronomici. Molte, è vero, sono proprietà di multinazionali, ma il posto della DG, o della Decca nell'ambito della potente Philips (che ha alle dipendenze trenta milioni di persone in tutto il mondo) è prestigioso quanto minuscolo. Smaniosi di trovare direttori, i dirigenti finiscono per lasciarsi manovrare dagli agenti, pronti a spingere qualcuno che può sembrare un Maestro e che assicura loro una sostanziosa percentuale dal dieci al venti per cento.
L'ascesa degli agenti dal potere illimitato è uno degli aspetti più preoccupanti della crisi della direzione d'orchestra, e si può sostenere che ne sia la causa principale. Negli ultimi vent'anni, con il declino della quantità e della qualità dei direttori migliori, i Maestri sono diventati infinitamente più ricchi, i loro manager personali molto più potenti. Se un agente controlla un numero sufficiente di direttori, può imporre le condizioni ai promotori e ai produttori discografici, e affibbiare pseudodirettori al pubblico ignaro. I direttori fasulli hanno incominciato ad abbondare sul podio, conquistando fama e ricchezza soprattutto in Giappone, dove i criteri di discriminazione musicale sono meno raffinati tra i frequentatori dei concerti. Gli sviluppi recenti hanno dimostrato che Abraham Lincoln aveva torto: oggi un direttore d'orchestra può ingannare sempre tutti.
E allora, come distinguere un talento genuino da un brillante impostore? Data la natura nebulosa indeterminata della direzione d'orchestra è impossibile definire l'arte di buon direttore. Rattle, per esempio, non è in grado di spiegare gran parte di ciò che fa. «Vi sono certe cose che bisogna accettare nella loro esile natura, e una di esse è la musica. Se si cerca di inchiodarla al muro, è finita», disse. [15] «È una sensazione strana, che tutti dovrebbero provare», ha detto Riccardo Muti. «Fai un gesto nell'aria ed esce il suono...» [16]
Nessuno ha mai spiegato perché un uomo, con un gesto fisico svolazzante, può trarre una reazione esaltante da un'orchestra mentre un altro, con gli stessi gesti e parimenti sincronizzato, produce un suono opaco e tutt'altro che eccezionale. Non basta essere un genio della musica. Da Beethoven in poi, molti compositori sono stati umiliati sul podio, e molti solisti geniali sono ritornati intimiditi ai loro strumenti. «Il vantaggio che ho su tutti i direttori», dichiarò James Galway [17] quando, pieno di speranze, intraprese una carriera sul podio, «è il fatto di aver suonato nell'orchestra migliore del mondo, la Filarmonica di Berlino, sotto alcuni dei più grandi artisti del secolo. E so che ci sono cose che posso fare meglio.» Ma risultò che aveva torto, come altri strumentisti eccellenti che cercarono invano di spiccare il salto. L'atto fisico di dirigere un'orchestra si può imparare facilmente; l'aspetto intangibile, spirituale, deve venire da qualcosa di interiore. Una personalità imponente non basta per impressionare un'orchestra. I suonatori esperti sono in grado di dire dopo dieci minuti se un nuovo arrivato possiede o no la dote misteriosa. «Quando un uomo si trova di fronte all'orchestra, sappiamo subito se è un Maestro o no, e lo comprendiamo dal modo in cui sale i gradini del podio e apre la partitura... ancora prima che prenda in mano la bacchetta», scrisse il padre di Richard Strauss, suonatore di corno a Monaco, molto critico nei confronti dei direttori.
Storicamente, i grandi direttori hanno in comune orecchio acuto, carisma per ispirare immediatamente gli strumentisti, volontà di spuntarla, grande capacità organizzativa, efficienza fisica e mentale, ambizione inflessibile, intelligenza potente e un naturale senso dell'ordine che permette loro di arrivare al nucleo dell'arte, diritti attraverso migliaia di note sparse. Questa capacità di conseguire una visione generale della partitura e di comunicarla ad altri è l'essenza dell'interpretazione. Poiché, per usare un'espressione di Alexander Pope, l'ordine è «la prima legge celeste», la sua imposizione viene concepita come un atto semidivino che circonfonde il direttore di un'aureola eterea agli occhi degli orchestrali.
Non tutti i direttori importanti hanno posseduto tutte le caratteristiche necessarie. Molti, nel passato e nel presente, hanno avuto e hanno scarsa cultura e un'intelligenza non superiore alla media, per esempio Hans Richter e Serge Koussevitzky. Alcuni erano irrimediabilmente disorganizzati, deboli fisicamente e privi di ambizione, ma superdotati delle altre caratteristiche in misura sufficiente per avere successo. I requisiti fondamentali della professione sono cambiati ben poco in un secolo e mezzo.
Gli esecutori sanno, nel momento in cui accostano l'archetto alle corde, se hanno a che fare con un comunicatore eccezionale. I membri di un'orchestra da camera abituati a lavorare con direttori piuttosto fiacchi si trovarono a suonare Mozart in Svizzera per due settimane con Georg Solti. Non soltanto il loro timbro cambiò immediatamente, ma dichiararono di aver conservato «il suono Solti» nel loro modo di eseguire la musica per altri due mesi. Alcuni credono di sentire ancora Klemperer nel modo di suonare della Philharmonia, quasi vent'anni dopo la sua morte. Un direttore ospite che provava Tristano e Isolda alla Scala chiese a Victor De Sabata di prendere la bacchetta mentre andava ad ascoltare il suono al centro della sala. È superfluo aggiungere che il suono che sentiva era completamente diverso da quello che aveva prodotto lui. De Sabata, senza pronunciare una parola, aveva imposto il suo dominio all'orchestra con la sola presenza. E questo è uno dei segni caratteristici di una figura dominante.
Un'altra è la capacità di dare vita a un'opera d'arte nuova. Il 19 novembre 1923, per celebrare il giubileo dell'unione di Buda e di Pest, il compositore-direttore ungherese Ernö von Dohnanyi diede tre «prime» importanti: la sua Ouverture-festiva, l'emozionante Psalmus Hungaricus di Zoltán Kodály e, fra l'una e l'altro, la Suite di danze di Bartók, che fu «un clamoroso fiasco». [18] Dohnanyi «non riusciva a trovare la strada in questa musica, e naturalmente non riuscivano a trovarla neppure gli orchestrali», scrisse il suonatore di celesta. Bartók, nel sentire quel caos, commentò: «Be', sembra che io non sappia orchestrare». [19]
Poco più tardi, la Filarmonica Ceca si recò a Budapest. In nome del buon vicinato, Václav Talich mise in programma una recente partitura ungherese, la Suite di danze di Bartók. Il pubblico, che all'inizio era preoccupato, impazzì d'entusiasmo e costrinse Talich a concedere il bis della Suite dall'inizio alla fine. Bartok disse: «Be', sembrerebbe che io sappia orchestrare». [20] Talich aveva diretto la stessa partitura; ma evidentemente era un direttore superiore a Dohnanyi e aveva applicato una maggiore sensibilità al difficile ritmo. Léos Janácek aveva l'assoluta certezza che egli riuscisse a migliorare le sue partiture; e Talich ristrumentò quasi tutta la tragedia d'amore Káta Kabanova. Un metro con il quale si può misurare un grande direttore è la musica nuova cui ha saputo dare vita.
Alcuni Maestri comunicano con gli occhi, altri con tutto il corpo; alcuni parlano e gridano, altri dicono poco o nulla. Di Richter si affermava che non avesse un segreto: «Molto semplicemente conosceva il suo lavoro; era un grande economizzatore di tempo e teneva parecchio alla disciplina». I musicisti delle altre orchestre non riuscivano a capire come gli orchestrali della Filarmonica di Berlino riuscissero a decifrare i movimenti ondeggianti delle braccia di Furtwängler, che non davano alcuna indicazione letterale del numero dei tempi in una battuta. Toscanini, al contrario, batteva il tempo come un metronomo. Entrambi erano direttori famosissimi, ma nessuno dei due si può spiegare in termini scientifici. Avevano in comune un mistero inesplicabile che rafforzava un mito collettivo.
La perpetuazione di un mito richiede la connivenza di scrittori docili. I critici musicali hanno contribuito in modo significativo, anche se involontario, al culto del Grande Direttore, non solo adottando il termine come una frase fatta ma modellando il loro atteggiamento e persino il vocabolario al fine di consolidare questa mitologia. Ogni critico ha il suo Maestro preferito che, con ogni probabilità, è la bestia nera di un altro. Questa partigianeria è il pepe della letteratura musicale, e la controversia contribuisce ad aguzzare le facoltà critiche delle diverse parti in causa.
Nei confronti dei direttori, comunque, c'è una tendenziale simpatia. I tenori possono essere ridicolizzati senza pericolo, la pomposità dei pianisti può essere sgonfiata con la satira: ma i Maestri, come razza, sono sacrosanti, le loro virtù vengono esaltate, i loro peccati nascosti. Alcuni critici si lasciano travolgere dal carisma, altri dalla ricchezza e dal potere. Toscanini era morto da trent'anni quando qualcuno si decise finalmente a scrivere una critica seria del suo modo di dirigere. Furtwängler è ancora venerato come un semidio. I critici hanno tollerato o addirittura esaltato il comportamento bestiale di Koussevitzky e di Szell; hanno elogiato le qualità «spirituali» di uomini le cui attività sociali e fiscali sconfinavano nel criminoso hanno protetto gli inetti e lodato quelli appena discreti.
Ogni tanto può capitare che attacchino un esemplare particolarmente disastroso; ma nei confronti della professione nel suo complesso dimostrano una reverenza che non viene accordata a nessun'altra categoria. Le interviste per i periodici discografici si svolgono su toni ossequiosi, accattivanti e umilissimi. Le stesse riviste contano molto sulla pubblicità delle case discografiche; spesso degenerano in una parodia del giornalismo commerciale, e pubblicano soltanto ciò che gli inserzionisti vogliono far sapere ai lettori.
Gli scrittori di argomenti musicali hanno addirittura modificato il linguaggio, per dare notizia delle attività dei Maestri. Un direttore non va mai a caccia di lavoro: accetta l'invito a diventare direttore stabile. Non rompe i contratti che non gli rendono abbastanza ma «lascia il suo posto per motivi personali e familiari». Non impone mai ai dirigenti discogratlci di ripubblicare i suoi vecchi dischi ma «concede l'autorizzazione per un'edizione speciale». Se non ha voglia di dirigere, non si prende una serata libera, ma si dichiara indisposto; anzi ritarda l'annuncio e permette che il suo nome venga pubblicizzato, pur sapendo che la gente che sta comprando i biglietti dovrà ascoltare un suo modesto sostituto.
E questo non è affatto l'inganno peggiore perpetrato da un direttore d'orchestra moderno e coperto dai giornalisti, il termine stesso «incarico» è colmo di ambiguità. I direttori musicali si proclamamo «totalmente impegnati» con l'orchestra che in quel momento comandano, ignorando per motivi di opportunità il loro legame poligamico con un teatro d'opera in un'altra nazione. Un direttore stabile può anche non vedere la sua orchestra per nove mesi consecutivi, può non conoscere i nomi di metà dei suoi collaboratori mentre incassa due stipendi da mezzo milione di dollari l'uno e consuma la vita fra un jet e l'altro.[21] «Perché queste cose succedono ai direttori d'orchestra?» chiese il redattore di un giornale indipendente. «Per avidità personale, o per l'avidità degli agenti e delle case discografiche che li spingono alla disperazione se non alla distruzione? »
La colpa ricade anche su coloro che vengono meno al dovere di osservare e criticare. Una congiura del silenzio circonda i direttori d'orchestra, una congiura basata sull'interesse e su una muta paura. Il caso di Charles O'Connell non è stato del tutto dimenticato. O'Connell, uno stimato produttore discografico, osò parlare delle vanità dei direttori in un memoriale pubblicato nel 1947. [22] Poco più tardi ammise: «Credo di essermi autoescluso dall'industria musicale» [23] e infatti fu così. Non lavorò più. L'unico memoriale rivelatore che si possa paragonare al suo, quello del produttore britannico John Cuishaw, uscì dopo la morte dell'autore.[24] I direttori hanno un potere autentico, e gli aspiranti iconoclasti vengono tenuti a bada dalla paura di querele per diffamazione e dalle minacce contro le loro fonti di guadagno.
Lo scopo di questo libro è esaminare le origini e la natura del potere dei direttori, e la sua influenza sull'attuale declino della professione. Negli ultimi dieci anni ho discusso l'argomento con musicisti, produttori discografici, agenti, manager di orchestre e persino direttori importanti, nell'ingenuo tentativo di comprendere la relazione fra l'esercizio del potere e l'esecuzione musicale.
Questo non è un trattato contro i direttori d'orchestra. Tutt'altro. Non è neppure una storia critica della professione che assoggetti i diversi protagonisti a un'analisi tecnica e interpretativa. Anzi, molti nomi notissimi sono virtualmente assenti da queste pagine, poiché hanno dato solo un contributo marginale all'evoluzione della politica del potere sul podio. Fra le omissioni più notevoli si contano lo svizzero Ernest Ansermet, grande stravinskiano, e il suo compatriota Charles Dutoit, gli ungheresi Antal Dorati e István Kertész, e moltissimi tedeschi formidabili come Karl Muck e Fritz Busch, Rudolf Kempe, Eugen Jochum, Erich Leinsdorf e Wolfgang Sawallisch. Tutti questi, insieme con altri direttori illustri, sono famosissimi; ma hanno fatto poco per modellare il carattere della professione.
Anziché mettere insieme un altro catalogo dei grandi direttori d'orchestra, mi sono prefisso lo scopo di frugare al di sotto della meccanica del loro lavoro per giungere a comprendere la dinamica sociale, psicologica, politica ed economica di un métier infinitamente affascinante, per analizzano in un linguaggio semplice senza eufemismi, senza fumisterie tecniche e formule di cortesia. Presa dall'inizio alla fine, la storia della direzione d'orchestra è una cronaca di impegno individuale e di ambizione, modulata da violente circostanze nella società esterna. La direzione d'orchestra, come molte forme di eroismo, poggia sull'uso e sull'abuso del potere per beneficio personale. Resta da vedere se questo eroismo è desiderabile nella musica o se è un male necessario. Il suo futuro, comunque, oggi è in dubbio. «Sventurata la terra che non ha eroi», sospira Andrea nella Vita di Galileo di Bertolt Brecht. «No», ribatte l'astronomo, «sventurata è la terra che ha bisogno di eroi.»









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