Intervista a A. Sciacca: Le chiese nel territorio delle aci
Data: Domenica, 13 aprile 2008 ore 18:18:20 CEST
Argomento: Rassegna stampa


Prof. Alfonso Sciacca, cosa si propone questo suo ultimo libro? “Il mio libro si propone come una storia dell’arte locale, la quale ha una sua unitarietà iconografica e religiosa, oltre che, com’è ovvio, artistica. Sicché il racconto dell’arte vuole essere un racconto dell’arte sacra nelle nostre chiese che rimanda a chiari contenuti religiosi ed antropologici. Per tali motivi il mio libro non è una guida per i turisti. Sia ben chiaro: i turisti potranno avvalersene e ne trarranno profitto. Ma il testo non si limita a mere informazioni di dati e di date, perché va oltre queste pur necessarie informazioni per approdare ad una definizione culturale della produzione artistica in questi ultimi quattro secoli: dal Seicento al Novecento. Mancava un’opera del genere, e se ne sentiva il bisogno in questo nostro contesto politico nel quale si avverte la necessità di presentare una summa organica delle nostre peculiarità artistiche perché vengano fruite dai flussi dei visitatori sempre più attenti ed avidi di conoscere quali siano le coordinate culturali del territorio prescelto per confrontarsi con esso come dinanzi allo specchio dell’alterità”.

 

Quali sono le matrici che si evidenziano nell’opera ? “Nella stesura del mio libro ci sono molteplici matrici. La prima (anche se non la più importante) è quella politica. E’ evidente, a chi leggerà il mio libro, il suo intento politico. E, d’altronde, chi mai potrà negare la dimensione

 

“politica” della cultura? Chi potrà veramente apprezzare un lavoro asettico e privo di un’adesione forte e motivata alla materia trattata? Si nota nel mio libro la mia lunga e sofferta militanza politica; il mio appassionato rivolgermi, da politico, al territorio della cultura, per ivi fondarvi le ragioni del mio impegno di assessore e di sindaco. Credo proprio che senza quest’impegno non avrei scritto questo libro, o, forse, non l’avrei scritto come l’ho scritto. C’è stato, insomma, come un ritorno di una forte passione che sembrava sommersa. Un ritorno non in forme ed in espressioni della politica militante, ma in forme sublimate, proprie di chi sente il bisogno di riannodare i fili della propria vita e riallacciare nel presente le corde del passato. Di un passato che in ogni modo non deve essere considerato perduto. Oggi infatti l’impegno del politico è quello di dare dignità al territorio che amministra. Di dare la maggiore fruibilità a beni culturali ed immateriali che esso possiede. Sicché i primi destinatari di questo

 

mio libro sono appunto gli amministratori locali, ai quali il libro vuole esprimere il monito, evitando l’orgoglio di inutili saccenze, che il loro primo impegno è quello della valorizzazione dei beni culturali che appartengono e qualificano in modo irripetibile la nostra storia. La seconda motivazione è collegata al desidero di riscattare la nostra produzione artistica dal territorio della mediocrità. Mi sono sempre più convinto che nessuna arte è “peggiore” o “migliore” rispetto ad altre espressioni. Non v’è dubbio che se volessimo lasciarci guidare da giudizi puramente estetici, potremmo stabilire graduatorie infinite ed assegnare primati a questo o a quello. Ho scritto il mio libro mettendo da parte l’estetica dei buongustai ed, invece, basandomi sulla considerazione che l’arte è comunicazione. Che essa, pertanto, è un tessuto connettivo che lega attorno a sé gli abitanti di un certo territorio (qual è appunto il territorio delle Aci) e dà a ciascuno di essi una precisa identità nell’appartenenza e nella condivisione ai significati che quest’arte propone. Mi sono lasciato guidare, pertanto, dai recenti risultati dell’antropologia che annette sé anche i manufatti artistici, legandoli  all’espressione della vita, alla realtà del vissuto quotidiano, fatto di ansie e di paure, di attese esistenziali e di desideri di sopravvivenze, e, soprattutto, della consapevolezza della fragile precarietà della vita umana, insidiata da carestie e da un Etna sempre incombente. L’arte (ed è questo un convincimento che via via ha preso consistenza scrivendo il libro) non può e per certi versi non deve restare indifferente a questi sentimenti, che essa comunica attraverso il proprio linguaggio iconografico. E questo linguaggio non è fatto solo di segni e di figure, ma è anche una morfologia, una sintassi connettiva, un’idea, una metafora continuata nella quale

 

rivivono i gesti della vita quotidiana ed il senso esistenziale che ci appartiene. La storia dell’arte che ne vien fuori è di questa natura. E’, essenzialmente, un “racconto”. Ed è proprio la scelta di questo titolo che evidenzia le mie matrici culturali, legate ad una formazione classica costante e convinta. Spiegare l’arte è per certi versi come spiegare un testo letterario. Sono rimasto fedele al detto oraziano “come la pittura è la poesia” (ut pictura poesis) dove il termine poesis (dal chiaro etimo greco) non vuole rimandare alla sola poesia,

 

ma a qualunque creazione artistica. “Poiesis” è infatti una parola che equivale a qualunque forma di creazione artistica. Tutte le creazioni artistiche dell’uomo si correlano alla pittura e si leggono come se fossero una pittura: da più lontano e da vicino, soffermandoci ora su questo ora su quell’altro particolare, soppesando la forza espressiva delle suggestioni del colore e della luce, del disegno e dell’impaginazione, della volontà e degli scopi. Lukacs affermava che l’arte esprime un “nonostante” rispetto alla vita. E in questo “nonostante” c’è il peso, ed insieme, la leggerezza, di una profonda e precisa correlazione, che non è solo un facile trasbordare di questa in quella, della vita nell’arte, quanto invece di un passaggio sofferto e dolente, di una metamorfosi esistenziale che affonda le proprie matrici nella consapevolezza della sublime materialità della vita. Ora, anche la nostra arte si porta dappresso il sentimento della vita della nostra gente. E’ un approdo, un passaggio da una sponda all’altra. Dalla sponda della religiosità a quella della materialità, dalla sponda della sofferenza a quella della esaltazione. Un’arte del genere non va descritta, perché non può essere spiegata con le parole del nostro linguaggio: va raccontata. Va cioè trasformata nella forma espressiva di un racconto, che ha la sua struttura, la sua forma espressiva, le sue regole, la sua sintassi. La sua autonomia strutturale. Da qui la scelta del linguaggio del mio libro. Ho cercato un linguaggio facile ed espressivo. Sono convinto che è più facile scrivere in modo difficile ed astruso; e che è molto più difficile esprimersi attraverso il dettato di una forma chiara e facilmente intelligibile. D’altronde che senso può avere “raccontare” e non essere compreso per l’astrusità della forma. I critici d’arte di esprimono spesso attraverso un linguaggio settoriale rivolto agli addetti ai lavori e dal quale sembra essere escluso il lettore non specializzato. Lo storico dell’arte non può permettersi ciò. Egli ha il compito di contestualizzare il prodotto artisitico collegandolo alle coordinato dello spazio e del tempo della storia umana. Ho preteso da me stesso la chiarezza espressiva, evitando note e noticine, rimandi ed appesantimenti dottrinari. Il mio testo deve scivolare come un fiume limpido e tranquillo. Il retroterra culturale il lettore avrà modo di leggerlo, se vorrà, nella nota bibliografica nella quale ho voluto dar conto del territorio culturale delle mie letture e dei miei studi. Un modo ragionato con il quale ho voluto dare indicazioni filologiche, storiche o culturali.

 

T.C.

 

 da AKIS

 

 







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